In queste ultime settimane si è parlato molto di Stranimondi, il festival della letturatura fantastica che si terrà a Milano a ottobre. Ciò di cui parliamo oggi invece è Strani mondi, il nuovo Millemondi da oggi in edicola. Un titolo davvero evocativo, che richiama la prima antologia di racconti italiani uscita nel supplemento di Urania nel 1998, curata anche allora da Franco Forte, Strani giorni, combinandola col titolo della testata Millemondi per ottenere un riferimento alla manifestazione che del genere è diventata un po' un punto di riferimento.

Un Millemondi tutto italiano, che comprende quindici racconti da parte di diciassette autori che rappresentano il meglio di ciò che la narrativa di science fiction del nostro paese è in grado di proporre al pubblico. Quindici racconti inediti che affrontano tutti gli aspetti della fantascienza, corroborati da un’introduzione del curatore Franco Forte, un articolo di Silvio Sosio che fa il punto sulla situazione della sf in Italia, e da un breve ma significativo report sull’ultima edizione del Premio Italia, che ha consacrato i vincitori del premio che più si avvicina allo Hugo per il nostro Paese.

L’indice del volume

Introduzione di Franco Forte

Guerra fredda di Giulia Abbate e Elena Di Fazio

A sort of homecoming di Sandro Battisti

Come concime di Franci Conforti

Il turismo spaziale come incontro fra culture di Davide Del Popolo Riolo

Il mio nome è Lemuel di Nicola Fantini

Geografia umana di Clelia Farris

L’Inferno dentro di Lorenzo Fontana e Andrea Tortoreto

Ipersfera – Solo per maggiorenni e fino alla morte di Lukha B. Kremo

Fatum di Maico Morellini

L’automa dell’imperatore di Piero Schiavo Campo

Picadura – Una storia di Mondo9 di Dario Tonani

Blue Infernalia di Emanuela Valentini

Zona di contenimento di Claudio Vastano

Essere ovale di Alessandro Vietti

Orbita pericolosa di Alain Voudì

L’età dell’oro della fantascienza italiana di Silvio Sosio

Il premio italia di Silvio Sosio

Un estratto dall'introduzione

di Franco Forte

Questa antologia si intitola Strani Mondi soprattutto per alcune suggestioni personali. L’idea mi è venuta durante l’ultima edizione di Stranimondi (una sola parola), la buchmesse del fantastico che si tiene a Milano e che è sempre un gran piacere frequentare, perché è lì che si riuniscono in un eccitante week-end tutti gli appassionati di questo genere. A Stranimondi gli editori specializzati vendono i loro libri e presentano gli autori, e si possono ascoltare interessanti conferenze, oltre che conoscere scrittori nazionali e internazionali di grande livello (quest’anno c’erano, fra gli altri, Ian McDonald e Licia Troisi). Davvero uno “strano mondo”, colorato, pieno di entusiasmo e di energie positive, frequentato da persone che esprimono in modo gioioso la loro voglia di cimentarsi con le diverse sfaccettature della fantascienza. E allora ecco che il desiderio di dare ulteriore spazio a tanta creatività, coinvolgendo i migliori scrittori italiani di science fiction in questa antologia, non poteva prescindere dal nome della buchmesse milanese, dal quale è stato mutuato il titolo di questo “Millemondi”.

Ma c’è un’altra suggestione. Nel lontano 1998 ho realizzato insieme a Giuseppe Lippi un altro “Millemondi” antologico tutto italiano, intitolato Strani Giorni. E dunque ecco che questo ritorno alla narrativa italiana di fantascienza di qualità non poteva mancare di riferirsi anche a quella esperienza, che ha segnato un momento importante nella storia del genere fantastico nel nostro paese.

Oggi, con il volume che avete in mano ci riproviamo. Cercando di trasmettere tutto l’entusiasmo raccolto a Stranimondi e recuperando il fascino di un’operazione coraggiosa per i suoi tempi. Nel 1998, infatti, era più complicato rispetto a oggi parlare di una fantascienza italiana capace di imporsi all’attenzione del grande pubblico; il che ci consente di trasformare quegli “Strani Giorni” in “Strani Mondi” forse ancora più strani e affascinanti, e soprattutto di spessore. Potrete verificarlo leggendo i racconti contenuti in questa antologia, capaci di esprimere i nuovi sentieri della fantascienza italiana in modo frizzante, intelligente e pieno di energia.

Gli incipit dei racconti

Guerra fredda di Giulia Abbate ed Elena Di Fazio

Groenlandia, 80°12’50.5”N 46°57’09.8”W

Un lontano latrato di cani echeggiava nel vasto altopiano, risuonando tra le rocce incastonate nel ghiaccio. Il colonnello Angelina B. Nebula strinse i pugni nei guanti e soffiò una nuvola di vapore biancastro.

Dopo un inverno di duro lavoro nelle lande artiche, il concetto di “nulla bianco” lasciava il posto a una nuova contezza dei luoghi. Ora Nebula era in grado di distinguere le diverse consistenze dei pavimenti bianchi, evitando di cadere in quelli fatti di neve fresca, quando si spostava tra gli alloggiamenti. Intuiva gli sbalzi di temperatura dalle sfumature cinerine del cielo, senza bisogno di consultare la app meteo. A seconda dei versi dei cani, veri abitanti e padroni della piana, era informata della presenza di orsi nei paraggi. E iniziava a distinguere gli odori portati dal vento battente. Il vento di discesa aveva con sé un sentore di muschio congelato e bestie selvatiche. Quando si calmava, era rimpiazzato dalla corrente opposta, carica delle fragranze dal villaggio degli Inughuit, gli Inuit del Nord.

