Pensare a un luogo che sia senza confini per eccellenza rimanda la mente alle sterminate distese siderali. Là in quel nero si perde ogni cosa, in un oscurità perenne punteggiata da uno spolverio di stelle irraggiungibili. “Deserto elevato all’ipercubo”, “pacchia dei claustrofobici”, “paradiso dei parcheggiatori”, insomma, chiamate il cosmo come volete basta che rimanga “spazioso”.

Eppure anche lì qualcosa è cambiato. Dopo l’arrivo di Lone Sloane, il terrestre dagli occhi rossi, l’infinito si è fatto angusto e la responsabilità non è del solito inquinamento, né del buco nell’ozono o di altri sfracelli ecologici, la colpa è tutta di Philippe Druillet.

Basta che diate uno sguardo alle tavole del suo ciclo più famoso per capirlo, tuffandovi in un trip così visionario che le splash-page di Steranko o quelle di Jack Kirby sembreranno di colpo gli appunti di un troglodita. Dipende dal fatto che “Spazio” per Druillet non vuol dire altro che vuoto da riempire, terreno da invadere, sostanza da saturare. Quel che fa dal 1966, inzeppandone ogni angolino di un’inarrestabile logorrea segnica, quella con cui da allora non ha smesso di arruffare la vecchia linea chiara cara a Hergé e Jacobs.

Il preambolo probabilmente vi apparirà nebuloso. C’è poco da dire, confermiamo. Quando l’ammirazione sovrasta ogni distacco critico, il ricordo personale sostituisce la visione storica e allora o si scantona o si va giù di agiografia, ricorrendo al ripostiglio dei superlativi.

L’impatto di chi abbia scoperto Druillet agli inizi dei ’70, in sostanza non permette altro. Sganghera le mezze misure, resta impresso nella memoria con la potenza di un’esperienza nuova.

Perché Lone Sloane è più che un fumetto innovativo, è l’alfiere di una rivoluzione. Non per niente poco dopo la sua comparsa sulle pagine del settimanale Pilote, la follia di gruppo degli Humanoides Associes darà vita alla rivista Métal Hurlant, spartiacque epocale tra la bedè del passato e l’ermetismo più estremo e punkoide.

Perciò oggi si parla di fantascienza, di sperimentazione, di azzardo, insomma di definitivo sfanculamento di ogni convenzione grafica, come le immagini di Sloane spiegano bene da sole, traboccando fuori dal foglio fino a riempirvi di mostri e astronavi pure il tinello.

Per raccapezzarci in questo ingarbugliato ambaradàn bisogna cercare un bandolo, è il caso quindi di partire dai primi passi dell’autore, così da entrare con un filo d’Arianna nei meandri labirintici della sua creatività.

Il tolousano Philippe, nativo di una città paciosa dai tramonti pastello quale il capoluogo dell’Haute Garonne, sin da ragazzo mostra lo stesso slancio di una sonda in calore, di quelle bramose di perdersi nell’infinito da scodinzolare solo dai bastioni di Orione in su.

Dopo una giovinezza tirata su a pane e Lovecraft e accompagnata da collane tipo Fleuve noir, Galaxie e Fiction la vocazione diventa lampante. Con il ciclo di Cthulhu in una mano e Flash Gordon in un’altra, Druillet appronta i primi fumetti di diciassettenne. La mano inesperta stenta a star dietro al modello Raymondiano e i risultati sono goffetti, soprattutto nella figurazione, ma disseminati qua e là si intravvedono guizzi di quelli che saranno i suoi futuri cavalli di battaglia. Le divine creature metalloidi, tripudianti di meccanismi e cromature, che invaderanno le tavole come una lebbra inarrestabile.

Anni di passione e apprendistato prendono corpo nelle pagine de Le mystére des abimes, album uscito nel 1966 nella collana Le terrain vague di Eric Losfeld. L’editore parigino ha tanto fiuto nel pubblicare fumetti d’avanguardia (vedi Nicolas Devil e Jean Claude Forest) quanto il braccino corto nel pagare i propri autori, costretti a estenuanti questue per vedere qualche sudato doblone. Per un giovanotto che bazzica redazioni con gente come Forest, Poivet e Goscinny, comunque è sempre meglio di una porta in faccia.

La tenacia premia, oltre all’evoluzione rigogliosa del suo stile, fattosi più personale e intrigante, è così che quattro anni dopo lo vediamo tornare a bussare alle porte di Pilote, dove vedranno finalmente la pubblicazione I sei viaggi di Lone Sloane.

