Sul New York Times del 19 giugno del 2018, lo scrittore americano Daniel Olivas pubblicava un articolo di fondo dal titolo: The Dystopia Is Here. Nel suo editoriale, Olivas ricordava di come negli stessi giorni in cui Donald Trump stava per diventare presidente degli Stati Uniti, lui stesse finendo di scrivere un'antologia di racconti. La campagna elettorale del magnate e candidato repubblicano si era fondata sull'odio e su ripetuti annunci di voler chiudere la frontiera americana ai messicani. In quanto nipote di immigrati messicani, lo scrittore americano si sentì in dovere di scrivere un racconto che prendesse spunto proprio da Trump e dal suo annuncio. Ne nacque il racconto dal titolo The Great Wall (La Grande Muraglia, nostra traduzione), in cui in un futuro distopico, il presidente degli Stati Uniti fa eriggere un muro tra l'America e il Messico, una mostruosità dorata e sfarzosa, decorata con scene di bassorilievo della vita del presidente, dalla sua infanzia alla sua carriera televisiva, fino alla firma di ordini esecutivi proprio sul tema dell'immigrazione. Una delle cose più drammatiche del racconto è la descrizione di un centro di detenzione a San Diego, in California, appena all'interno del muro, dove i bambini salutano i propri genitori attraverso un divisorio in plexiglass, prima che quest'ultimi siano caricati su autobus e deportati.

Olivas aveva scritto il racconto con intenti ammonitori: se le politiche sull'immigrazione di Trump si fossero avverate, l'America sarebbe diventato un paese completamente diverso da quello che era stato fino ad allora. Nell'editoriale per il quotidiano americano, lo scrittore prendeva atto che ciò che lui aveva immaginato nel suo racconto era diventato realtà: i figli venivano strappati dalle braccia dei loro genitori e i centri di detenzione erano pieni di bambini spaventati, soli e abbandonati. Da qui il titolo del suo articolo.

Alla fine del suo intervento, Daniel Olivas fornisce anche la sua personale definizione di Distopia: “Una distopia è un luogo immaginario e orribile in cui l'umanità della gente è sostituita dalla paura. Questo è quello che ho pensato della mia storia, un luogo in cui i miei personaggi sono stati privati della loro umanità e sicurezza, un luogo che non era ancora reale”.

Non c'è dubbio, che negli ultimi quindici anni, uno dei temi della letteratura dell'immaginario più frequentati sia dagli scrittori di fantascienza sia da quelli definiti mainstream, e che quindi non possono essere ascritti tout court al genere, è quello della distopia. Ma non solo. Anche il cinema e la televisione hanno generato pellicole e serie televisive che ricadono in tutto o per una parte considerevole nella definizione fornita da Olivas.

È interessante notare che, a proposito di Trum, David Kyle Johnson, un professore associato di filosofia al King's College in Pennsylvania, sostiene che il presidente degli Stati Uniti stia favorendo e allo stesso tempo distruggendo la reputazione della fantascienza. In che modo? Da un lato il modo di fare politica di Trump, rivolgendosi spesso con arroganza nei confronti della stampa che gli e avversa o nei confronti dei suoi avversari politici o, come abbiamo appena raccontato, attraverso politiche restrittive e coercitive nei confronti di coloro che non sono bianchi, ricchi e americani al cento per cento, ha fatto schizzare, secondo Johnson le vendite di libri come 1984 di George Orwell e Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Dall'altro lato, il fatto che nella maggior parte dei casi la fantascienza presenta comunque storie in cui “i cattivi” alla fine vengono sconfitti e Johnson non è così ottimista nei confronti di Trump e delle prossime elezioni americane, per cui questo fatto mina in qualche modo la credibilità della science fiction.

Chi conosce la fantascienza, almeno quella letteraria, sa che il filone della distopia non è certo nuovo. Il termine Distopia fu utilizzato per la prima volta da John Stuart Mill (1806-1873), in un discorso parlamentare nel 1868, ma ha una lunga e consolidata tradizione letteraria a partire dall'inizio del '900 e la sua nascita e la sua definizione è legata a doppio filo a quella dell'utopia, il suo opposto, che, invece, ha origini ancora più antiche. È a Thomas More che va ascritto la nascita del termine utopia, che quasi certamente l'umanista inglese intese costruire sulle parole outopia (luogo che non esiste) e eutopia (luogo benefico, ideale). Nella sua opera L'Utopia – il cui titolo in latino per esteso è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia – More in realtà fornisce la versione primigenia dell'utopia, ma in qualche modo partorisce in nuce anche l'idea della distopia. Ne L'Utopia, infatti, c'è una prima parte il cui il politico inglese racconta l'Inghilterra del XV secolo, denunciandone le contraddizioni sociali ed economiche, come l'aperta critica alla proprietà privata. Nella seconda parte, invece, lo scrittore descrive il viaggio del filosofo Raffaele Itlodeo verso l'isola Utopia, perfetta e ideale, con la sua organizzazione sociale e politica, senza la proprietà privata, e la condivisione dei beni in comune. Un luogo ideale, per l'appunto, che però More intendeva contrapporre all'Inghilterra nella quale viveva e che possiamo, quindi, idealtipizzare come una distopia, un luogo che non vorremmo. La differenza, sostanziale, è che il concetto di distopia prevede che ciò che si descrive non è un luogo reale, ma immaginario. La distopia, per parafrasare il titolo dell'editoriale di Daniel Olivas, non può essere qui, ma deve essere confinato nella mente.