Gli Inuit erano portatori di un’ulteriore geografia umana, anche quella decrittabile con un po’ di pratica. Erano di pessimo umore quando qualche legge del governo danese, appena consegnato all’ultradestra, introduceva restrizioni nei loro confronti. Erano allegri quando si avvicinava la fine della settimana, perché avrebbero preso la paga dalla missione Nato, per la quale lavoravano come maestranze. Il comando italiano, affidato a Nebula, faceva in modo di largheggiare con le cosiddette “spese accessorie”, e distribuiva congrue mance ai fixer più validi in cambio di servizi speciali: sigarette, grappa artigianale e spettacoli, ma anche le corse dei cani, per distrarsi un po’.

Non era il caso di economizzare sugli extra garantiti dai locali. La missione Sentinelle era la più dura alla quale avessero mai lavorato tutti loro: non per le condizioni proibitive, dato che erano ben addestrati, ma per lo scopo. Era qualcosa di nuovo al quale Nebula sperava di non dover mai fare l’abitudine.

A sort of homecoming di Sandro Battisti

La visione di una vallata rocciosa si aprì improvvisa sotto di lui. Il plenipotenziario Sillax si trovò impreparato nel gestire la vertigine di luce che lo abbacinò con violenza: la schermatura ionica della cabina di pilotaggio dell’Apostata non bastò a proteggere lui e l’equipaggio e vibrò di bassa frequenza per alcuni istanti, mentre Sillax se ne restava impettito in plancia. Non poté fare a meno di ammirare, per qualche fuggevole istante, la selvaggia suggestione del panorama desertico sottostante e poi, più in là, lo spazioporto che si apriva al loro attracco: sedici dimensioni quantiche erano avvolte in un lago di collasso frattalizzato e l’orizzonte si rincorreva nei suoi impianti craniali per istanti successivi, collazionati in landscape di matematica esoterica. Il vettore imperiale, l’Apostata, era uscito dalle officine dell’imperatore Totka_II e utilizzava la tecnica a induzione olografica, raffinata tecnologia all’avanguardia, anche se non così esasperata come ci si sarebbe aspettati da uno Stato di tale potenza, esteso su ogni magnificazione dell’illusorio reale. L’olografia, in un momento assai prossimo alla singolarità postumana, appariva come un esotismo tecnologico improbabile; ai tempi dell’Impero Connettivo, invece, era assurta a ostentazione tecnologica dell’élite governativa, un’estetica desueta da nomenklatura Soviet.

Mentre i pensieri degli impegni governativi occupavano gran parte della sua attenzione, Sillax si accorse che un meraviglioso senso di solitudine lo stava sopraffacendo: con il fiato interrotto, si stava lasciando rapire dall’impervia intensità del deserto di sabbia e luce, avvertibile ben oltre il trasudo degli schermi ionizzati. Le parole gli morirono in gola, il fascino della sopraffazione psichica che provò per qualche istante gli fece ripercorrere le gioie di lui bambino mentre con la madre, ancora entrambi umani in un ecumene già vasto di postumani, osservava le giostre disegnare giochi da baraccone. Erano spassosi e pregni di trucchi da realtà virtuale da quattro soldi, che però avevano il gran pregio di divertirlo e renderlo curioso, inestimabile risorsa mentale per un futuro che non avrebbe mai immaginato, ma nemmeno sospettato, di longevità.

«Potente, siamo in prossimità dello spazioporto, la prego di accomodarsi nella nicchia di decelerazione.»

Come concime di Franci Conforti

Henry Gondo si godeva la vista dalla finestra del suo ufficio. Il cielo era terso e il sole creava colonne di luce tra i grandi ramo-viali dei palazzi arborei dove la gente passeggiava guardando le vetrine. Gente evoluta, elegante e gentile. Le piazzette e i giardini pensili in cui giocavano i bimbi erano collegati da vertiginosi ponti sospesi. Le vetrate illuminate degli uffici e delle case brillavano nei fusti dei grandi alberi chimerici. Il commissario capo si cacciò le mani in tasca e si dondolò sui fianchi con un sorrisetto. Quercal era una delle più belle arbopoli della Terra. Posò l’indice e il medio sul cristallino della finestra e li divaricò. L’immagine s’ingrandì, mettendo a fuoco un gruppo di giovani angelici in divisa scolastica, un’alata con il bambino, due platonici che discutevano seduti al tavolino di un bar e… e? Gondo corrugò la fronte. Quello era un accattone? Sì. Era uno dei soliti umani vecchio stampo dediti al furto, alla truffa e alla corruzione.

Nel sottosuolo, a qualche chilometro di distanza, uno degli agenti del commissario Gondo dava la caccia a uno di quegli incivili bastardi. Gli era dietro da sei giorni e ne aveva abbastanza di radici, lumaconi, bave, uova d’insetti e cibo in pillole. Ma era arrivato in una zona di gallerie che prometteva bene: era ingombra di detriti e di anfratti in cui nascondersi. Coperta da una piccola frana, trovò una porta a iride ancora intatta. Forse era la volta buona. Si trattava di un vecchio monolocale rizomatico, uno di quelli usati dagli operai durante i lavori. Joe ripulì l’ingresso, seguì lentamente il filo con le dita e cominciò a forzarlo.

