A Lucio 

Mancavano pochi minuti alle otto di un mattino come tanti e la fila di uomini e donne procedeva con passo cadenzato verso l’ingresso degli uffici. I loro volti avevano un’espressione serafica e nessuno appariva ansioso per il lavoro che avrebbe dovuto svolgere per tutta la giornata né triste per le ore che avrebbe passato rinchiuso lì dentro e, sebbene fossero vestiti con abiti di foggia e colori diversi, sembrava che una patina li uniformasse in una grigia massa. Solo dopo aver passato il controllo per le presenze, che avveniva sfiorando appena con il polso destro − quello con il chip − il rilevatore, dalla massa si staccava il singolo diretto alla propria destinazione.

Anche Loris Belforte si diresse con passo costante verso il proprio ufficio, terza porta del DipDB, il Dipartimento del Demo-Benessere. Non aveva alcuna necessità di affrettarsi: l’orario era perfetto e il percorso quello giusto come sempre: sarebbe arrivato alla propria postazione alle otto in punto. Nel rispetto del lavoro altrui, perché ogni lavoro è fatto per il popolo!, come recitava uno dei tanti slogan del governo.

Arrivò alla porta nello stesso istante in cui giunse il collega di stanza, di cui ricordava solo il cognome: Sensale; questo era un fatto usuale tra colleghi dello stesso ufficio, un po’ come quando alle elementari ci si rivolge ai compagni appellandoli con cognome, abituati come si è a sentire l’insegnante fare l’appello e a chiamarli in questo modo. Almeno così pensavano tutti.

La loro teste si mossero all’unisono in un cenno di saluto. Loris, essendo stato assunto da meno tempo, entrò nell’ufficio dopo aver ceduto il passo al collega, com’era di consuetudine, e ognuno di loro prese posto agli estremi della scrivania: Loris dando le spalle al muro, Sensale alla porta. Questo e l’uscita erano uno dei pochi momenti in cui lo sguardo tra colleghi si incrociava ma, ad ogni modo, il cerimoniale previsto non permetteva di intrattenersi con stupide formalità, quali saluti prolungati o dialoghi se non strettamente pertinenti al lavoro, cosa che accadeva sempre più di rado in considerazione dell’automatizzazione e della digitalizzazione del lavoro.

L’ufficio, illuminato dalla fluorescenza che calava dal soffitto in modo adeguatamente studiato, aveva le dimensioni giuste per contenere quel poco di mobilio che serviva: al centro del locale c’era una scrivania doppia, sul cui ripiano di legno sintetico erano disposti i megaschermi da lavoro sistemati l’uno contro l’altro così da impedire la possibilità di dialogo tra colleghi; due sedie ergonomiche, personalizzate per adattarsi alle esigenze del singolo impiegato, erano agganciate alle estremità del tavolo così da limitarne gli spostamenti; sulla parete libera era presente un piccolo mobile sul cui ripiano, chiusi in cupole trasparenti di bio-policarb, erano disposti alcuni generi di conforto (caffè decaffeinato, dolcificanti e biscotti integrali AutoVax che rinforzavano le difese immunitarie personali, necessari da quando non c’erano più i vaccini); al di sopra del mobile campeggiavano alcuni schermi olografici con messaggi di lavoro e consigli sui comportamenti che ogni cittadino doveva tenere nei confronti del resto del popolo.

Loris non degnò neanche di uno sguardo i beni di conforto, ben sapendo che il quarto d’ora di pausa per lui era previsto alle undici e quindici (il suo collega di stanza avrebbe avuto a disposizione i quindici minuti precedenti così da non lasciare mai sguarnita la postazione e limitare al massimo le occasioni di incontro e perdite di tempo del personale), e prese a sedere al proprio posto. Il sistema riconobbe il suo chip e la sedia si conformò secondo le esigenze che richiedeva il corpo di Loris mentre lo schermo s’illuminava.

− Buongiorno Loris disse la suadente voce femminile che il sistema aveva scelto in base al sesso, alle preferenze e ai trascorsi di Loris, così come era programmato che avvenisse per ogni impiegato.

− Ciao, Luana. Procedura standard.

Quest’ultima prevedeva che si accedesse alla sezione EsseA, quella delle Segnalazioni Anonime.

Circa dieci anni prima, verso il 2040, il governo aveva proclamato che i ricordi spiacevoli dovevano essere banditi per dare serenità al popolo. Per questo aveva cominciato a trattare con adeguati supporti psicologici e educativi i cittadini fin da piccoli, favorendo l’eliminazione dei ricordi dei brutti voti presi a scuola, delle malattie e anche della perdita delle persone care o degli animali a cui erano legati. E se questo non fosse stato sufficiente, chiunque avrebbe potuto rivolgersi volontariamente ai siti preposti per i trattamenti intensivi nei CePsiR, i centri di psico-riconversione, compilando l’apposito format, rispondendo alle relative domande e argomentando con dovizia di particolari le ragioni che sostenevano tale richiesta. Ma questo parve non essere sufficiente e quindi fu inaugurato anche il sito EsseA. In esso, un cittadino modello poteva segnalare il comportamento asociale o che giudicava non in linea con la felicità e il benessere del popolo, che aveva notato in parenti, in vicini o in conoscenti o anche occasionalmente in sconosciuti, il tutto senza che il suo nome fosse reso noto.

Anche quella mattina le segnalazioni fioccavano, ma solo una attrasse l’attenzione di Loris. Il sistema aveva giudicato attendibile l’anonimo cittadino modello, che in realtà era il generale in pensione Carlo Gassini già autore di svariate segnalazioni, tutte rivelatesi esatte.

Loris lesse accuratamente l’informativa e, senza che sul volto comparisse alcuna espressione di compiacimento o di dispiacere per ciò che stava per fare, cliccò sull’icona rossa.

Nello stesso istante un computer in un edificio attiguo emise ripetuti beep di allerta, richiamando l’attenzione dell’uomo che sedeva di fronte allo schermo. Questi fece correre gli occhi con una certa avidità fino alla fine del messaggio mentre le labbra si torcevano in qualcosa che somigliava a un ghigno più che a un sorriso.

− Ragazzi, c’è del lavoro per noi disse alzandosi dalla sedia e sistemandosi il cinturone con le pistole − l’elettrica e la laser − e le manette elettroniche; poi, sfiorando con le dita il corto sfollagente aggiunse: − Speriamo che lo stronzetto faccia un po’ di resistenza.