Sono quattro le opere letterarie che ci sembrano siano quelle fondamentali che hanno dato corpo al filone, hanno consolidato la definizione stessa di distopia e ne hanno tracciato le principali caratteristiche: Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1907) di Jack London, Noi (My, 1924) di Evgénij Zamjatin, Il Mondo Nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley e 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell.

Il Tallone di ferro di Jack London si può considerare la prima vera distopia. Attraverso gli occhi di Avis Everhard, una ragazza borghese di buona famiglia, il lettore può “vivere” la storia di Ernest Everhard, giovane rivoluzionario socialista, che combatte contro la società americana che, secondo lui, sta deragliando verso una spaventosa dittatura, che passerà alla storia con il nome di “Il Tallone di ferro”. Come? Sfruttando la classe operaia, negando i diritti civili, usando tutti i mezzi messi a disposizione di un capitalismo selvaggio.

Grazie ad un tipico espediente letterario, il manoscritto ritrovato, London ci narra nella prima parte del romanzo degli anni che precedono la presa al potere del “Tallone di ferro” e poi della resistenza alla sua dittatura. Filo conduttore della vicenda è l’amore tra il capo della resistenza, Ernest Everhard ed Avis, che aderisce alla resistenza ed è l'autrice del manoscritto. Per tre secoli il Tallone di ferro manterà il potere, fino ad essere sconfitto.

Jack London descrive la lotta serrata tra la classe operaia e il capitalismo, tra le oligarchie sociali, politiche ed economiche e i poveri e gli sfruttati. Come il caso di Jackson, un operaio delle filande rimasto mutilato in seguito a un incidente sul lavoro e mai più risarcito a causa di vari cavilli burocratici.

In un crescendo fatto di scioperi, di repressioni di manifestazioni, di rivolte, di soprusi, crisi industriali, borse che crollano Ernest aprirà gli occhi di Avis (e quindi di noi lettori) sulla società americana in cui i due vivono, fino ad un evento clou: durante una seduta del Congresso viene lanciata una bomba (probabilmente stesso dagli esponenti oligarchi) e gli esponenti socialisti vengono incarcerati, ma Ernest, il leader, a sorpresa, non viene giustiziato e può rifugiarsi sulle montagne insieme ad Avis.

La società che descrive Londo, quella del Tallone di ferro, è una vera e propria distopia, una realtà sociale in cui i diritti dei singoli cittadini vengono messi da parte, dove la brutalità della ragion di Stato è superiore a tutti e tutto, dove le capacità e i sentimenti dei singoli vengono combattuti ed eliminati.

Anche Noi (My, 1924) di Evgénij Zamjatin presenta una società oppressiva, dittatoriale, in cui l'individualità è soffocata. Siamo alla fine del terzo millennio, l’umanità vive in uno spazio ipermeccanicizzato e socialmente ipercontrollato, chiuso dalla Muraglia Verde. Gli individui non hanno più un nome, sono alfanumeri. Come D-503, ingegnere al lavoro sul progetto dell’Integrale, la nave spaziale destinata a esportare su altri pianeti il perfetto ordinamento politico dello Stato Unico, dove ogni attività è disciplinata, standardizzata e, soprattutto, visibile a chiunque: tutti gli edifici sono di vetro. È proprio D-503 a raccontare la vicenda della ribelle I-330 e del suo piano per dare inizio a una nuova rivoluzione. Scritto tra il 1919 e il 1921, prontamente censurato (uscito in inglese nel 1924, nel 1952 in russo ma a New York, e solo nel 1988 in URSS), Noi ha avuto un enorme influenza su Orwell, che aveva letto il romanzo di Evgénij Zamjatin.

Al pari di Zamjatin, Aldous Huxley è stato uno dei più feroci critici della realtà sociale del ‘900. Il Mondo Nuovo (Brave New World, 1932), non solo è l’opera per cui è diventato famoso in tutto il mondo, ma è anche uno dei capisaldi della Distopia.