Non troppo lontano dall’agente Joe Duckett, ma alcuni metri più in profondità, qualcuno urlò. Urlò ancora. Non riusciva a smettere di urlare. Era un urlo di gola, rauco e disperato, un urlo lunghissimo che sembrava prolungarsi all’infinito nell’oscurità. 

Il turismo spaziale come incontro fra culture di Davide Del Popolo Riolo

Vuole sapere com’è andata? Lasci che le dica una cosa, signore, la più importante: non è stata colpa mia. È stato un incidente, giusto cielo, un tragico incidente, certo, qualcosa che non so spiegare, e sono molto dispiaciuta che sia successo proprio a un mio cliente, ma ne succedono tanti al giorno, no? Ogni anno la Terra è visitata da… quanti sono? Non meno di cento miliardi di turisti alieni, credo, ed è una fortuna, lo so anch’io, ci portano tanta ricchezza senza la quale saremmo ancora più pezzenti, certo. È normale però che con tutta questa gente aliena che arriva, ogni tanto capiti qualche problema, no? Non lo crede anche lei?

Sì, signore, ha ragione, forse è meglio che io racconti quello che è successo evitando ogni giudizio personale. Sì, mi rendo conto che è un’indagine ufficiale e che ho diritto a farmi assistere da un’IA legale, grazie di avermelo detto, signore, molto gentile, ma non credo di averne bisogno. Come ho già detto, so di non aver fatto nulla di male.

Tutto è iniziato questa mattina, giusto cielo, è incredibile, vero? Non è ancora trascorso un giorno…

Tutto è iniziato questa mattina, dicevo. Ero appena sveglia, a casa mia, a Firenze. Che poi, casa per modo di dire, è un bugigattolo di venti metri quadri al sessantesimo piano di un condominio dell’estrema periferia, ma del resto non ho bisogno d’altro e con la crisi degli spazi che c’è oggi… Che cosa stavo facendo, signore?

Stavo scaricando nella mia memoria a breve termine gli impegni della giornata. L’interfaccia era aperta nel retro del mio occhio destro, proprio come lo è in questo momento. In mattinata dovevo accompagnare una comitiva di shanti in giro per la val d’Orcia. Conosce gli shanti, signore? Sono classificati come alieni equinidi, quadrupedi molto intelligenti e saggi, a mio modo di vedere, e hanno un’abitudine che tanti trovano imbarazzante: quando vogliono manifestare la loro approvazione emettono rifiuti organici, scusi l’espressione. E amano la campagna toscana, per cui, be’, può immaginare il risultato, ma del resto la val d’Orcia è deserta, come sa, ci vanno solo i turisti alieni per cui non è così fastidioso, no? Nel pomeriggio invece… sì, signore, cercherò di evitare di perdermi in questi particolari irrilevanti.

L’interfaccia neurale interruppe il download e mi segnalò una comunicazione urgente da spacetourist.com. Non ho bisogno di spiegarle cos’è, credo, tutti sanno che è una delle maggiori agenzie di turismo spaziale e che… sì, signore, vado avanti.

Il mio nome è Lemuel di Nicola Fantini 

La giornata lavorativa era finita un po’ oltre l’orario perché volevo assolutamente terminare la riparazione e le modifiche dello Scout3. L’intervento si protraeva da un paio di settimane, decisamente troppo, ma d’altra parte era inevitabile vista l’alta instabilità dei nanocircuiti su cui agire: anche le strumentazioni avevano perso precisione, per cui era un continuo annaspare per afferrare una specie di saponetta sfuggente… Così, una volta completato un rapido check, affidai l’esecuzione dei test di funzionamento a due MOD ausiliari e lasciai il biolab. Ero talmente soddisfatto da fischiettare uno stupido motivetto che mi accompagnò durante la sterilizzazione e anche mentre sceglievo il vestito per la serata: una semplice camicia bianca senza colletto e calzoni oltremare aderenti, con una discreta fibbia dorata a forma di corna taurine. Dopo un’occhiata allo specchio dello spogliatoio giudicai che forse sarebbe stato meglio ravviare i capelli all’indietro, accentuare appena gli zigomi e dare un po’ più volume a collo e spalle. Gli occhi andavano bene così, mi piaceva quella tonalità azzurra che sfumava nel grigio.

«Come sto?» domandai a Jeeves quando mi ritenni pronto.

“Una meraviglia, Lemuel” fu la risposta dell’IA della base: la stessa che mi riservava ogni volta che avevo bisogno di supporto nei miei innocui riti quotidiani. Detestavo Jeeves per la sua accondiscendenza e per la totale mancanza di senso dell’umorismo, anche se, dovevo riconoscerlo, mi risparmiava un’enorme mole di lavoro noiosissimo. Ribattei con un grugnito e nello stesso momento lo esclusi dai canali di comunicazione, poi salii al terzo piano di superficie.

Entrai nel locale stretto e lungo che avevo ricavato riadattando un magazzino per lo stoccaggio di componenti inerti, arredandolo soltanto con un tavolo, uno schermo 3D e una poltroncina girevole. Lo avevo impropriamente battezzato “sala controllo”, per il semplice motivo che da lì, dopo avere sostituito l’originaria parete cieca con una di materiale trasparente, potevo contemplare il panorama esterno per centinaia di chilometri, fino all’orizzonte leggermente concavo del pianeta. Sopravvivere era un’arte, mi ripetevo a ogni occasione, e associare spazi fisici alle funzioni e restituire un nome alle cose faceva parte della strategia.