Americo Sodano amava conservare quel genere di ricordi di famiglia ed era l’unico a portare un tale attrezzo che, anche se non ufficialmente autorizzato, era tollerato in virtù dei successi che l’agente delle forze speciali aveva avuto nello svolgere i compiti assegnati.

Anche se spesso va oltre, aggiungeva qualcuno un po’ più cauto tra i suoi superiori.

Alessandro Cerullo era seduto davanti allo schermo del computer e, sebbene avesse gli occhi fissi sul monitor, non stava lavorando. Il debole beep di attesa del sistema che sollecitava disposizioni non ne attirava l’attenzione: la sua mente era altrove.

Da quando si era svegliato quella mattina aveva come un doloroso vuoto. Era certo di aver sognato ed era altrettanto sicuro che fosse stato un sogno che l’aveva coinvolto a livello emotivo, visto che aveva trovato il poggiatesta adattativo bagnato di lacrime. Aveva interrogato il sistema domotico su cosa gli fosse successo, ma il responso era stato vago: sogni.

Purtroppo, però, non ricordava nulla di ciò che aveva sognato: non gli avvenimenti né i luoghi né chi fossero i protagonisti. Solo continuava ad avvertire uno struggente dolore strisciargli dentro, come era successo qualche giorno prima e, gli sembrava di rammentare, altre numerose volte.

Si domandò, allora, quando era incominciato tutto questo, ma non seppe darsi risposta.

Un beep più intenso e di durata maggiore dei precedenti gli comunicò che la giornata ordinaria di lavoro era finita e sullo schermo apparve la domanda se avesse intenzione di prolungare l’orario. Alessandro scrollò il capo, diede l’ordine dello stand-by e uscì dal suo ufficio in perfetto orario, come sempre: non gli interessava fare gli straordinari per compiacere i suoi superiori né per aumentare i propri introiti.

Tanto, per me che vivo da solo, quel che guadagno è più che sufficiente, soleva dire con un’alzata di spalle. Anche se in realtà più che dirlo, lo pensava soltanto.

In effetti Alez, come lo chiamavano i familiari e i pochi amici rimastigli, non era quel che si dice un animale sociale, anche perché gli sembrava di non capire più le persone che lo circondavano né tantomeno coloro che incontrava. A lui bastava una bella oloserie che si proiettava al centro del piccolo soggiorno oppure un buon libro, preferibilmente non di quelli che elettronicamente si aprono e girano le pagine secondo le necessità del lettore, ma uno vero fatto di sottili fogli di composto rigenerato, materiale che sostituiva in modo egregio la carta da più di quindici anni.

Anche quella sera Alez rincasò alla medesima ora e, tranquillo come di solito era, non diede uno sguardo in giro o, ancora meglio, in alto dove sostava un aeromobile nera con sottili fregi gialli e verdi, il colore dei mezzi governativi, con le piccole luci rosse e blu che lampeggiavano a intermittenza alternata.

Il portone riconobbe il segnale del chip di Alez e si aprì per consentirgli l’accesso, così come fecero le porte dell’angusto elevatore automatico che si fermò al terzo piano, dove l’uscio del suo appartamento scivolò di lato per permettergli l’ingresso.

Il sistema domotico si attivò: le luci si accesero gradualmente, le note della musica che preferiva quando tornava la sera dal lavoro si levarono soffusamente e una voce femminile con tono materno chiese: − Buonasera, Alez. Giornata faticosa, vero?

La domanda era in effetti retorica, in quanto i due sistemi − quello dell’appartamento e quello dell’ufficio − dialogavano in modo continuo e quindi il quesito variava a seconda di come fosse andato il lavoro.

− Brigt – il nome che Alez aveva scelto per la sua assistente domotica −, cercami un’oloserie… anzi, no, proiettami le vacanze dell’anno scorso.

Il sistema eseguì e le immagini tridimensionali apparvero al centro del soggiorno. Ma furono solo una parte di ciò che invase la mente di Alez: il solo apparire dello scenario estivo con le onde che spumeggiavano sulla sabbia bianca, gli montò su una marea di ricordi e gli occhi diventarono lucidi.

Sebbene le notizie relative a ciò che si faceva in casa propria fluissero di continuo dal sistema domotico all’archivio centrale, i sentimenti delle persone non erano di facile interpretazione da parte degli apparati governativi. Forse perché sono stati progettati da gente senza cuore, mormoravano i dissidenti nel proprio intimo e, raramente, tra loro.

Alez, gli occhi fissi sulle immagini che guizzavano al centro del soggiorno e con il rumore olofonico della risacca che l’avvolgeva, si lasciò cedere sulla sua poltrona preferita che lo accolse abbracciandolo e cullandolo appena. Mise i pugni semichiusi come a sostenere gli zigomi, ma in realtà tentava di trattenere le lacrime che presero a scendergli in silenzio mentre gli occhi non smettevano di seguire le scene proiettate, con la mente che cercava tra ricordi sempre più lontani e tenui.

Il frusciare dei vetri che scorrevano l’uno sull’altro e il sopraggiungere della brezza che gli spettinò i capelli lo costrinse a voltarsi. Tre uomini in divisa scura erano entrati e il capo, grosso e con un ghigno che non prometteva nulla di buono, fece un cenno all’agente alla sua destra che alzò una mano, quella che conteneva l’apparato per le registrazioni audio-video. Tutta la scena fu ripresa dalle camere multiple nei suoi più piccoli dettagli e inviata in contemporanea all’archivio centrale.

− Alessandro Cerullo, sei stato trovato in palese stato di infelicità, causa ricordi, e pertanto sarai tradotto al CePsiR di riferimento. Qualsiasi affermazione farai, a voce o elettronica, potrà essere usata contro di te in un eventuale processo popolare. Dichiara se acconsenti o meno al trasporto al centro. Ah, non è opportuno che ti ribelli disse il ghigno mentre la mano dell’energumeno sfiorava lo sfollagente.

Alez si asciugò gli occhi con il dorso delle mani e mormorò un debole acconsento prima di alzarsi dalla poltrona, che subito riprese il suo usuale aspetto, e di porgere i polsi all’agente che gli si era avvicinato.

