Matteo Rizzo, studente del liceo scientifico cittadino, era teso ma contento. Quel sabato era diventato maggiorenne e per una felice coincidenza avrebbe festeggiato il compleanno dirigendo la più importante partita della sua ancor giovane carriera arbitrale. Debuttava, infatti, nella categoria regionale juniores e, a riprova della fiducia riposta in lui, gli era stato affidato lo scontro al vertice del girone di Eccellenza, decisivo per l'assegnazione del titolo.
Era nato calcisticamente come portiere, ruolo in cui era stato molto apprezzato nelle società dove aveva militato, ma a neanche sedici anni un infortunio alla spalla lo aveva costretto a interrompere l'attività. Una volta ripresosi, piuttosto che abbandonare lo sport prediletto si era iscritto al corso arbitrale e fino ad allora non aveva avuto motivo di pentirsene.
Matteo stava sistemando divise e attrezzatura nel proprio borsone sportivo, quando avvertì una vibrazione talmente energica da fargli perdere l'equilibrio e costringerlo ad aggrapparsi alla sponda del letto per non cadere. Un'intensa luce giallo aranciata illuminò la stanza e uno stridente gracidio spezzò il silenzio. Nello stesso istante provò un lieve capogiro e un dolore alla gamba sinistra.
Appena stette meglio si studiò l’arto con apprensione. Il pantalone sinistro era ridotto a brandelli e un lato della gamba appariva superficialmente lesionato! Nel complesso non gli sembrava di scorgere danni seri. Si arrischiò a compiere un passo. Sì, nessun problema motorio, per fortuna, solo un po’ di male.
Soltanto a quel punto notò l'assenza del comodino: era scomparso. Si avvicinò e si accovacciò incredulo nella posizione in cui si era trovato fino a un minuto prima. Tutto ciò che rimaneva era un mucchietto di scaglie e pochi rimasugli del cellulare e dell'orologio digitale che usava sempre per cronometrare le partite.
Si guardò intorno, perplesso e preoccupato. Cosa poteva ridurre così gamba e pantaloni, sgretolare il comodino e causare la violenta scossa percepita? Un terremoto, forse? Fissò il lampadario. Era assolutamente immobile, come ogni altro oggetto presente nella stanza. Nemmeno il vasetto di ceramica di Albisola, da tempo dimenticato in precario equilibrio sul bordo della mensola, si era spostato di un millimetro. Era come se l'evento fosse stato concentrato in un raggio di neanche un metro. E perché poi quello strano bagliore?
Stava allora per scatenarsi un nubifragio ed era stato colpito da un fulmine? Osservò fuori della finestra. Eh no, il cielo, benché velato da uno strato di foschia che attenuava il fulgore del sole, non minacciava pioggia. D'altronde il bagliore non gli era sembrato provenire dall'esterno ma dall'interno stesso della cameretta. Oltretutto era accompagnato da un enigmatico suono, vagamente simile a un richiamo eppure del tutto estraneo e incomprensibile.
– Mamma, hai sentito che scossa? Cosa può essere stato? – Gridò affacciandosi in corridoio.
– Scossa? Quale scossa? Non ho sentito nulla. – Gli giunse dalla cucina la risposta materna.
– Boh, mi era sembrato… – Il ragazzo s'interruppe, sempre più sconcertato.
L’oscillazione era stata talmente violenta da farlo quasi cadere a terra, gli pareva impossibile che sua madre non si fosse accorta di nulla. Tuttavia anche la gente in strada camminava indifferente. Evidentemente si era sbagliato lui: il capogiro doveva aver provocato un'erronea percezione.
Dunque il responsabile era proprio il fulmine, stabilì infine. Ed era stato davvero fortunato, qualche centimetro più in là e avrebbe fatto la fine del mobiletto. A ogni modo tutto era andato bene e tanto valeva non pensarci più. Meglio però non dire niente ai suoi, che si accorgessero da soli del danno, tanto non avrebbe saputo come spiegarlo.