Come avevo previsto, Estella mi stava aspettando: l’inquadratura a mezzo busto riempiva lo schermo.

Geografia umana di Clelia Farris

Ogni volta che ripensava al modo in cui era iniziata tutta la faccenda, Lena ricordava bene ogni dettaglio. Si trovava al Bea Vita e stava sorseggiando un arlecchino. Un momento prima contemplava l’oliva nel bicchiere, un attimo dopo era diventata lei l’oliva, nel profondo liquido chiamato mediterraneo.

Il Bea Vita apparecchiava i tavolini sulla piattaforma rivolta al mare aperto. Lena si trovava in piedi sul bordo e chiacchierava con Amir. Gli stava raccontando del nuovo incarico per conto della Heqet, l’azienda egiziana che si occupava di smaltimento della plastica di mezza Africa.

File e file di camion con il logo della rana verde sulle fiancate convergevano ad Alessandria dalla Libia, dal Camerun, dal Kenya, dal Congo. Il problema era rappresentato dai residui alimentari: per essere riciclata, la plastica doveva prima subire un robusto lavaggio e la quantità di acqua necessaria stava prosciugando il Nilo, secondo la colorita espressione del rappresentante della società.

Qualche anno prima la Heqet aveva cercato di modificare la legge internazionale sul riciclo, per cancellare l’obbligo della ripulitura della plastica, senza riuscirvi.

La questione era semplice: come abbattere i costi del lavaggio?

Bel casino aveva commentato Amir.

Subito dopo Lena era caduta in mare e il sapore erbaceo del gin si era mescolato a quello del sale. Cose che capitano, quando ti sparano.

L’inferno dentro di Lorenzo Fontana e Andrea Tortoreto

Brandon Blade si svegliò di soprassalto: labbra arse e sapore di metallo sulla lingua, come sempre ma, per la prima volta dopo tanto tempo, niente incubi.

Accanto a lui Anja mormorò qualcosa girandosi dalla parte opposta e tirando le lenzuola verso di sé, fino a coprirsi le spalle d’ebano.

Brandon la guardò con la vista annebbiata, però non abbastanza da impedirgli di percepire le forme atletiche del suo corpo, che pareva riprodurre una scultura sotto la seta leggera che lo ricopriva.

La voce di Stella, sua assistente virtuale, gli si insinuò in testa aumentando il consueto dolore mattutino alle tempie, mentre gli rigurgitava addosso una moltitudine di informazioni sulle condizioni meteo, il traffico e il coefficiente di aggressività medio della città.

Brandon si sollevò dal letto senza le forze per farla tacere. Quando Stella gli chiese quali abiti avrebbe indossato e cosa voleva per colazione biascicò: «Il solito».

Si buttò sotto la doccia tiepida. Il flusso costante dell’acqua lo isolò in un mondo ovattato. Si guardò riflesso nelle pareti a specchio, chiedendosi come poteva avere un corpo ancora così tonico con la vita che conduceva. Restò lì per un po’ a rischiarare i pensieri, poi il flusso cessò all’improvviso, interrotto dai richiami dell’avatar olografico che lo invitava a vestirsi in fretta.

Uscì dalla doccia. Una sezione della parete del bagno era aperta. All’interno una siringa di psicodroga. L’afferrò e si piantò in una coscia la dose quotidiana. Una fitta breve, un lieve rossore e sentì il vigore impossessarsi di nuovo delle sue membra.

«Dove mi mandano oggi?»

«Il Sistema segnala un pericoloso aumento di aggressività nella discarica abbandonata.»

«Qualche pusher o uno di quei ragazzini disperati?» chiese.

L’avatar non era programmato per fare commenti.

Si vestì in fretta, passò in soggiorno giusto il tempo di afferrare il caffè e indossò il giubbotto con lo stemma del ministero per la Sicurezza. Sfiorò la guancia di Anja con un bacio e, prima di uscire, spalancò la cassaforte: all’interno la sagoma liscia e cilindrica dell’Eliminatore. Lo afferrò come un bastone da passeggio e prese anche la piccola borraccia di latta che gli faceva compagnia nell’anfratto. Un cimelio risalente a una guerra combattuta circa trecento anni prima.

Era pronto per andare al lavoro.

Ipersfera solo per maggiorenni e fino alla morte di Lukha B. Kremo

Andrea

Il mondo ha tutto.

Pianure, praterie, distese di rena. Montagne e rocce che svettano insolenti. E trilioni di litri d’acqua, mare ovunque, con grossi cluster di ghiaccio e venti impetuosi che rimescolano l’atmosfera.

E un’infinità di creature. Grossi quadrupedi, o esseri a due zampe, stormi di svolazzanti pennuti e schiere di stravaganti esseri marini fino al più profondo antro sperduto.

Ma anche insetti. Anellidi, protozoi e germi a milioni di colonie, che trasformano la materia stessa.

E ci sono metalli e plastiche. Di ogni tipo, un inventario completo. Quasi unico nella galassia. Estrusi dal sottosuolo, per un fugace periodo, dagli umani. Umani che dopo un’esplosione demografica degna di uno sciame di cavallette si sono placati. Dopo l’esplorazione di ogni orifizio terrestre, dopo sanguinose guerre fratricide, dopo lo scorrazzare nevrotico per il mondo (e oltre), si sono gradualmente rinchiusi nelle loro nuove caverne. Sono stati sufficienti diecimila anni o poco più: un colpo di ciglia geologico. Antropocene.

