I due autori principali della fantascienza degli “Anni d’oro” sono nati entrambi nel 1920, cento anni fa. Asimov il 2 gennaio e Bradbury il 22 agosto. In realtà Asimov non sapeva bene quale fosse il giorno esatto, ci scherzava lui stesso dicendo che a quel tempo in Russia si seguiva il calendario Giuliano, di tredici giorni discosto dal nostro, e per di più la sua famiglia era ebrea e quindi rispettava una certa sequenza di festività; inoltre, le anagrafi di quel periodo non erano poi così efficienti.

Sia Asimov che Bradbury raggiunsero il loro massimo fulgore creativo negli anni Quaranta e Cinquanta, quando composero le loro opere principali e più note. Per Asimov ci riferiamo al ciclo della Fondazione e alle storie dei Robot (entrambi scritti tra il 1942 e il 1950), per quanto concerne Bradbury viene spontaneo pensare ai racconti che composero poi il capolavoro Cronache Marziane (1947-1950) e al romanzo Fahrenheit 451 (1953), più numerosi altri racconti.

Quando cominciai a leggere fantascienza in maniera sistematica, Asimov e Bradbury erano considerati i due mostri sacri per eccellenza. C’erano tanti autori bravissimi, da Heinlein a Sheckley a Simak a Sturgeon, ma Asimov e Bradbury li battevano tutti. Erano paradigmatici. E diversi. Costituivano, nel nostro immaginario giovanile, le due facce opposte della stessa medaglia.

La stessa medaglia era quella della letteratura di fantascienza che ancora, e più di prima, in quegli anni Quaranta e Cinquanta riusciva a trasmettere il senso del meraviglioso che le era peculiare. Più di prima perché le opere degli autori di questo periodo erano ben più mature dei racconti e dei romanzi degli autori della generazione precedente come E.E. “doc” Smith, Donald Wandrei, Laurence Manning, Murray Leinster, Raymond Z. Gallun, scrittori certamente validi ma la cui narrativa peccava di una ingenuità, di una superficialità letteraria che non ha retto l’urto del tempo.

Le cose cambiarono con Stanley G. Weinbaum e con John W. Campbell, autori che maturarono una superiore consapevolezza letteraria, che, potremmo dire, salirono un gradino al di sopra delle esigenze espresse dai pulp. Weinbaum morì troppo presto. Campbell si dimostrò un ottimo scrittore ma, soprattutto, un grande editor, capace di allevare un’intera generazione di validissimi scrittori. Asimov fu senz’altro fra questi, ma anche Bradbury in fondo, sebbene in maniera diversa: perché per il direttore di Astounding le storie di Bradbury erano troppo vicine al fantasy, all’horror.

Bradbury non era poi così interessato alla verosimiglianza tecnologica e scientifica dei suoi racconti. Su Marte faceva agire dei Marziani che si sapeva bene già allora non potessero esistere. E i razzi che giungevano sul Pianeta Rosso non venivano spiegati, così come i viaggi, i sistemi tecnologici per sopravvivere… A Bradbury interessavano altri aspetti, che sono quelli della poesia, del sogno, delle profondità dell’animo. Prendiamo il primo racconto di Cronache Marziane, nelle prime righe: “I coniugi K vivevano da vent’anni presso il mare estinto e i loro avi avevano vissuto nella stessa casa, che girava su stessa, seguendo il sole, come il fiore, da dieci secoli. I coniugi K non erano vecchi. Avevano la pelle ambrata dei veri marziani, gli occhi come gialle monete, le voci molli e armoniose…”

Bellissimo, scientificamente assurdo, letterariamente affascinante.

Eppure Bradbury qualcosa deve a Campbell. Me lo disse lui stesso in quel gennaio del 1986 quando con Forrest Ackerman e con Betti Filippini andai a fargli visita; nel suo studio, a Beverly Hills, disse più o meno così: “Campbell mi trasmise l’importanza della concretezza, dell’ossatura salda di una storia”.

Probabilmente, Asimov fu il figlio prediletto di Campbell e le sue storie incarnarono perfettamente l’idea di fantascienza che Campbell coltivava: d’altro canto, Asimov amava la scienza quanto la fantascienza: si laureò in chimica, anche se praticò soltanto sotto le armi. Le sue storie presentavano uno sviluppo logico, consequenziale, scientificamente plausibile, che sapeva tuttavia risultare sorprendente. Riguardo a Campbell, Asimov scrisse: “Io ho vissuto l’età dell’Oro della fantascienza nel modo migliore possibile, perché sono stato tra i primi nuovi scrittori scoperti da Campbell, e sono certo che egli non provò mai per alcun altro scrittore un interesse così personale, quasi paterno”.