L’uomo in divisa accostò i piccoli blocchi di metallo ai polsi e due fasci di luce solida si incrociarono imprigionando Alez e cominciando a trasmettere la sua posizione sulla mappa che illuminava un grande schermo in tutte le sedi della polizia, la centrale e le locali.

L’aeromobile, sibilando in un cielo senza luna né stelle, impiegò poco più di cinque minuti per arrivare a destinazione.

Sebbene Alez avesse visto le immagini che ritraevano il CePsiR, avvertì come un moto di ansia e di repulsione quando l’aeromobile sorvolò quell’edificio di acciaio e vetro prima di atterrarvi sul tetto; al pensiero che ci sarebbe rimasto per un bel po’ mentre gli svuotavano la mente, sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Poi scacciò quei pensieri: sapeva che era la cosa giusta da fare, che era proprio ciò che il governo si aspettava dai suoi cittadini.

Alez si lasciò condurre allo studio degli inquirenti senza opporre la minima resistenza e non perché il capo dei poliziotti l’avesse minacciato con lo sguardo e la mano posata sullo sfollagente, ma perché in fondo al suo cuore sperava che il trattamento lo avrebbe davvero liberato dai ricordi e da quel dolore che gli strisciava dentro insinuandosi dietro al petto e nella mente.

Uno degli agenti chiese al superiore se volesse essere lui ad accompagnare il detenuto dentro l’ufficio.

Americo Sodano lo guardò con espressione mista tra il disgusto e la delusione.

− No, non è un vero uomo, è un passivo. Mi fa schifo solo farmi vedere in sua compagnia. Portalo tu dentro, io vado a farmi una birra.

Vedendo che Alez non aveva colto la sua ultima provocazione, continuando a tenere gli occhi bassi senza occuparsi per nulla di ciò che gli accadeva intorno, il capitano Sodano scrollò le spalle e si allontanò verso l’area di sosta facendo rimbombare i tacchi sul pavimento del corridoio.

L’agente non disse una parola, abituato com’era al comportamento del suo superiore, e spinse il ragazzo dentro la stanza. Due uomini in divisa e uno in camice sedevano dietro a una scarna scrivania; non c’era un’altra sedia nella stanza oltre alle tre occupate.

Uno dei due ufficiali, senza salutare e senza presentarsi, si rivolse al detenuto: − Sei Alessandro Cerullo di anni ventotto, vero?

Alez annuì.

L’uomo calò la mano aperta sul ripiano del tavolo e il rumore che produsse il colpo fece sobbalzare il ragazzo.

− Devi rispondere sì o no, stupido! È per la registrazione con identificazione vocale.

Il sistema, come da programma, provvide a cancellare la frase che era stata rivolta in modo violento e offensivo all’indirizzo del detenuto.

− Sì, sono Alessandro Cerullo di anni ventotto rispose Alez con voce trepida.

L’uomo in camice gli si rivolse con un sorriso di circostanza, dettato dalla sua professione: − Alessandro Cerullo, sarò io a seguire il tuo percorso di rimodulazione psicologica. Ti chiedo solo di rispondere a qualche domanda. Sei felice del tuo stato attuale oppure rimpiangi un periodo precedente quando la tua condizione era diversa?

Alez guardò la luce solida delle manette e ricordò la nostalgia che l’aveva attanagliato mentre ripercorreva il passato, quando le cose sembravano tutte più belle, e rispose: − No, non sono felice: era meglio prima.

− Lo sai che l’infelicità è stata bandita? Lo sai che puoi rivolgerti a un qualsiasi centro per cancellare i ricordi spiacevoli?

Alez annuì, poi si ricordò della reprimenda che gli aveva fatto l’uomo in divisa e si affrettò a rispondere: − Sì, certo, ne sono a conoscenza.

− E come mai non ci sei andato di tua volontà? Vuoi complottare contro il governo del popolo? disse l’altro ufficiale con piglio rabbioso.

Alez alzò le mani e le agitò insieme, legate com’erano, davanti a sé.

− No, assolutamente, mai. Io ho sempre votato a favore di questo governo, anche quando c’erano gli altri partiti che si presentavano alle elezioni. Non ho mai pensato di andare contro il popolo perché il popolo siamo noi! concluse recitando uno dei motti che insegnavano ai cittadini fin dalle elementari.

I due in divisa annuirono con evidente compiacimento.

− Allora, poiché non intendi destabilizzare le istituzioni, accetti di sottoporti volontariamente al percorso di rimodulazione psichica? chiese l’uomo con il camice.

− Sì, lo voglio.

I tre ebbero un sorriso di soddisfazione e si rivolsero sguardi come a complimentarsi tra loro.

− Allora, ragazzo, stai facendo progressi? Ormai sono quasi quindici giorni che sei qui gli chiese Gerardo Salvia, l’assistente del mattino, mentre posava il vassoio del pranzo sulla piccola scrivania.

Alez alzò lo sguardo per incontrare gli occhi dell’uomo.

− Sì certo, Gerd, non ho più quei ricordi dolorosi…

Si fermò come se fosse sul punto di aggiungere qualcosa, poi fece un sorriso incerto e scrollò appena il capo.

L’assistente lanciò un’occhiata in tralice verso la porta e poi, abbassando il tono della voce, e guardandolo fermamente negli occhi, gli chiese: − C’è forse qualcosa che non va? Le compresse che ti danno hanno qualche effetto collaterale? Oltre i soliti noti, voglio dire.

Alez rimase per qualche istante incerto. È vero che lui, avendo accettato volontariamente di sottoporsi alla terapia, godeva di una certa libertà rispetto ai costretti che erano guardati a vista e sottoposti a continui interrogatori, ma si chiese ugualmente se fosse un test nascosto o addirittura una qualche trappola ideata dal personale del CePsiR.

Gli occhi dell’uomo non riuscivano a restare fermi sul ragazzo e correvano di continuo alla porta come se l’assistente temesse che qualcuno potesse entrare all’improvviso oppure riuscisse a udire i loro dialoghi. Alez, rassicurato almeno in parte da quel comportamento, decise di rischiare e di accennare qualcosa.

− Vedi, il giorno va tutto a meraviglia; è il mattino dopo che mi sveglio insoddisfatto.

Come se il ragazzo non stesse parlando, l’assistente schiacciò un tasto e il coperchio scaldavivande si sollevò lasciando che il profumo di pasta al bio-pomodoro si diffondesse nell’aria; Alez inspirò con voluttà.