Così, ora, la distesa che si staglia sotto il drone pare una landa tornata a riposare dopo le scorrerie frenetiche degli umani, un groviglio di edifici e condutture, di antenne, torri, piattaforme e cisterne. Le nuove incrostazioni terrestri, i nuovi coralli emersi. Le strutture sono in prevalenza enormi impianti di raffreddamento automanutenzionati e controllati dai droni. Solo nelle sporadiche torrette vivono uomini solitari come guardiani di fari.

Queste zone prendono il nome di aree grigie, il colore che assumono osservandole dai satelliti. Ma il nuovo paesaggio terrestre non è l’unico. Al loro centro, nere come pupille, ci sono le città, che paiono occhieggiare spaurite lo spazio siderale.

Il drone si avvicina ai limiti della città e comunica il report al corrispettivo drone cittadino, che prende in consegna i dati e parte per una destinazione nota solo al data center. Qui, nelle aree nere, si possono scorgere gli umani: qualcuno cammina indaffarato sulla strada, altri sono chiusi in veicoli slittanti. Ma si tratta di passaggi saltuari, che rendono inutili i rari semafori. Il traffico è ormai un ricordo lontano persino nelle metropoli. Uscire di casa non è più necessario. E gli edifici si dividono tra grattacieli residenziali, ville di possidenti e stravaganti palazzi landmark, monumenti alla mitologia consumistica.

Fatum di Maico Morellini

La capsula comparve sugli ologrammi con un lieve ritardo. Niente di clamoroso, forse una manciata di secondi, ma per il Magister Henke si trattava comunque di una novità degna di nota.

«Analisi tempi di arrivo. Ultimi otto mesi. Grafico sul pozzo centrale» ordinò alla rigida Intelligenza Artificiale che controllava Fatum.

In silenzio, perché i progettisti della stazione spaziale non avevano voluto dotare il sofisticato computer di una voce, la macchina eseguì l’ordine e un intreccio di colori tenui comparve al centro dalla stanza. Rimase sospeso a mezz’aria in attesa che Henke gli imprimesse una rotazione, ma il Magister si alzò: preferiva essere lui a cercare il corretto punto di vista usando prima le gambe e poi la testa.

“Non lasciare che altri ti offrano una verità, ma cercala. Cercala sempre”. Con testa e gambe, se necessario. Era uno dei primi precetti che si insegnavano su Fatum subito dopo la Nascita. Se i loro antenati li avessero applicati, ora nessuno di loro avrebbe dovuto scontare quella terribile punizione.

«Come immaginavo» commentò il Magister mentre sentiva la vaga eccitazione di qualche attimo prima scivolargli tra le dita come una preghiera recitata controvoglia. Nelle ultime trentadue settimane aveva contato almeno altri sei ritardi e addirittura tre missioni nelle quali la capsula era rientrata su Fatum in anticipo. E ovviamente, come per ogni esplorazione da ormai duecento anni, l’esito della ricognizione sulla Terra era stato negativo. Ritardi o anticipi, il risultato era sempre lo stesso.

«Oblia» ordinò stizzito. Una delle poche flessibilità che l’Intelligenza Artificiale della stazione consentiva era l’utilizzo di termini arcaici per operazioni quotidiane. Quella di attingere ai vocaboli del passato, insieme ai precetti, era una delle manie che costituivano la spina dorsale di Fatum. Erano stati i Quaesitor con i loro talenti a renderlo possibile.

L’ologramma venne risucchiato dal pozzo e al suo posto comparve un conto alla rovescia: due minuti, il tempo previsto prima che la capsula rientrasse nell’hangar rivelando l’inutile niente che riportava con sé dalla Terra.

Henke si affacciò ai grandi oblò lasciando che lo sguardo precipitasse verso il pianeta attratto dalla potente forza gravitazionale, la stessa che permetteva a Fatum la secolare orbita geostazionaria. Non c’era nulla da vedere. Una coltre perenne di nubi avvolgeva tutta la porzione di emisfero terrestre che era possibile osservare dalla stazione spaziale.

