Il compito della fantascienza, lo sappiamo, non è prevedere il futuro ma parlarci del presente collocandolo in un altro tempo o in un altro spazio: in qualsiasi epoca sia stato scritto, un buon romanzo di fantascienza parla sempre al lettore contemporaneo.
Non sono mancati però i romanzi in grado di fare previsioni spaventosamente vicine alla realtà: è il caso della Peste scarlatta di Jack London, romanzo breve del 1912 ritornato di attualità in queste settimane di pandemia.
Pur non essendo il primo romanzo post-apocalittico (come al solito il primato va a Mary Shelley con L'ultimo uomo) è certamente uno dei più impressionanti per le capacità predittive dell'autore: nell'estate 2013 un «germe» letale, che si manifesta inizialmente con un'eruzione cutanea di colore scarlatto, si diffonde con rapidità tra gli esseri umani, portando in breve al crollo di ogni forma di civiltà e una regressione a uno stadio bestiale, e infine la scomparsa quasi definitiva del genere umano.
Anni dopo, i pochi sopravvissuti ricostruiscono delle piccole comunità tribali, in cui i più forti governano con violenza e arbitrio.
Il racconto prende le mosse nel 2073, quando uno degli ultimi superstiti, un vecchio professore universitario regredito come tutti a uno stadio primitivo, racconta intorno al fuoco ai suoi nipoti i momenti cruciali del crollo della civiltà: un racconto frammentato da digressioni, perché alle nuove generazioni il vecchio deve spiegare tutto, i grandi numeri, i germi, la radio, le aeromobili. I ragazzi, selvaggi e sguaiati, non capiscono, credono solo in ciò che si vede, deridono il vecchio per il suo racconto nostalgico.
Quello che certo colpisce del romanzo di London, letto a oltre un secolo di distanza, è la precisione con cui descrive alcune dinamiche che si innescano anche oggi: la malattia si diffonde a New York, in meno di ventiquattr'ore si sposta a Chicago, già da alcune settimane affligge Londra che censura la notizia, ma in California nessuno si preoccupa: il contagio è altrove, e ciò che non si vede non esiste (come affermeranno gli stessi bambini ascoltando la storia del Nonno), non c'è motivo di cambiare abitudini di vita, finché non sarà troppo tardi per farlo.
Del resto è una guerra che già stanno combattendo i batteriologi, che in passato hanno avuto successo con altre epidemie, perché preoccuparsi? Ma sono proprio i ricercatori le vittime più colpite dal contagio:
Erano degli eroi. Come ne moriva uno, un altro si faceva avanti per sostituirlo. Isolarono per primi il germe a Londra. La notizia fu telegrafata ovunque. L’uomo che aveva portato a termine l’impresa si chiamava Trask, ma nel giro di trenta ore era morto. Poi tutti i laboratori si impegnarono nella ricerca di qualcosa che uccidesse i germi della peste. Non si trovava un farmaco adatto. Il problema, vedete, era trovare un farmaco, o siero, che uccidesse i germi presenti nel corpo senza uccidere il corpo. Cercarono di combatterlo con altri germi, di iniettare nel corpo di un malato germi nemici dei germi della peste…
Il fatto che la morte sopraggiunga in poche ore dal manifestarsi dell'eruzione cutanea suggerisce l'errata convinzione di un'incubazione breve: in realtà ci vogliono alcuni giorni perché la malattia si manifesti, e quando lo fa uccide quasi all'istante e senza scampo.
Il cuore accelerava i battiti e la temperatura corporea saliva. Poi l’eruzione cutanea scarlatta si diffondeva in un baleno sul viso e sul corpo. I più non si accorgevano nemmeno dell’aumento di temperatura e dei battiti cardiaci e la prima cosa che notavano era l’eruzione scarlatta. Di solito, al momento della comparsa dell’eruzione avevano le convulsioni. Ma queste non duravano a lungo e non erano molto violente. In chi superava quella fase, subentrava una grande calma e solo allora la persona avvertiva un torpore che dai piedi risaliva velocemente il corpo. Il torpore attaccava prima i calcagni, poi le gambe e i fianchi, e quando arrivava all’altezza del cuore la persona moriva. Non piombava nel sonno o nel delirio. La mente conservava la calma e la lucidità fino al momento in cui il cuore intorpidito si arrestava. E un’altra stranezza era la rapidità della decomposizione. Non facevano in tempo a morire che subito il corpo sembrava andare in pezzi, sbriciolarsi, dissolversi sotto i tuoi occhi. Questa fu una delle ragioni della rapidità con cui il contagio si diffuse. Tutti i miliardi di germi di un cadavere venivano così liberati all’istante.
Prescindendo dalle nozioni biologiche e mediche un po' generiche (ricordiamo però che è un professore di letteratura che narra la storia a un gruppo di ragazzini non scolarizzati) e dalla scarsa capacità immaginativa dell'evoluzione tecnologica del ventunesimo secolo (le comunicazioni sono ferme a radio e telegrafo) l'aspetto più interessante del romanzo sta nella rappresentazione sociale.