− Ecco, è proprio come quando tu sai com’è un piatto che ami, ne conosci l’odore e il sapore di ogni componente, e questo ti viene presentato in un modo diverso, con un gusto che non corrisponde a ciò che ti aspetti. A te piace la carbonara, quella vera intendo?

L’assistente annuì e per nascondere un’onda di rimpianto sul viso diede del tutto le spalle alla porta.

− Ecco, immagina che ti portino una carbonara spacciandola come classica e tu, al posto del guanciale bio-sintetico, trovi pezzettini di qualcosa che non rimanda per niente al sapore originale, del guanciale vero voglio dire. Ecco, è così che mi sento, come se avessi sognato qualcosa di strano, di incompleto, ma non saprei proprio dire di che cosa si tratta!.

Poi, dopo aver guardato per un attimo di lato, puntò di nuovo gli occhi sull’uomo: − Beh, anche questi potrebbero essere effetti collaterali dei farmaci, giusto?

L’uomo annuì più volte.

− Sta tranquillo, ragazzo, sarà proprio uno di questi. Si sa, le medicine aggiustano una cosa e ne guastano altre. Non è facile trovare l’equilibrio. Non lo è mai stato…

Lasciò la frase sospesa, salutò e uscì dalla stanza.

Alez rimase per un po’ frastornato, poi decise che sarebbe stato meglio mangiare per non far raffreddare le pietanze.

L’assistente doveva aver riferito dell’accaduto ai suoi superiori perché da quel giorno Alez si trovò una medicina in più.

“Che pezzo di merda quel Gerardo! E che stupido io a fidarmi! D’ora in avanti non parlerò più con nessuno” si ripromise.

“E se non la prendessi?” si chiese guardando la piccola compressa azzurra su cui era incisa una minuscola figura. L’avvicinò agli occhi per esaminarla meglio: era un microscopico cavalluccio marino.

Alez si strinse nelle spalle: “Mah, sarà un estratto di alghe. Questi sono fissati con i prodotti bio, anche se poi si ingozzano di certe schifezze. Comunque, meglio prenderla: se mi faranno controlli va a finire che ricomincia tutto daccapo e uscirò tra chissà quanto!”

Ingoiò la compressa e si preparò per il riposo notturno.

La notte trascorse in un balenò e Alez si svegliò rilassato come non lo era da tempo. Si stiracchiò allungando le braccia e andò a guardarsi allo specchio. il volto che incontrò era disteso e gli occhi ridenti.

Sentì bussare alla porta, il suo sguardo corse all’orologio proiettato nell’angolo in alto a destra dello specchio e si meravigliò nel vedere che era già ora di colazione.

− Avanti! disse mentre il fascio di luce gli asciugava il viso.

Gerardo entrò portando il vassoio.

− Ah, Gerd il chiacchierone lo salutò Alez. L’uomo aggrottò le sopracciglia in modo interrogativo, ma senza ribattere. Anzi lo salutò con un sorriso.

− Buongiorno, ragazzo. Come stai? Meglio?

Alez fu indecise se rispondere o meno, poi pensò che se ne sarebbero accorti ai prossimi test e dopo una piccola scrollata di spalle gli disse: − Bene. Anzi da quanto mi hai fatto aggiungere la compressa con il cavalluccio marino sto dormendo meglio

L’uomo diede una rapida occhiata in giro e poi, mormorò con voce appena udibile: − Sarebbe meglio che non dicessi della compressa. È una cosa riservata, diciamo un mio regalo. E i sogni, te li ricordi ora?

Come se qualcuno gli avesse spalancato una finestra nella mente, Alez rivide tutto ciò che aveva sognato. Rivide il mare, rivide il volto sorridente e solare di una ragazza bellissima, poi rivide un gruppo di persone, maschi e femmine, che lo chiamavano e riprovò la gioia che aveva sentito quando era avvenuto nel sonno.

Sempre mormorando e dando le spalle alla porta, l’uomo gli disse: − Non c’è bisogno che risponda, ho capito dalla tua espressione trasognata e felice. Domani ci sono i test, ti conviene dormire. Forse la notte sarà lunga.

L’assistente uscì dalla stanza senza voltarsi indietro, lasciando Alez sorpreso, eppure felice, come non lo era da tempo.

Quando calò la notte, però, lo stato d’animo che lo possedeva finì per tramutarsi in una sorta di paura che lo indusse a mille pensieri.

“E se volessero farmi qualcosa stanotte? Non so, violentarmi come si è visto in tanti film” pensò senza meravigliarsi di ricordarlo. “Oppure se volessero torturarmi per farmi dire quello che vogliono domani al test?”.

Il riposo che aveva fatto nel pomeriggio insieme a questi pensieri gli impedirono di prendere sonno e un lieve rumore fuori della porta lo fece sobbalzare. Rimase ritto a sedere nel letto con le orecchie tese e lo sguardo che tentava di cogliere un qualsiasi movimento nella penombra verdina della fluorescenza programmata per il riposo notturno che scendeva dal soffitto.

Dopo un tempo che gli sembrò infinito, anche se erano trascorsi solo pochi minuti, sentì dei piccoli tocchi alla porta. Si alzò dal letto e, afferrato con una mano il vassoio della cena che aveva rifiutato di rendere e con l’altra una forchetta, si diresse con fare guardingo e in assoluto silenzio verso l’ingresso.

Giunto vicino alla porta, udì di nuovo quei piccoli colpi e percepì a stento una voce che lo chiamava; la riconobbe immediatamente.

− Gerd, che altro vuoi ancora? gli chiese in tono alquanto seccato.

La porta si schiuse appena, lasciando che il viso dell’assistente facesse capolino; aveva l’indice davanti alle labbra per suggerirgli il silenzio.

Poi sgusciò dentro e gli parlò in tono bassissimo, quasi impercettibile.

− Dobbiamo andare via, prima del test di domani, altrimenti si accorgeranno che ti stai liberando.

Alez lo guardò con stupore.

− Liberando? E da che cosa? Da chi?

− Sst, abbassa la voce. Se ci prendono siamo finiti. Le compresse che ti ho dato stanno annullando il trattamento. Se vieni con me ti farò spiegare tutto.