L’automa dell’imperatore di Piero Schiavo Campo

Maometto II divenne sultano dei turchi ottomani nel 1451, quando aveva appena diciannove anni. I suoi antenati avevano conquistato quasi tutto quello che era interessante conquistare, gli immensi territori dell’Impero romano d’Oriente e le sue fantastiche ricchezze. Ai greci restava la Morea, ancora sotto il controllo del despota Tommaso Paleologo, e soprattutto la Città, Eis Ten Polin, che i discendenti di Giustiniano chiamavano Bisanzio. Maometto era giovane e ambizioso. Aveva letto moltissimi libri e il suo sogno era quello di eguagliare le gesta del grande Alessandro, che quasi duemila anni prima aveva conquistato l’Asia. Nella sua mente la missione storica degli ottomani era ribaltare quell’impresa, fare in modo che i popoli asiatici s’impadronissero dell’Europa. La conquista di Bisanzio e la deposizione del suo ultimo sovrano, Costantino XI, che ancora si attribuiva l’inutile titolo di imperatore, non era importante dal punto di vista economico o militare: Bisanzio dipendeva completamente dai territori oltremare, non era altro che un’enclave dell’impero turco. Ma Bisanzio era Costantinopoli, la capitale del mondo, ciò che restava dell’impero romano e dei suoi duemila anni di storia. Bisanzio era un simbolo, e anche una spina sanguinante nel fianco dell’impero ottomano. Maometto lo sapeva, così come lo sapeva suo padre Murat, ma conquistarla non era possibile: nulla al mondo avrebbe potuto scalfire le immense mura edificate da Teodosio II e poi rafforzate, nel corso dei secoli, fino a diventare il più potente bastione mai costruito dall’uomo. Protetta da quelle mura, la Città si difendeva, e neppure tutti gli eserciti del padishah ottomano potevano averne ragione. Murat aveva fatto venire a Edirne, la capitale provvisoria dell’impero, i migliori ingegneri del Catai. Nella loro patria costoro avevano fabbricato un usignolo meccanico così perfetto da incantare il loro re e fargli dimenticare la grazia del canto del vero usignolo. Murat chiese loro di costruire per lui un cannone gigantesco, così grande da abbattere le invincibili mura di Bisanzio. Gli ingegneri si misero al lavoro, e all’epoca in cui Maometto diventò signore dei turchi il cannone era quasi pronto, ma il giovane imperatore era incerto, non sapeva se fosse davvero il caso di usarlo. Mandò un’ambasceria nella Morea e chiese, sotto pena di ritorsioni, che gli venisse inviato Giorgio Gemisto detto Pletone, il più saggio di tutti i saggi che vivevano sotto la volta del cielo. Costui era stato il maestro di Bessarione e di innumerevoli altri filosofi e vescovi d’Occidente. Il despota Tommaso, che non osava sfidare il giovane sovrano, acconsentì alla richiesta e ordinò che il vecchio scienziato fosse caricato su una galera e portato al cospetto del sultano. Del resto, gli ambasciatori gli avevano dato ampie rassicurazioni del fatto che nulla di male sarebbe capitato al grande filosofo. Così Pletone raggiunse Edirne, fu portato nella sala delle udienze e lì s’inchinò finché la sua fronte sfiorò il freddo marmo del pavimento. Maometto, seduto di sghimbescio sul trono tempestato di smeraldi e rubini, lo osservò dall’alto.

Picadura una storia di Mondo9 di Dario Tonani

Colpi.

Violenti, forsennati, brutali.

Il marcantonio districò la lama dalla corazza blindata e portò di nuovo l’ascia sopra la spalla per sferrare l’ennesimo fendente.

Nonostante le ferite inferte e i segni delle lacerazioni nel metallo, il bastardo non si dava per vinto.

Avevano utilizzato anche la fiamma viva e dispensato generose dosi di un acido corrosivo che l’Avvelenatore aveva estratto dal suo prezioso armamentario di pozioni. Nulla, non c’era stato modo di aprirlo…

L’uomo liberò di nuovo la lama a strattoni, barcollò all’indietro ansimando e poggiò l’accetta a testa in giù sul piede scalzo; il respiro corto, il petto che si sollevava e abbassava per lo sforzo. Sputò per terra un grumo di saliva e, cocciuto come un mulo, tornò alla carica.

Aveva perso un paio di compagni allo stesso modo. Straziati da un lampo nero scaturito all’improvviso dallo pneumosnodo. Nessuno dei due aveva avuto il tempo di accorgersi di nulla, tantomeno di sottrarsi alla scudisciata fulminea. Si erano afflosciati entrambi sulle ginocchia, divisi a metà da un taglio netto, senza versare nella sabbia una goccia di sangue.

Intorno, spuntati da chissà dove, frotte di scarafaggi stercorari.

Portò la scure oltre la spalla e…

SWIIIIIIISHHHHH!

Naila si svegliò di soprassalto e drizzò la schiena sulla branda sfatta, gli occhi sbarrati nel buio.

Qualcosa sotto le lenzuola. Scalciò fino a quando uno dei lembi non le si attorcigliò a una caviglia. Un’ape zampettò lenta sul suo piede, direzione polpaccio.

Come diamine era arrivata fin lassù, nella sua cabina?

Con la coperta la scaraventò da qualche parte lontano.

Ritrasse le ginocchia nude e le raccolse al petto. Serrò le palpebre. Quella paura… si stava comportando come una bambina.

Lanciò un’occhiata all’oblò sopra la testa: fuori era ancora buio. Ma ormai era sveglia, tanto valeva alzarsi e concedersi una passeggiata lungo i ponti: in solitudine, come le piaceva fare quando gli incubi la destavano nel cuore della notte. Sporse le gambe fuori della branda e si sollevò. La Syraqq russava, immersa in un’andatura sonnambula, fatta di scossoni, pietrame masticato tra le ruote e borborigmi idraulici, sedata dalle pozioni che continuava a somministrarle Qasim, l’odioso Avvelenatore di bordo.

Blue Infernalia di Emanuela Valentini 

Halley attraversò la tangenziale correndo sui suoi boots molleggiati. Solo che questa volta, anziché mirare al marciapiedi dall’altra parte delle sei carreggiate e tuffarsi nelle montagne di rifiuti che ridisegnavano la geografia di Nova Roma Est, scartò di lato e aggredì un cittadino di Fascia A che viaggiava a bordo di un hoverboard nero a due marmitte nuovo di zecca.

L’uomo urlò, si aggrappò al manubrio, ma colpito alla nuca dal tirapugni metallico crollò con la faccia sul tappeto d’asfalto e lì rimase, immobile.

«Scusa, ma ho un appuntamento!» strillò Halley, la frezza viola che galleggiava oltre il bordo della maschera, il cappuccio della felpa che svolazzava sullo zainetto in latex zeppo di gelatine psicotrope alla fragola.