Bradbury era nato nell’Illinois e in quello stato del nord degli Stati Uniti rimase fino ai quattordici anni, poi i suoi genitori si trasferirono a Los Angeles. I paesaggi della sua infanzia ritornano in Cronache Marziane, da subito, nella prima pagina, anche se sono spostati nel vicino Ohio. “Fino a un istante prima era ancora l’inverno dell’Ohio, le porte chiuse, i vetri alle finestre ricoperti di brina, stalattiti di ghiaccio a frangia di ogni tetto, bimbi che sciavano sui pendii, massaie dondolanti come grandi orsi neri nelle loro pellicce sulle vie gelate”. Fu in quegli anni che Bradbury incontrò la magia del circo. In particolare fu l’incontro con l’Uomo Elettrico a suggestionarlo profondamente. A Bradbury il circo faceva tristezza, ma allo stesso tempo lo affascinava. C’erano nel circo la malinconia e una certa malandata, povera meraviglia. L’Uomo Elettrico gli disse che lui, Ray, era la reincarnazione di un suo amico che era morto durante la Prima guerra mondiale… Bradbury raccontava che fu in quel momento che decise di scrivere, ogni giorno della sua vita.

Poi ci fu il trasferimento a Los Angeles, il grande amore per la science fiction, l’incontro con autori come Henry Kuttner, Catherine L. Moore, Robert Heinlein, Leigh Brackett (che lo ispirò con le sue ambientazioni marziane)… entrò in un gruppo di fan che si incontravano ogni settimana. Il giovane Ray diede vita anche a una fanzine: Futura Fantasia. Nel 1939 partecipò alla sua prima convention di science fiction, volando fino a New York, e due anni dopo vendette il suo primo racconto, Pendulum, scritto con Henry Hasse, al pulp Super Science Fiction. Lo stile del giovane Ray si distingueva già per il non consueto livello letterario, era ricco dal punto di vista lessicale, denso di metafore, di similitudini, analogie. Non si trattava certo dello stile secco e asciutto preferito dai lettori del tempo, e nemmeno quello che voleva Campbell, che pur riconosceva le qualità letteraria del giovane. Nel 1944 i racconti di Bradbury, con tocchi di horror e di fantasy, approdavano a Weird Tales, la principale rivista di “Letteratura dell’insolito” che veniva pubblicata negli Stati Uniti; sulle sue pagine scrissero autori indimenticabili, a partire da Lovecraft e Howard, ma pure Leigh Brackett, Fritz Leiber, Theodore Sturgeon. Il talento letterario del giovane Bradbury venne notato anche al di fuori delle riviste di science fiction: nella seconda metà degli anni Quaranta cominciò a collaborare anche con pubblicazioni di prestigio del panorama giornalistico-letterario americano come Collier’s e Newyorker.

La vicenda di Asimov non è del tutto diversa. Il piccolo Isaac era nato in Russia, i suoi genitori emigrarono negli Stati Uniti quando aveva due anni. Il padre prese in gestione un negozietto, un po’ drogheria, un po’ tabaccheria e un po’ edicola, un candy store, quando Isaac aveva sei anni. In quei mesi uscì il primo numero di Amazing Stories, la prima rivista di fantascienza di Hugo Gernsback, ma il piccolo Isaac poté leggerla solo a partire dal 1929, insieme a Science Wonder Stories e Air Wonder Stories. Era l’alba della fantascienza, che, nata dalla penna di Mary Shelley, Jules Verne, Herbert George Wells, diventava un genere letterario popolare, a se stante. In quei mesi apparve il primo grande romanzo da pulp: The Skylark of the Space di Edward E. Smith, al quale Asimov volle molto bene, pur essendo consapevole dello scarso valore di quest’opera, che tuttavia all’epoca aveva avuto un grande successo. Anni dopo Asimov ne scrisse: “Dal punto di vista letterario, era uno schifo sommo: ma era qualcosa di più, molto di più, che una semplice opera letteraria: offriva l’avventura, e di un genere senza precedenti! C’era la prima comparsa del volo interstellare…”

Come Bradbury, Asimov divenne un divoratore di racconti e romanzi di science fiction. Un vero fan. Scrisse molte lettere ad Astounding Stories quando questa era già guidata da Campbell. Nel 1938 venne invitato a una riunione di un gruppo di appassionati, la Queens Science Fiction League. Scrisse Asimov: “Lasciai per qualche ora il negozio (era domenica pomeriggio, quando gli affari vanno a rilento) e presenziai. Per la prima volta mi unii con altri lettori di fantascienza… c’erano Fred Pohl, Richard Wilson, Donald Wollheim, Sam Moskowitz e Scott Meredith.”

Il suo primo racconto, Naufragio al largo di Vesta, apparve l’anno dopo su Amazing.

La maturazione del giovane scrittore fu rapida. Negli anni Quaranta Asimov scrisse i racconti che poi andarono a formare il nucleo fondamentale del ciclo della Fondazione, la celebre Trilogia galattica.