Alez era sul punto di ribellarsi e di gridare aiuto. Avrebbe detto che non era d’accordo con Gerardo, che aveva progettato tutto quel forsennato mentre lui, invece, voleva guarire e voleva dimenticare tutte le cose spiacevoli. Di colpo gli apparve il volto di quella ragazza che aveva sognato e, al solo pensiero, di non vederla più, ebbe un vuoto dietro il petto con il cuore che sobbalzava.

Annuì, ancora poco convinto, e seguì Gerd lungo i sotterranei con le luci che si accendevano fioche al loro passaggio per poi spegnersi subito dopo.

“Beh, se andrà male, potrò sempre dire che mi ha costretto” si disse nel tentativo di convincersi, anche se man mano che si allontanavano dal CePsiR sentiva di aver fatto la scelta giusta.

Poi un pensiero improvviso lo colse.

− Gerd, ma come farai a giustificare la mia scomparsa? disse guardando l’uomo che era concentrato alla guida di una vecchia Tesla, un tempo rossa, che attraversava una boscaglia su un viottolo sterrato.

Senza perdere di vista la strada, l’assistente rispose con un mezzo sorriso sul volto illuminato dal pannello degli strumenti.

− E io che ne so? Domani, quando non ti troveranno, penseranno a un tuo allontanamento volontario. Del resto la tua porta non era chiusa: avevi accettato spontaneamente di sottoporti al trattamento.

Alez sporse le labbra in fuori e soppesò quanto dettogli per qualche minuto prima di rivolgersi di nuovo al guidatore.

− Lo stesso potrei passare qualche guaio, no? Non avevo finito il trattamento e sulla documentazione che ho firmato c’erano scritte delle regole da rispettare ben precise.

− Questo solo se ti troveranno, però. Poi si girò per lanciargli un’occhiata e dirgli: − Pensi di essere il primo che scompare da lì?

Alez spalancò gli occhi mentre Gerardo riprendeva a scrutare la strada illuminata dai fari adattativi a LED.

− Come, ce ne sono stati altri? Ma nessuno lo ha mai detto. Il governo dice che si ha il cento per cento di successi!

L’assistente sogghignò.

− E ti pare che quelli dicevano la verità? Si girò di scatto a fissare con cipiglio serio il volto di Alez: − Fatti furbo, ragazzo. Quelli che ci governano ci usano. Questa è una dittatura bella e buona, la peggiore delle dittature: quella dove tutti pensano di essere liberi!.

Poi, aggiunse con tono più conciliante: − Il prof ti spiegherà tutto.

− Il prof? Che prof? Come si chiama? Prof di che? saltò su a domandare Alez.

− Ogni cosa a suo tempo. Del resto siamo quasi arrivati disse indicando un edificio buio che si intravedeva tra gli alberi.

Appena arrivati nello spiazzo antistante la casa, Alez era sul punto di schiacciare il pulsante che l’avrebbe liberato dal sistema di sicurezza e, se premuto una seconda volta, avrebbe aperto la portiera, ma Gerd lo bloccò.

− Non è qui che dobbiamo scendere.

Alez si guardò intorno sgranando gli occhi.

− Ma non è questa la casa del prof?

− Certo, ma ci tiene che rimanga anonima. Così come ci tiene alla sua auto nonostante l’età che ha! concluse con una breve risatina.

Gerardo girò intorno alla casa e. una volta giunto sul retro, infilò la Tesla in un casolare mezzo diroccato. Solo allora fece un cenno al ragazzo permettendogli di scendere dall’auto e lo guidò nel buio fino alla porta posteriore, quella che dava su un giardino incolto, nella quale s’infilarono con rapidità.

Alez, occhi spalancati, osservava tutto nella penombra mentre l’uomo lo precedeva.

“Sembra tutto abbandonato… In che guaio mi sto cacciando? Mannaggia alla mia ingenuità. Anzi, alla mia stronzaggine!”

− Ragazzo, ti sei addormentato? Dai, presto, entra!

L’invito perentorio di Gerardo lo riportò alla realtà e, dopo un piccolo brivido, si decise a fare il suo ingresso in quel posto oscuro e freddo. Attraversarono una cucina e una camera da pranzo, che avevano conosciuto tempi migliori, prima di arrivare in un soggiorno blandamente illuminato da un camino nel quale bruciava legna bio-sintetica senza che uscisse il minimo fumo. Proprio davanti al camino erano disposte due poltrone di foggia antica; su quella a destra sedeva un uomo che protendeva le mani verso il fuoco verdastro.

− Accomodati, Alez. Gli amici ti chiamano così, vero? Permetti che lo faccia anch’io?

Il ragazzo annuì mentre si sedeva.

L’uomo doveva avere almeno una settantina d’anni e la sua voce, dolce e gentile, quasi contrastava con l’aspetto burbero del volto. Era probabile che quest’ultimo fosse anche dovuto agli spessi occhiali che nessuno portava più in seguito al diffondersi della correzione chirurgica di qualsiasi difetto di vista e ai grossi baffi bianchi che non erano più di moda da diversi decenni.

− Lo so, ti stai chiedendo cosa stia succedendo e perché tu sia qui. Se permetti, per spiegarti le ragioni che ci hanno spinto a questi comportamenti, devo raccontarti tutto dal principio, devo dirti tutto ciò che è successo, praticamente devo parlarti della Storia, quella con la esse maiuscola. Capisci di cosa sto parlando?

Alez lo guardò con un misto di soggezione e stupore.

− N-no, in effetti. Esse maiuscola o minuscola che differenza fa? Sono sempre racconti, no?

Il professore si accigliò dietro agli spessi occhiali e Alez ebbe timore che un accesso di rabbia esplodesse; invece, dopo un attimo, il viso guadagnò la sua serafica espressione e, intrecciate le dita sul prominente addome, prese a parlare in tono chiaro e conciliante.

− Quando questo governo fu eletto, la società attraversava un periodo molto particolare: le ideologie erano cadute, c’erano state diverse crisi economiche e le persone erano attanagliate dalla paura di perdere quello che avevano conquistato nel secolo precedente: se prima dividevano con chiunque quel poco che avevano, in quegli anni svilupparono il timore di perdere gli agi. Fu molto facile per i politicanti dell’epoca sfruttare questi timori e promettere mari e monti. Il problema fu che, una volta al potere, cominciarono a demolire i cardini della società com’era stata dall’antica Grecia fino a quel periodo, incominciando con la demonizzazione della cultura. Sarà perché ho fatto studi classici, ma vedere sparire alcune materie mi ha fatto male; soprattutto la messa in ombra fino a toglierla dai programmi scolastici del racconto dell’evoluzione sociale, politica ed economica dell’uomo, cioè della Storia di cui ti dicevo, di quella con la esse maiuscola, mi ha straziato. E sai perché? Non perché vi fossi affezionato, o almeno non soltanto per questo, ma perché non conoscere più ciò che ti ha preceduto, non sapere più le storie singole che hanno portato alle varie tappe dell’umanità, ti rende schiavo di chi comanda.