Halley zigzagò fino all’uscita monti tiburtini. Scivolò lungo la rampa in folle e a fari spenti per evitare che i cittadini di Serie C che popolavano le zone sotto i ponti della tangenziale le saltassero addosso e la uccidessero per prenderle lo skateboard elettrico, la droga e il culo, prima che esalasse l’ultimo respiro.

Poi sarebbe diventata carne in scatola.

Superato il curvone saettò in direzione della via Tiburtina e riaccese il motore.

Il capannone era un hangar in decomposizione. Un recinto di filo spinato illuminato da fiaccole che splendevano di luce azzurrina conduceva all’ingresso: un portone di ferro divorato dalla ruggine. Halley si perse a osservare i disegni osceni tratteggiati con lo spray nel metallo, finché qualcuno non la spintonò malamente.

Il gancio sinistro sfondò la guancia molle di un tizio sulla trentina, che cadde riverso nel fango. Le componenti chimiche della pozzanghera gli corrosero la faccia prima che potesse anche solo bestemmiare e Halley si tirò sulla testa il cappuccio rosso.

Dalle grida di protesta comprese che c’era una fila da rispettare che lei aveva saltato, concentrata com’era sull’entrata dell’hangar.

«Sì, non rompete il cazzo, volevo solo vedere.» Scorse da dietro la maschera il mucchio di derelitti in attesa accanto al filo spinato.

“Fantasmi” pensò, ficcandosi in bocca un paio di Special Blue. “È questo che siamo diventati, tutti.”

Zona di contenimento di Claudio Vastano

Erano le quattro passate, quando il sergente Larry Burks fece irruzione nell’ufficio di Arthur Melckin. Una settimana prima, fra i boschi del versante occidentale di Mount McLoughlin, era divampato un furioso incendio, e adesso, dalle vetrate che si affacciavano sulla montagna, si riuscivano a intravedere le chiazze annerite che punteggiavano le selve pedemontane. Secondo i bollettini del servizio antincendio, il rogo era scaturito da una delle vallecole d’intorno al lago Klamath, aveva acquistato potenza a spese delle macchie di larici ed era infine traboccato in direzione della piana di Medford. I vigili del fuoco si erano dannati l’anima per tre giorni di fila ma, in qualche modo, erano riusciti a domare le fiamme. Purtroppo erano ancora i primi di luglio, e i mesi più caldi dell’anno dovevano ancora farsi sentire. Le ultime piogge risalivano ad almeno due mesi prima e, in certi punti della valle, la terra era talmente secca che a camminarci sopra era possibile udire lo scricchiolio della crosta argillosa che andava in frantumi.

Con i sessant’anni compiuti da tempo e le mani che andavano infiacchendosi inverno dopo inverno, Arthur era stato costretto a dire addio a ogni genere d’incarico operativo. Si era ritagliato un suo piccolo spazio personale nella sala dell’archivio e, fra le quattro pareti di quel loculo sonnolento, contava di veleggiare tranquillamente almeno fino al giorno della pensione. Gli anni trascorsi a combattere contro gli incendi delle foreste di Crater Lake erano ormai alle spalle, e a lui andava bene così. Meglio lasciare le gesta eroiche ai giovani. Erano necessari occhi buoni e mani salde per manovrare un carro dei pompieri o per tenere in pugno una lancia a pressione.

Non appena Larry ebbe oltrepassato la porta, Arthur spostò lo sguardo dai faldoni impilati sul piano della scrivania al volto del vigile del fuoco. Il sergente indossava una maglietta a mezze maniche e i pantaloni della divisa. Entrambi gli indumenti erano imbrattati di fuliggine.

«Art, hai un minuto?» domandò Burks.

«Ho tutto il tempo che vuoi» disse l’archivista. Si guardò attorno, indicando con un cenno del mento la stanza deserta.

«Abbiamo un problema dalle parti della statale per Riley.»

«Quale parte della statale?» chiese Arthur.

«Quella che nessuno percorre più da una decina d’anni» rispose il vigile del fuoco. «Il tratto che risale verso Crater Lake.»

«Cos’è successo? È scoppiato un altro incendio?»

Essere Ovale di Alessandro Vietti

Certo che se esistere significa prima di ogni altra cosa occupare uno spazio (e chi può affermare che non lo sia? quanti si limitano a essere scogli nel mare per tutta la vita?), credo che nessuno di voi potrà obiettare che il mio modo di esistere sia sempre stato quantomeno singolare, raro, anomalo. E sono convinto che converrete con me che le circostanze in cui mi trovo non fanno che togliere ogni dubbio in proposito, se mai ce ne fosse rimasto qualcuno [attivazione sequenza distacco fra tre… due… uno…]. Senza dubbio anche questa meravigliosa vista della Terra, che mi fa chiedere come sia possibile che l’universo abbia potuto creare una cosa simile, ci sta mettendo del suo, giacché in un certo senso la domanda vale anche per me stesso. E non credo che ci sia bisogno di avere sperimentato condizioni simili alle mie per arrivarci, né sapere per esempio che una volta esistevano unità di misura chiamate (non a caso) pollice, spanna, braccio, piede… In questo modo il vostro corpo era sufficiente per attribuire un senso allo spazio che vi circondava e alle cose che lo abitavano, compresi voi stessi. Tracciarlo per descriverlo, come fa un pianeta con la sua orbita, [riscaldamento propulsore in avvio / coordinate di orientamento verificate e agganciate / rotta presente e validata / diagnostica dell’Ovale negativa], descriverlo per condividerlo, condividerlo per comprenderlo; usare appendici della propria fisicità per dare conto del mondo e sentire così che il mondo non era solo parte di voi stessi ma costituiva anzi un’estensione misurabile di voi, dunque decifrabile nell’ambito di una superiore prospettiva olistica. Quante braccia saranno da qui alla Luna? Eh no, fare il conto non vale. Bisognerebbe andarci e misurarle sul serio. Una, due, tre… È così che si dovrebbe fare, per farlo bene. Ovviamente, nel caso, almeno un paio di braccia bisognerebbe averle.