Bum! Qui la bomba Druillet, innescata pazientemente da anni di fotografia e tante letture, fa il botto staccandosi completamente dal lavoro precedente, da cui estrapola il protagonista Lone Sloane, per frullarlo in contesti e situazioni d’avanguardia. Parecchio d’avanguardia.

Dimenticate le trame, la logica, la timeline e via dicendo. Il bagaglio dell’astronauta solitario Sloane si è snellito e viaggia leggero di sceneggiatura, ma, attenzione, quello zainetto è capiente come il Tardis del Dottor Who. Dentro ci si trova arte liberty, indiana e optical, palate di Clark Ashton Smith, un tocco di Hermann Hesse, Carlos Castaneda qb, oltre al lato più sballato della Marvel di Silver Surfer e via flippando. Con questo malloppo di santini, il nostro eroe lascia le goffaggini della prima sortita in bianco e nero e, aiutato dal colore e dalla strafottenza verso le canoniche sequenze di vignette, mette tutto in un calderone di piani visivi, dettagli maniacali e grandangoli a palla, in tavole in cui succede la qualunque, sullo sfondo di uno scenario metafisico che si dista dalla sf come la cucina molecolare sta a un onesto piatto di pasta e fagioli.

Fil rouge che ci conduce nel vaneggiamento delle sei avventure, è il mutamento di Lone Sloane da Ambrogio Fogar degli astronauti a invasato semi-dio, toccato dall’incontro con un entità che lo rende qualcosa di più che umano, pur lasciandogli continuare la sua vita errabonda da avventuriero. Spesso testimone di eventi di scala cosmica di cui conta meno di un bruscolino, Sloane in sei episodi compie la sua parabola che lo vede partire in un viaggio di formazione in cui incontrerà pirati spaziali, cimiteri di navi distrutte e computer viventi, fino a tornare al comando della sua astronave O’ Siddarta. Un percorso di evoluzione in cui il critico Jean-Paul Corsetti ci ha letto la valenza spirituale di iniziazione all’avventura, seguita da quella dedicata alla morte (La Nuit) e al mistero e la magia, con Elric il Negromante.

Scampoli sparsi di sceneggiatura forniscono a Sloane un paio di compagni, il marziano Yearl e un misterioso figuro mascherato a nome Kurt Kurtstein, personaggi che ricompariranno nell’unica storia più strutturata del protagonista, Delirius (del 1973), avventura non a caso scritta dallo scafato Jacques Lob. Il sodalizio con Lob – che ritornerà alla tastiera coi testi di Delirius 2 – dà vita a una pericolosa missione sul pianeta della follia per operare un furto commissionato dai Preti Rossi, ambigui ceffi in maschera dalle finalità tutt’altro che trasparenti.

È una parentesi che nel 1974 sollazza i lettori italiani del mensile Il Mago (di Fruttero & Lucentini), dopo che Mondadori aveva già fatto conoscere l’anno prima la raccolta I sei viaggi in una bella edizione cartonata, conforme a quella francese. La lettura torna però a complicarsi con le storie successive pubblicate in Francia da Metal Hurlant, in cui con Gail si torna alle atmosfere allucinate degli inizi, con un segno codificato da architetture grafiche sempre più ardite e trama di pura rappresentanza. Ritroviamo poi Sloane nelle vesti del mercenario Matho in una rilettura Druilletiana dell’opera di Flaubert, con i tre volumi di Salambò.

A differenza dell’altro sperimentatore Moebius, la cui controparte Gir (Jean Giraud) mantiene un piede nella classicità più pura, il carattere estremo del lavoro di Druillet non trova troppo fortuna al di là delle Alpi. Poco conosciuto dal grande pubblico, il solitario Sloane appare in Italia a piccole dosi, dalle storie pubblicate in un penalizzante bianco e nero dalla rivista Horror della Sansoni, alla raccolta mondadoriana del 1973, all’edizione a puntate del primo Delirius sul succitato mensile Il Mago, sede anche in quel caso priva di colore, ma non di formato, essendo grande quanto un telo da mare.

Nelo nuovo millennio il ciclo completo del comic è stato riproposto da poco in un’edizione “integrale” della Magic Press, un librone contenente anche Gail, Chaos e Delirius 2 ma non la prima avventura Losfeldiana, oltre che il trittico di Salambò (pubblicato a parte).

Anni dopo l’ultima apparizione registrata sui nostri lidi (un frammento di Delirius 1 contenuto nel volume “Il piacere della paura”), ci sembra essere un discreto passo avanti. E adesso?

Mettete a riposo gli orologi. Chiudete i calendari. Coi tempi distorti dell’eroe di Druillet, per vedere una prossima edizione non se ne parla prima del Ragnarok. Se siamo fortunati.