Alez aveva seguito parola per parola quanto aveva detto il prof, non solo per il tono accorato che aveva tenuto ma anche perché affascinato dalla capacità affabulatoria di quell’uomo.

− Vabbè, ma si può sempre cambiare governo, solo se si presentasse qualche altro candidato…

La voce di Alez si affievolì sulle ultime parole fino a sparire alla vista dell’espressione sarcastica del professore e non riuscì a chiedere alcuna spiegazione se non con lo sguardo pieno di interrogativi.

− Mio caro ragazzo, e ti pare un caso che non si presenti nessuno? Ti dico solo due date. Nell’aprile di dieci anni fa fu avviato il programma della felicità per tutti. Se non erano sufficienti i trattamenti adottati nella vita normale, scuola-famiglia-società, si poteva aderire volontariamente alla cancellazione dei ricordi spiacevoli. Qualche mese dopo, i governanti si resero conto che l’affluenza delle richieste non superava il sessantacinque per cento e allora decisero di instaurare la EsseA, la sezione per le dichiarazioni anonime e la percentuale salì vertiginosamente. Del resto, farsi gli affari degli altri e puntare il dito contro qualcuno che ti è antipatico o che ti ha fatto uno sgarbo oppure puntare l’attenzione su un altro perché non si guardi quello che fai tu, è uno degli sport preferiti dal nostro popolo, in particolare poi se puoi farlo senza che si sappia chi è stato a denunciare. Sempre che davvero le segnalazioni siano anonime: ci sono diverse prove che tali non siano per niente e che, anzi, permettano al governo di scavare nella vita privata del segnalatore risalendo fino alla terza generazione!

Alez fece un piccolo cenno perché il professore proseguisse. Questi sorrise appena, contento di aver catturato l’attenzione del ragazzo, e riprese il discorso.

− Nell’anno seguente furono bandite nuove elezioni e fu la prima volta che i pochi oppositori che si presentarono non raggiunsero il sostegno necessario del popolo per vedere accettata la propria candidatura. E, ovviamente, vinse il governo con il cento per cento dei voti validi.

Alez si aggiustò sulla poltrona, fissò per un lungo momento le fiamme gialle e verdi che danzavano nel camino e poi si rivolse di nuovo al professore.

− E questo che mi significa? chiese stringendosi nelle spalle.

L’espressione del professore si fece dura.

− Questo significa che se perdi la memoria perdi la tua storia, perché le idee che si basano sulle tue esperienze, su ciò che hai provato, sentito, studiato e letto, insomma su ciò che hai vissuto, non esistono più. Chi controlla la memoria, negando avvenimenti della Storia e delle vicende personali di ognuno di noi, controlla tutto: la volontà del singolo, il suo giudizio, il suo libero arbitrio. E dov’è la libertà?

Gli occhi di Alez vagarono per la stanza in cerca di una risposta mentre il suo cuore gli diceva che non ce ne erano.

Riuscì dopo un po’ a mormorare: − Almeno, però, la tristezza non c’è più…

Non terminò la frase perché sentì lo sguardo severo del professore su di sé e lo incrociò con il suo, pieno di interrogativi.

− Alez, è vero che la gente non è triste, ma sei proprio sicuro che sia felice? Hai guardati in faccia le persone che incontri? Hanno un’espressione serafica, ma stupidamente serafica! Come se fossero lobotomizzati, come se avessero subito una leucotomia prefrontale!

− Una che? chiese Alez sgranando gli occhi.

Il professore fece un gesto come a cancellare quanto aveva appena detto però, poi, concesse una breve spiegazione: − Un intervento chirurgico che si eseguiva alla metà del ventesimo secolo per mitigare la personalità di malati psichiatrici considerati ingestibili; però questi poveretti erano ridotti a poco più che pecore, con tutto il rispetto per quegli animali.

Ad Alez sembrò che un sorriso aleggiasse per un momento sulle labbra di Gerd.

Poi la sua attenzione fu di nuovo catturata dal professore: − Vedi? Ti manca la memoria o forse non l’hai mai saputo perché non si studia più e in particolare la Storia non sapete più neanche cos’è! Comunque, tornando ai giorni nostri, ti prego di pensare al nostro popolo, ma veramente, non come dicono di fare i nostri governanti. Ti sembra davvero un popolo felice oppure vive senza pulsioni, senza aneliti, senza una vera volontà, diretto dall’alto nei desideri e nelle scelte? Non gli sono stati cancellati solo i ricordi tristi, ma anche tutto ciò che poteva servire da bagaglio di esperienza e quindi di capacità critica.

Alez con le labbra appena dischiuse, fece correre in giro lo sguardo senza che gli occhi si posassero su nulla per alcuni istanti. Infine calò il capo e lo scrollò con un’espressione dolorosa sul volto mentre un sibilo a stento percepibile gli sfuggì dalle labbra: − Ingannati

Il professore non disse nulla: sapeva che non era il momento di rincarare la dose e che ormai la mente del ragazzo aveva preso a elaborare i concetti.

Poi la sua voce parlò con un tono dolce che mai ci si sarebbe aspettato da un uomo con quell’aspetto: − È tardi ormai: fra poche ore sarà l’alba. È meglio se andiamo tutti a riposare un po’. Gerd, accompagni il nostro ospite nella sua stanza, per favore?

− Certo, prof. A domani, cioè a fra poco disse l’uomo con un breve sogghigno mentre Alez si alzava dalla poltrona con fare lento come se avesse la mente troppo impegnata per coordinare anche i movimenti.

Salutò il professore con un debole sorriso, alzando una mano.

− Alez, lo so ora hai la mente in subbuglio, con i pensieri che vogliono andare in tutte le direzioni. Scusaci, è un po’ colpa nostra, perché ti stiamo dando qualcosa per combattere gli effetti della cancellazione dei ricordi.