Nella Terra del futuro lo spirito consumistico domina incontrastato, la paura della morte non esiste, l’individualità è stata abolita, la società è divisa in caste. Ogni essere umano viene concepito geneticamente – in vere e proprie fabbriche con relative catene di montaggio – e trattato in vitro per avere le caratteristiche fisiche e mentali più adatte per il proprio lavoro. Inoltre, durante i primi anni di vita, pesanti condizionamenti psicologici formano ogni cittadino alla vita collettiva. Le parole d’ordine del “Mondo Nuovo” sono: comunità, identità, stabilità. In questo scenario irrompe un giovane “selvaggio”, vissuto in una vera e propria riserva. John, questo il suo nome, rimane prima affascinato dal mondo dei civili, per poi restarne completamente disgustato. Non riuscendo a sopportare il contrasto tra la società industriale e il suo personale modo di vivere, alla fine sceglierà di porre fine alla sua vita.

Nel romanzo di Huxley, i bambini vengono fatti nascere in provetta e predestinati artificialmente a una classe sociale diversa, secondo i bisogni creati dalla produzione industriale, portando alle estreme conseguenze i principi del taylorismo. Non a caso la religione ufficiale è il culto di Henry Ford, subentrato al cristianesimo. Il segno della croce è stato infatti sostituito dal segno della “T” (dal nome del più fortunato modello di autovettura delle industrie Ford).

Non c’è dubbio che la satira di Huxley prende di mira la nuova società meccanizzata, standardizzata e automatizzata che stava allora sorgendo negli Stati uniti, in nome della modernità tecnologica. Il romanzo esprime tutto il suo profondo scetticismo per una certa idea di progresso che si stava diffondendo in quegli anni, pur riconoscendo alla scienza un ruolo centrale nella vita dell’umanità. Nell’utopia disegnata dallo scrittore inglese è l’amore il collante, l’elemento unificatore di tutti gli individui: fare sesso con chiunque non è ne vietato ne amorale. Ma è proprio questa falsa felicità ad essere allo stesso tempo il segno dell’asservimento totale a un regime che in nome proprio dell’amore e del bene comune ha standardizzato l’individuo, riducendolo a poco più di una qualsiasi merce.

Siamo nel 1932, il fascismo è ormai affermato in Italia, il nazismo in Germania e il nuovo regime russo si è stabilizzato: sono nate le grandi dittature che lasceranno un segno indelebile nella storia dell’uomo moderno. L’affermazione di questi regimi dà adito a interrogativi e apre questioni di carattere politico, ma anche sociale, teorico, filosofico.

Il successo di Brave New World, così come il dibattito che si era intanto sviluppato attorno alle tesi discusse nel libro, spinsero lo scrittore a pubblicare, nel 1959, una raccolta di 12 saggi – dal titolo Brave New World Revisited – con cui riesamina le sue profezie alla luce degli avvenimenti di quegli anni.

Nonostante sia tra le ultime opere ad essere pubblicata, delle quattro che abbiamo citato come basilari per il genere Distopia, 1984 di George Orwell è considerato il capostipite di queste genere di opere letterarie ed è forse il capolavoro del Novecento di tale filone della narrativa fantastica e di fantascienza.

Come il titolo stesso suggerisce, siamo nel 1984 (l’autore ha invertito le cifre dell’anno in cui il romanzo è stato scritto per ambientarlo in un futuro, ma non troppo lontano dal presente in cui Orwell viveva). Il mondo è diviso in tre grandi zone: Eurasia, Oceania ed Estasia. La storia si svolge a Londra, ma in una metropoli che è solo l’ombra pallida di quella che conosciamo. A dominare l’Oceania, di cui Londra fa parte, è una dittatura che ideologicamente s’ispira al Socing (socialismo inglese). Le uniche autorità riconosciute in Oceania sono “il partito” e il Grande Fratello, figura presente in ogni dove nella vita pubblica, ma che di fatto nessuno sa chi sia. Ogni aspetto della vita privata viene costantemente osservata grazie a dei televisori che sono in grado sia di trasmettere sia di ricevere immagini.

Triste, amaro, drammatico: sono solo alcuni degli aggettivi con cui si può definire questo romanzo, con cui Orwell intendeva lanciare un monito contro quelle ideologie-dittature che erano sorte a cavallo tra le due guerre mondiali.

L'esplosione della bomba atomica da parte degli americani sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki non chiuderanno solo la Seconda Guerra Mondiale, ma aumenterà a dismisura la paura e la consapevolezza di una concreta realizzazione di un futuro distopico, alimentando di fatto la narrativa di fantascienza che continuerà a sfornare romanzi e storie di questo filone della letteratura dell'immaginario, fino ai giorni nostri.