Ricordo che dalla sua poltrona sfondata, quando ormai non ce la faceva quasi più, a un certo punto del pomeriggio, di ogni pomeriggio, quando mio fratello e io eravamo lasciati soli in casa con lui mentre nostro padre era a farsi usare (ma con logica equa) da qualche capocantiere artificiale, mio nonno apriva gli occhi, sia quello naturale che gli era rimasto, mangiato dalla cataratta, sia l’altro da quattro soldi passato dal Servizio sanitario nazionale, e attraverso quelle labbra sottili e lucide di bava, diceva (urlava): “Chi mi versa due dita di grappa?!” Avremo avuto sei o sette anni e forse lui pensava così di fare un favore a me, di farmi sentire uguale. Invece mi faceva solo andare su tutte le furie. Erano i tempi, quelli, in cui stavo realizzando la portata della differenza, quella che mi faceva scattare la frustrazione e la rabbia. Naturalmente era mio fratello a muoversi (e per giunta sbuffando, capite? lui che lo poteva fare sbuffava) [riscaldamento propulsore 10%… 11%… 12%…].

Orbita pericolosa di Alain Voudì 

Rottami

Paco attese che la telecamera frontale del drone da ricognizione gli trasmettesse le prime immagini del bersaglio, poi annuì fra sé. Allungò la mano verso il touchscreen sulla console del rimorchiatore e sfiorò con l’indice l’icona della radio.

«Controllo, qui Cleaner 6-11, mi ricevete?»

La stazione orbitante si trovava in quel momento dall’altra parte del pianeta, rendendo perciò impossibile una trasmissione diretta, ma il computer di bordo sapeva come cavarsela: investì qualche microsecondo a scorrere l’elenco dei satelliti geostazionari presenti nel proprio orizzonte e selezionò il più economico tra quelli convenzionati con l’Agenzia.

Viaggiando alla velocità della luce, il segnale impiegò solo centoventidue millisecondi a percorrere gli oltre trentaseimila chilometri tra il rimorchiatore di Paco e INMARSAT-58B, ma poi dovette attenderne un’altra infinità mentre il satellite liberava una trasmittente per rilanciarlo. Quando finalmente il segnale fu libero di ripartire, gli toccò viaggiare per altri centoventisei millisecondi prima di raggiungere le pazienti antenne della stazione orbitante, in quel momento in volo sul Pacifico meridionale.

La risposta del Controllo, dopo aver ripercorso la stessa strada in senso opposto, arrivò mentre Paco stava ancora ritirando il dito dallo schermo.

«6-11, qui Controllo, avanti.»

Nel riconoscere la voce in cuffia, il viso di Paco si illuminò di un sorriso ribaldo.

«Hola, palomita! Che piacere risentirti: credevo avessi cambiato turno apposta per evitarmi. Dove sei stata negli ultimi due giorni?»

«6-11, qui Controllo: quand’è che imparerai a utilizzare i codici di chiamata corretti?» lo rimproverò la voce in cuffia, in un tono troppo divertito per essere credibile.

«Quando una certa chica del Controllo si deciderà ad accettare l’invito a farsi una birra da me dopo il lavoro!»

«6-11, siamo su una frequenza aperta: non stai davvero confessando di aver contrabbandato alcolici a bordo della stazione, vero?»

Preso del tutto in contropiede, Paco spalancò gli occhi, e il suo sorriso si trasformò all’istante in un ghigno sofferente.

Mierda.”

«Ines, mi amor, così mi offendi!» balbettò in difficoltà. «Lo sanno tutti che Paco beve solo birra analcolica!»

L’incipit dell'articolo di appendice

L’età dell’oro della fantascienza italiana di Silvio Sosio

Ancora fantascienza italiana? Non se ne può più!

Non nascondiamoci dietro un dito: sappiamo bene che ogni volta che su “Urania” escono produzioni di autori italiani c’è una parte dei lettori che storce il naso. Sui canali di discussione, come il blog ufficiale della testata o sui social, partono inevitabilmente polemiche infinite. Ci sono i sostenitori della fantascienza italiana, che pensano che gli autori del nostro paese abbiano diritto almeno al beneficio del dubbio, e chi sostiene che questo genere è adatto solo agli scrittori stranieri, meglio se americani o inglesi. Ci sono anche ampie teorie a supporto di questa tesi; semplificando, quella che va per la maggiore sostiene che la cultura anglosassone sia centrata sulla scienza, cioè illuminista, mentre quella italiana sia profondamente umanista. Perciò gli italiani saranno magari più portati a scrivere poesie, ma se c’è da scrivere cose che abbiano a che fare con fisica o astronomia, no, sorry, non ne sono capaci. Con tanti saluti a Galileo Galilei, Enrico Fermi e Samantha Cristoforetti…

Strani mondi, a cura di Franco Forte, Millemondi Urania 84, euro 7,90.