Alez si fermò e si girò a guardare gli occhi del professore attraverso le spesse lenti su cui si riflettevano le fiamme verdastre.

− La compressa con il cavalluccio marino?

Il professore annuì con un sorriso: − Quello che tu chiami cavalluccio marino, scientificamente è noto come ippocampo. Per la sua forma simile, anche la zona del cervello deputata alla memoria si chiama così. Non ti far sommergere dai ricordi, in particolare quelli dolorosi, ma sfruttali per crescere.

Il prof smise di parlare di colpo come se avesse deciso di non proseguire oltre nelle sue argomentazioni.

− Bene, per ora basta così. Ti auguro un buon riposo.

Alez guardò ancora per un lungo istante il professore quasi chiedendosi in che guaio si fosse cacciato, poi lesse la sincerità sul viso di quell’uomo e fece un solo cenno con il capo, un misto di saluto, di assenso e forse di ringraziamento.

Mentre si recavano all’alloggio predisposto per lui, Alez si rivolse a Gerd: − Forte sto prof! Certo se è tutto vero quello che ha detto, siamo proprio nella merda!

Gerd gli diede una pacca sulla spalla e rispose: − Ci siamo, ragazzo, ci siamo proprio fin sopra la testa, te lo assicuro, e questi fanno di tutto per nasconderci anche la puzza! Pensi che non abbia avuto anch’io dubbi quando ho incontrato il prof? Ma è tutto vero, costatato di persona punto per punto. Lui è uno sincero, incapace di sotterfugi o altro. È proprio nella sua natura prendere a cuore tutto ed ha anche una capacità unica nello scegliere le persone. Ha individuato me, ha trovato altri e ha scelto te perché ha intuito il nostro potenziale; ha studiato la nostra storia individuale e i nostri caratteri: sa che lo seguiremo.

Alez si fermò davanti all’ingresso che gli stava mostrando Gerd.

− Per fare cosa? Io non sono un violento, non impugnerò mai armi contro qualcuno!

L’uomo sorrise: − Neanche io e tantomeno il prof. Ricordi quando ha parlato delle pecore e ha detto che aveva rispetto per quegli animali?

Alez sorrise annuendo.

− Ebbene non diceva tanto per dire, non era una frase fatta. V. H. ha davvero rispetto per ogni essere vivente, perfino per una mosca!.

− E allora, qual è il nostro compito?

Gerd tirò fuori dalla tasca una compressa azzurra con la piccola effige dell’ippocampo e la tenne a poca distanza dal viso appena illuminato di Alez.

− Diffondere queste, ragazzo. Il prof pensa che quando buona parte della gente avrà riavuto i propri ricordi deciderà al meglio, in piena autonomia e spirito critico. Forse è un idealista, anzi di sicuro lo è. Ma senza ideali, vedi dove siamo finiti?

Alez annuì ancora e poi, dopo un cenno di saluto, si apprestò a entrare nell’alloggio.

Prima di richiudere la porta si fermò e chiese: − Gerd, prima l’hai chiamato V. H., è la sigla del suo nome?

L’uomo si grattò la guancia ispida.

− Beh, uno dei suoi. Pare abbia diversi pseudonimi a seconda dell’attività che svolge: scrittore, divulgatore, professore, ecc. Ma forse Van Hotten è proprio il suo vero nome rispose ed era sul punto di augurare un buon riposo al ragazzo, quando questi corrugò la fronte e lo fissò.

− Come mai noi abbiamo avuto bisogno del suo aiuto per liberarci del giogo del governo e lui no? Non è stato influenzato o trattato anche lui durante la sua vita?

Gerd sorrise, si avvicinò al ragazzo e gli mise una mano sulla spalla dandogli poi dei piccoli colpi per rassicurarlo.

− Alez, come ti ho detto anch’io ho avuto sei sospetti quando lo conobbi, ma poi ho conosciuto lui, il suo carattere e la sua vita e ho capito. Ci sono diverse ragioni per le quali il trattamento non ha avuto esito su di lui. La prima è che, essendo anziano, ha studiato in modo diverso dal nostro. E ti dico che lo ha fatto proprio bene! Pensa che ricorda ancora il latino e il greco dopo tanto tempo e qualche volta cita parole e intere frasi in queste lingue. Un altro motivo è nel suo carattere. A parte un’intelligenza fuori del normale − e penso che di questo tu te ne sia già accorto −, il suo spiccato buonumore, la grande ironia e soprattutto l’autoironia gli hanno permesso di restare agganciato ai ricordi, belli o brutti che siano, redendoli parte di sé, permettendogli di maturare i rimpianti e tramutarli in esperienze.

Dopo un attimo, Gerd lasciò che la mano gli cadesse dalla spalla di Alez lungo il proprio fianco e, inclinando appena il capo, disse con l’espressione di chi confessa di aver rubato la marmellata dal barattolo: − Beh, in effetti queste ultime cose le ho sentite dalla sua voce una sera d’inverno, davanti al caminetto a bere del vero liquore che conserva nella dispensa e che di rado tira fuori, e non quelle schifezze bioequivalenti che ci propinano!.

Alez lo guardò a lungo prima di stringergli la mano; la stretta era franca come tra persone che stanno instaurando un rapporto vero.

Gerd aveva appena richiuso la porta dietro di sé e Alez, stanco com’era e spossato dagli avvenimenti, si gettò sul letto dove cadde subito in un sonno profondo che durò fino a quando la luce del sole non si intrufolò nella stanza.

Aprì gli occhi e, sorridendo, pensò che era stato proprio un bel sogno, con il volto sorridente di Debs sempre a un niente dal suo, come pronti a scambiarsi un bacio.

− Debora, ecco come si chiamava quella ragazza! esclamò con un certo entusiasmo prima di mutare tono. − La mia ragazza di diversi anni fa. Che fine avrà fatto? si chiese seduto sulla sponda del letto mentre gli occhi esploravano la stanza senza soffermarsi su nulla.

Man mano che si lavava e si rivestiva, i ricordi presero a fluire e gli tornò in mente quel giorno, dopo l’ultima estate, quando era sparita.

Alez rimase fermo con la maglietta che pendeva da una mano, lo sguardo perso nel mare dei ricordi. Era vero ciò che gli stava tornando in mente? Davvero Debs aveva deciso di presentarsi alle elezioni universitarie in una lista di opposizione? L’aveva fatto?