Quanto lo stile di Bradbury era metaforico e visionario, lirico, quello di Asimov era asciutto, lineare, pulito. “L’Impero Galattico stava crollando. Era un impero colossale che comprendeva milioni di mondi da un capo all’altro della immensa doppia spirale chiamata Via Lattea. Il crollo di un tale impero era altrettanto colossale quanto lento, data la sua vastità”. Siamo all’inizio del secondo libro della Fondazione. Le parole di Asimov si collocano in frasi semplici, dirette, ma che tuttavia riescono in pochi tratti a dare il senso di grande respiro della storia. Altra caratteristica basilare di Asimov fu la plausibilità scientifica delle sue storie, che discendeva dal suo amore per la scienza. Mentre per Bradbury la scienza era, in fondo, veicolo del sogno e del lirismo (ma a tratti anche della paura e dello sgomento), in Asimov la scienza stessa appariva come meraviglia, come poesia. E questo nonostante le bombe di Hiroshima e Nagasaki avessero gettato un’ombra e incrinato la fede nella tecnica. Ma Asimov continuò a credere nella scienza, nella ricerca come cosa buona in sé, nonostante l’uomo la possa svilire, sporcare. Tradire. La scienza è meraviglia, ma può diventare incubo. Tutto dipende dall’uomo.

Le grandi architetture di Asimov, le metafore sognanti di Bradbury. Abbiamo chiesto a quattordici autori italiani di fantascienza se volessero scrivere dei racconti in qualche modo legati ai due grandi maestri. Abbiamo ricevuto soltanto risposte entusiastiche. E allora eccoli qui, questi autori, che cento anni dopo la nascita di Asimov e di Bradbury, settanta anni dopo la fine dell’“età dell’oro” della fantascienza, scrivono ispirandosi ai due grandi scrittori.

Qualcuno ha deciso di entrare profondamente nel mondo dei due maestri. Il racconto di Francesco Troccoli ispirato a La fine dell’eternità quasi quasi sembra uscito dalla penna del buon dottore. Come, sul versante di Bradbury, Luigi Calisi si è direttamente ispirato al famoso racconto Il Veldt (che in Italia ebbe una versione teatrale a cura del Pandemonium Teatro di Bergamo come La stanza dei leoni); anche Angela Clerici ha puntato in maniera evidente alle atmosfere di Bradbury: le sue pagine rievocano decisamente Cronache Marziane. Altri scrittori invece hanno interpretato a loro modo temi e ispirazioni dei due maestri. Con risultati che avete davanti agli occhi e che giudicherete. Gli autori sono sette per parte: Emanuela Valentini, Dario Tonani, Angela Clerici, Nino Martino, Alain Voudì, Luigi Calisi e Giulia Abbate si sono ispirati a Ray Bradbury. Francesco Troccoli, Alessandro Vietti, Silvio Sosio, Franci Conforti, Lorenzo Crescentini, Maico Morellini, Davide Del Popolo Riolo hanno scritto pensando al buon dottore.

Completano l’opera due autori riconosciuti come maestri, in qualche modo ispiratori per i giovani Asimov e Bradbury.

Per Isaac Asimov abbiamo scelto Stanley Weinbaum con Il pianeta dei parassiti. Scriveva lo stesso Asimov: “Weinbaum, sebbene a quel tempo non lo sapessimo, era un autore ‘di Campbell’ prima ancora che Campbell avesse cominciato a plasmare un intero gruppo di ‘suoi’ autori. Se avesse continuato a scrivere per interi decenni, forse ci sarebbe stato meno bisogno di Campbell. Ma Weinbaum non visse a lungo. Per un anno e mezzo continuò a pubblicare racconti in rapida successione, suscitando crescente entusiasmo nei suoi lettori. Poi, all’inizio del 1936, morì di cancro, e tutto finì”.

Tra gli autori per i quali il giovane Bradbury nutriva una speciale passione c’era Edgar Allan Poe, con la sua scrittura profonda, inquietante, immaginativa. Ma anche le visioni di Burroughs con il suo John Carter di Marte ebbero un’influenza profonda sul Bradbury ragazzo. Che non certo per caso si innamorò di Marte e che proprio su Marte ambientò la sua opera forse più riuscita, più innovativa, più stupefacente e poetica: Cronache Marziane. Proprio in questo libro Bradbury dichiara il suo amore per Edgar Allan Poe con un episodio che ha per titolo Usher II e che comincia addirittura con una citazione diretta del celebre La caduta della casa degli Usher: “Per tutta una tediosa, cupa e silente giornata d’autunno, in quella stagione dell’anno quando le nubi incombono basse e opprimenti nel cielo, avevo viaggiato solitario, a cavallo, per un tratto di campagna singolarmente selvaggio, fino a ritrovarmi, al primo addensarsi delle ombre del crepuscolo, in vista della malinconica Casa degli Usher…”.(1)

Nota

(1) During the whole a dull, dark, and soundless day in the autumn of the year, when the clouds hung oppressively low in the heavens, I had been passing alone, on horseback, through a singularly dreary tract of country, and at length found myself, as the shades of the evening drew on, within view of the melancholy House of Usher.