Se i germi sono una causa naturale, è la società umana, così come si è strutturata, il bersaglio della critica di London: la catastrofe investe un sistema capitalistico avanzato che ha soppiantato di governi in nome del profitto: il Consiglio dei Magnati e dell'Industria domina un pianeta dividendo manicheisticamente l'umanità in padroni e servi.
I protagonisti provengono dalla classe alta di una città universitaria, in un primo momento credono di essere al sicuro tra le mura della facoltà di Chimica, finché non si rendono conto che il germe è già con loro, in attesa di manifestarsi. Di fronte a una morte fulminea, la perdita dell'umanità non è troppo graduale, fin dai primi giorni questa comunità protetta dalle certezze della propria cultura non esita a scacciare chi manifesta la malattia, a sacrificare vite per allontanare i cadaveri e infine mettersi in marcia verso la campagna abbandonando lungo la strada i contagiati; durante l'esodo, uno dei professori fugge con l'unica auto e le provviste del gruppo; ma poco importa, perché il contagio risparmia solo i pochi immuni, come il vecchio, che dopo anni di solitudine tra le montagne si imbatterà nelle tribù della California formate dai pochi superstiti.
È qui che emerge il pessimismo dell'autore: la nuova società nata dalle ceneri della civiltà umana sembra tutt'altro che migliore; regrediti a uno stadio primitivo, gli uomini più forti tiranneggiano i deboli, si appropriano delle donne che trattano come schiave, dimenticano ciò che hanno imparato prima della Peste Scarlatta, e si preparano a rifare gli stessi errori del passato. Così riflette amaramente il Nonno alla fine del suo racconto:
La stessa vecchia storia si ripeterà. L’uomo si moltiplicherà e gli uomini si combatteranno. La polvere da sparo permetterà agli uomini di uccidere milioni di uomini, e solo a questo prezzo, con il fuoco e con il sangue, si svilupperà, un giorno ancora lontanissimo, una nuova civiltà. E a che pro? Come la vecchia civiltà si è estinta, così si estinguerà la nuova. Ci vorranno forse cinquantamila anni per costruirla, ma finirà per estinguersi. Tutto si estingue.
Sussisteranno soltanto la forza e la materia, in perenne mutamento, che a furia di agire e reagire realizzeranno i tre tipi eterni: il prete, il soldato e il re. Dalla bocca dei bambini esce la saggezza senza età. Ci sarà chi lotta, chi comanda e chi prega; e tutti gli altri faticheranno e soffriranno assai mentre sulle loro carcasse sanguinanti tornerà sempre e comunque a innalzarsi in eterno la bellezza stupefacente e la meraviglia incomparabile della civiltà. Tanto varrebbe distruggessi i libri immagazzinati nella grotta: che restino o spariscano, tutte le loro antiche verità saranno scoperte, le loro antiche menzogne vissute e tramandate. A che pro…
Conclude Ottavio Fatica nella postfazione:
La condanna di chi non rammenta il passato è replicarlo. La condanna di chi lo ricorda è vederlo replicare sotto gli occhi senza poter fare niente per precluderlo. Magra consolazione, gli uomini del futuro prospettato da Jack London potranno sempre dirsi pronti per la quarta guerra mondiale, quella che si combatterà con selci e clave.
Mai come oggi queste parole dovrebbero farci riflettere.
Già proposto dalla Nord con un titolo leggermente diverso (Il morbo scarlatto) insieme ad altri racconti fantastici di Jack London e un'introduzione di Philip J. Farmer che dovrebbe fugare ogni dubbio circa la collocazione del romanzo, bisogna dire che una volta tanto anche il volume Adelphi lascia intendere l'appartenenza al genere fantascientifico: «opera pseudoscientifica, così la definisce l’autore in una lettera – la formula “science-fiction” non è ancora invalsa».
Lo stesso Fatica sottolinea infine l'influenza che il romanzo di London ha avuto (insieme a La nube purpurea di M. P. Shiel, del 1901) sulla successiva produzione post-apocalittica: da L'ombra dello scorpione di Stephen King a La strada di Cormac McCarthy, passando per capisaldi della fantascienza come Io sono leggenda di Richard Matheson e Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller.
Una carrellata di storie catastrofiche (a cui si potrebbero aggiungere innumerevoli altri titoli) che in effetti parrebbe smentire la premessa iniziale secondo cui la fantascienza non prevede il futuro. Ma a ben guardare la conferma: dopo l'ubriacatura positivista, il Novecento è stato il secolo del dubbio, della diffidenza nei confronti di una scienza che aveva promesso meraviglie e che invece ha solo creato nuove disuguaglianze.
La cattiva strada su cui ci siamo avviati nel secolo che ci separa dalla Peste scarlatta era già evidente agli occhi di uno scrittore attento come London, che con il suo romanzo ha voluto metterci in guardia: purtroppo non l'abbiamo ascoltato.
1 commenti
Aggiungi un commentoSperiamo che London non ci abbia preso anche con L’invasione della Cina.
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