Accese il display da polso e cercò su tutte le reti disponibili. Della lista e di chi ne aveva fatto parte non c’era più alcuna traccia.

Mentre finiva di vestirsi gli tornarono in mente le parole che aveva pronunciato Gerd: il prof ha studiato la nostra storia e i nostri caratteri e sa che lo seguiremo, e l’espressione che gli era apparsa sul volto da mesta divenne consapevole.

La porta si spalancò di colpo facendolo sobbalzare e Gerd si precipitò nella stanza.

− Presto, dobbiamo scappare: stanno arrivando!

Alez si guardò per un momento intorno, incerto sul significato delle parole dell’uomo, prima di afferrare il concetto e spalancare gli occhi.

− Ma… come è stato possibile? Ci hanno seguito? chiese mentre infilavano la porta.

Gerd, sempre con espressione allarmata sul viso, scrollò il capo: − No, ci avrebbero preso nella notte. Deve essere successo per altre vie. Chissà come cazzo ci hanno trovato!

Raggiunsero il professore che era vestito di tutto punto come se dovesse andare a una festa: giacca, cravatta, camicia immacolata, scarpe lucide.

− Prof, presto, dobbiamo andare! Quelli ci sono quasi addosso!

Van Hotten si avvicinò al guardaroba elettronico e un lungo parka sintetico che rifletteva i colori delle strutture vicine lo avvolse con il cappuccio che gli coprì il capo oscurandogli il volto. Gerd fece lo stesso e invitò Alez a imitarlo.

Un fracasso ruppe il silenzio e dalle assi sfondate della finestra entrò una piccola sfera che cominciò a sparare raggi termici tutt’intorno. Appena uno di essi colpì il camino, ci fu una violenta esplosione e il fuoco divampò aggredendo l’intera struttura.

All’esterno, il ghigno di Americo Sodano era illuminato dai riflessi delle fiamme che ormai erano arrivate al tetto dello stabile.

L’agente speciale, pugni in vita e gambe larghe, si godeva lo spettacolo con evidente soddisfazione: − Date fuoco a tutto, ragazzi, non lesinate colpi con il fucile termico, su, non lasciamo in piedi nulla di questa merda!

Un agente semplice gli si accostò e, gridando per superare il fracasso della struttura che crollava, chiese: − Capitano, mica anche a quella vecchia cascina laggiù?

Il ghigno si torse con malignità.

− A tutto, ho detto, date fuoco a tutto! Non deve rimanere niente di questi stronzi! Capito? gli urlò contro.

L’agente incassò la testa tra le spalle e, imbracciato il fucile, si diresse di corsa verso il casolare. Era talmente preso dal suo compito che non fece caso alla ventata che uscì sibilando dal rudere con tale forza da strappare le foglie dagli alberi intorno e distorcere appena le immagini. L’uomo entrò con il fucile spianato e sparò diversi raggi termici in varie direzioni; il casolare prese subito fuoco crollando su sé stesso.

Americo Sodano, tronfio come non mai, girò lo sguardo tutt’intorno osservando i resti fumanti che avrebbe lasciato dietro di sé: solo in parte gli interessava che la missione fosse stata portata a termine e che il governo del popolo non avesse più nulla da temere. Ciò che davvero gli premeva, era che fosse stato lui il dominatore, il più forte di tutti, e non aveva alcuna importanza se qualche misero stronzetto ci avesse rimesso le penne.

Americo Sodano girò sui tacchi e, al pensiero di una serata di meritate baldorie, il ghigno si trasformò in un lussurioso sorriso.

* * * *

Loris Belfiore arrivò anche quel mattino nel medesimo istante in cui sopraggiunse il suo collega di stanza, Sensale. I loro sguardi si incrociarono e al suo cenno di saluto con il capo, il collega rispose con un mezzo sorriso e alzando appena la mano destra.

Loris rimase interdetto: era la prima volta che capitava!

Oppure ricordava male?

“Beh, che importanza può avere? Abbiamo del lavoro da fare e non posso certo perdere tempo a pensare a uno di cui non so neanche il nome!”

Il silenzio calò nell’ufficio fino a quando fu interrotto dalla voce di Sensale: − Finalmente le undici, ci vuole una pausa!

Loris aveva avuto un sobbalzo: in tanti anni era la prima volta che accadeva che il collega esprimesse un pensiero e questo addirittura aveva manifestato una necessità!

L’osservò di sottecchi mentre passava il polso con il chip sul rilevatore per permettere alla cupola trasparente di scorrere verso l’alto e consentirgli di prendere una tazzina di caffè e qualche biscotto AutoVax. A notare con quanta goduria Sensale assaporasse il caffè, Loris sgranò gli occhi. Poi si represse e continuò nel suo lavoro, ben conscio che il sistema avrebbe notato il sensibile rallentamento dell’attività se avesse indugiato ancora nel seguire le mosse del collega.

Finalmente scoccarono le undici e un quarto e anche Loris si alzò dalla sua postazione; lo fece proprio mentre Sensale riprendeva la sua. Gli sguardi si incrociarono e a Loris sembrò che il collega sorridesse appena prima di calare il capo e immergersi di nuovo nel lavoro.

Passò il polso destro sul quadrato fosforescente e la cupola si aprì. Assaggiò il caffè e non gli sembrò che avesse un gusto particolare. Poi il suo sguardo cadde su una piccola compressa azzurra con una minima incisione sulla superficie. Loris si guardò intorno chiedendosi se fosse un dolcificante lasciato dal collega, visto che da quando era stato bandito lo zucchero molti preferivano usare un dolcificante con gusti diversi da quelli forniti d’ufficio. Ebbe un impulso, l’afferrò e la lasciò cadere nel caffè. In effetti il sapore era appena diverso ma non così come gli era sembrato dovesse essere osservando l’espressione estasiata di Sensale.

Finita la sosta tornò alla sua postazione e continuò il lavoro come sempre.

Al termine della giornata i due colleghi diedero l’ordine ai rispettivi computer di mettersi in stand-by e si alzarono dalle sedie nello stesso istante.

Loris, come sempre, cedette il passo al collega con maggiore anzianità di servizio e, appena usciti dall’ufficio, questi gli disse: − Grazie, Loris, a domani.

Come se questo fosse un avvenimento usuale, Belfiore non se ne meravigliò e, anzi, rispose: − Di nulla. A domani, Luigi.