Un mattino bigio e piovoso ci accoglie fuori dall’hotel. Inutile nascondere che le nostre menti accarezzano per un istante l’idea di tornare a letto, ma sarebbe deprecabile saltare la proiezione del mattino, l'impareggiabile classico Starship Troopers. Se avete vissuto in un bunker senza corrente e non l'avete mai visto, il succo è questo: in un futuro simpaticamente fascistoide, la società umana militarizzata dichiara guerra a un pianeta di insettoni giganti. A presentare la pellicola in sala c’è nientepopodimeno che il doppio premio Oscar per gli effetti speciali Phil Tippett, che decide pure di fare una foto al piccolo pubblico della sala del Miela. Racconta di aver letto da ragazzino Fanteria dello spazio, il libro di Robert A. Heinlein da cui il film è tratto, e di averlo liquidato dopo poche pagine come fascist bullshit.
Inspiegabilmente interpretato da molti come una pellicola parafascista, l'opera di Verhoeven è invece una satira antimilitarista, parodia dell'America imperialista e guerrafondaia (basti pensare ai soldati che distribuiscono proiettili ai bambini). Tippett racconta che la realizzazione del film è stata complicata e che la quantità enorme di lavoro stava per fargli gettare la spugna. Ma grazie a un sogno è riuscito a scalare la montagna: “Ho realizzato che dovevo procedere un passo alla volta, una cosa dopo l’altra”. Beh, ce l’hai fatta Phil. A distanza di vent’anni quegli insettoni fanno ancora la loro porca figura. “È un film profetico che prevede l’esatta successione degli eventi dell’undici settembre: attacco terroristico, discorsi patriottici, reazione insensata e trame economiche sotto le logiche della guerra” azzarda l’accompagnatore Alexandre Poncet, autore di un documentario su Tippett in programmazione l’ultimo giorno del festival.
Uscendo dal Miela rimaniamo incastrati nella calca di fan alla ricerca di selfie che Tippett, con la disperazione negli occhi, accetta pazientemente di farsi fare.
Vedere tutti quei massacri di insetti, chissà perché, ci ha fatto venire appetito. Oggi siamo in vena di farci del male, perciò diamo un duro colpo al nostro fisico andando in un fast food. Sapete, c’è qualcosa di molto cinematografico nel trangugiare panini incartati e patatine fritte ciucciando coca da una cannuccia. L’unico rammarico è non poter ordinare “un quarto di libbra col formaggio”.
Odorosi di fritto ci accomodiamo sulle poltrone del Rossetti sorseggiando un caffè nero (ché a Trieste se vuoi un caffè devi specificare che lo vuoi nero “altrimenti chissà che ti arriva” specifica un’avventrice del bar del teatro). Da un titolo come Jesus shows you the way to the highway non sai bene cosa aspettarti. Prima della proiezione, il regista Miguel Llansó spiega che ha tratto ispirazione da due figure: Werner Herzog e Bud Spencer. Ed è davvero difficile inquadrare questo film retro-futurista, in cui due agenti della CIA intraprendono un viaggio nella realtà virtuale per debellare un virus informatico chiamato Unione Sovietica. Una trama intricata, un'estetica b-movie anni '70, un susseguirsi di personaggi a dir poco assurdi – vedi l’enigmatico Batfro, il primo ministro corrotto di Betta Etiopia che gira vestito da Batman o l'adorabile nano gobbo di colore – e grafiche ispirate al Commodore 64.
Aggiungete anche una recitazione sopra le righe e un umorismo fatto di sketch osceni in cui se all’improvviso comparisse Bombolo non faremmo una piega (uno dei cattivi indossa, inspiegabilmente, la maschera di Celentano). In questo improbabile contesto c'è pure un discorso più profondo sul capitalismo e sulla globalizzazione da un punto di vista afro-futuristico, come lo definisce lo stesso regista. Molta roba in questo film, pure troppa, tanto che può risultare difficile seguirlo fino alla fine. Ma se ci si lascia trasportare senza voler a tutti i costi dare definizioni si capisce che questa pellicola è delirante come lo è la realtà in cui viviamo, zeppa di contrasti e contraddizioni, spesso grottesca e surreale ma anche dolce, eroica e commovente.
C’è giusto il tempo per prendere una boccata d’aria nel mondo reale prima di reimmergersi nelle atmosfere cupe di Ghost Town Anthology, uno pseudo-horror che ti fa entrare il freddo nelle ossa e l’inquietudine nello stomaco. Un villaggio isolato di duecento abitanti viene scosso dalla morte di un giovane, avvenuta in strane circostanze. Il dolore che grava sugli abitanti sembra diventare un carico troppo pesante da portare e ognuno reagisce a modo suo: chi andandosene, chi ostinandosi ad affermare che tutto va bene, chi chiudendosi nella negazione della realtà. Al dolore si aggiungono la paura e il disagio per l’improvvisa comparsa di persone che fissano immobili gli abitanti del paese, mentre la neve comincia a sciogliersi in ogni inquadratura. Lo snodarsi lento e silenzioso del racconto trascina lo spettatore dentro le vite degli abitanti, che sembrano ormai sgocciolare anch’esse quasi stessero per disfarsi, attanagliati da paure e speranze a cui non si riesce più a credere. La presenza di queste figure misteriose invade quell’universo statico e ne sporca il bianco: migranti tra la vita e la morte, questi intrusi sembrano reclamare silenziosi un posto nel villaggio che gli abitanti non hanno intenzione di concedere.
Esemplare in tal senso la scena del sindaco che, in preda a deliri micronazionalistici, tira una bottiglia di vodka contro gli invasori. Il regista Denis Cotè racconta che uno degli elementi che hanno ispirato il suo film è "il susseguirsi di episodi di immigrazione illegale in Quebec, che hanno creato un’ordinaria xenofobia". La presenza di questi stranieri mina l’ordine del villaggio e la gente ne è spaventata: non vi suona familiare? Dietro la maschera dell’horror si nasconde una delicata analisi sociale, che indaga lo sfaldamento del tessuto comunitario, la crisi dei migranti, la riluttanza all’apertura e l’irrigidimento identitario. Il senso di sospensione pervade la pellicola dall’inizio alla fine e c’è da dire che lascia un po’ l’amaro in bocca, ma senza deludere.
Siamo qui per raccontare la nostra esperienza in questo festival e dovremmo vedere più film possibili, ma appena a fianco al Rossetti c'è la zona riservata a ospiti, staff e stampa. Difficile resistere all’idea di assaggiare vini locali con a fianco Brian Yuzna. “Sono stato a trovarlo nella sua casa al mare ed è una persona squisita” rivela Lorenzo, uno dei fondatori del festival che spesso si occupa dell’accoglienza degli ospiti. “Anni fa abbiamo passato belle serate con Terry Gilliam, tanto che una volta abbiamo dovuto riaccompagnarlo in hotel a spalla” rivela Martina, una delle altre colonne del festival. La Cappella Underground, l’associazione dietro al Science+Fiction, è formata da un manipolo di persone colte e motivate, che da ormai vent’anni rinnovano la loro collaborazione professionale. L’impressione è che uno dei punti di forza del festival sia proprio il rapporto di amicizia che lega molti di loro, che in qualche maniera infonde all’evento un’atmosfera rilassata e scherzosa. E questo privé del Rossetti, come dicono i triestini, è proprio il centro del remitùr, dove il volume delle voci sale.
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