Il suo puntualissimo cronografo segnava le 15:04 e la partita iniziava alle 16:00. Se non si fosse sbrigato sarebbe arrivato in ritardo. Con una smorfia di dolore estrasse alcune schegge di legno dalla coscia, medicò in fretta le escoriazioni, indossò un altro paio di jeans e riprese i preparativi. Per fortuna la divisa prevedeva i pantaloncini corti, perché al contatto con la stoffa la gamba bruciava. Per come si sentiva in quel momento non era nemmeno del tutto certo di poter dirigere la partita. Ci avrebbe tuttavia provato, ci teneva troppo per rinunciarci facilmente.
Nel giro di dieci minuti fu pronto a uscire.
– Ma vai già via? – Chiese sua madre dalla cucina, udendo il rumore prodotto dai tacchi delle scarpe.
– Sì, è una partita importante, voglio arrivare per tempo.
– Stai attento, mi raccomando, non infilarti in qualche rissa.
– Sì, sì, tranquilla. Papà non viene a vedermi?
– Mi sembra di sì, è andato a fare due commissioni ma ha detto che poi sarebbe passato.
Si sottopose al bacio di commiato, rito a cui la donna non sapeva sottrarsi, scese sotto casa e salutò la dirimpettaia e la coppia di vicini del piano di sopra, che chiacchieravano nel portone:
– Buongiorno a tutti.
– Ciao giovanotto. Vai a una partita? – Chiese l’unico uomo del trio.
– Sì.
– Fatti valere, mi raccomando, alla prima protesta estrai un bel cartellino rosso e chi si è visto si è visto.
– Ci conti.
Un attimo dopo si ritrovò all’aperto, sul corso alberato. Rivolse un'occhiata distratta al mare savonese e alla spiaggia, montò sullo scooter e in una mezza dozzina di minuti giunse allo stadio comunale del paese confinante. Vi erano parcheggiate solo poche auto. A eccezione di alcuni giocatori locali, le squadre non dovevano essere ancora giunte. Guardò di nuovo l'ora: 15:22. In genere i ragazzi hanno la convocazione un'oretta prima dell'orario d'inizio, avrebbero dovuto essere già tutti presenti.
Si portò davanti all'ingresso degli spogliatoi e proprio in quel momento vide un pullman accostare nello striminzito spazio retrostante. La formazione ospite era arrivata. Restò qualche momento a guardare. Gli juniores scesero vociando, poi il pullman fece manovra per trasferirsi in un parcheggio più spazioso situato non lungi da lì e urtò la cancellata. Diversi ragazzi si misero a ridere e un paio ci ironizzarono pure sopra. L'autista scese a sua volta dal mezzo e imprecò in maniera colorita. Aveva rotto il rivestimento di plastica di uno dei fanali posteriori.
Matteo proseguì il percorso, ma proprio mentre entrava nell'impianto ebbe un nuovo capogiro. Cercò di appoggiarsi a uno stipite, mancò la presa e… si ritrovò di punto in bianco nella cameretta di casa sua. Confuso uscì nel corridoio.
– Ma vai già via? – Ripeté la madre, come se avesse dimenticato che l’aveva già fatto prima.
L’adolescente sbatté più volte le palpebre.
– Ma che cazzo…
– Ehi, Matteo, attento a come parli! Se coi tuoi amici fai lo sboccato non posso farci nulla, ma in mia presenza parolacce non ne dici. – S'inalberò subito la donna.
– Scusa mamma, mi è scappato, ma come mai sono a casa? Avevo la partita.
– Perché sei ancora a casa, hai detto? Come mai tanta fretta, piuttosto, la partita non è alle quattro?
Cosa stava succedendo? Si sentiva più sbalestrato che mai. Possibile che fosse stato colto da amnesia e non ricordasse d’aver arbitrato e di essere già rientrato? Sua madre però era ancora in attesa che uscisse. Consultò l'orologio da polso. Ore 15:26. Niente amnesia, dunque. Alzò quindi gli occhi alla pendola nell'ingresso.
Se doveva dargli credito mancavano cinque minuti alle quindici.
– Che fai allora, esci o no? Sei già pronto. – Insistette la madre sbucando in corridoio.
Quest'ultima, di aspetto assai giovanile, era ancora una donna piacente, manifestava però una chiara tendenza a metter su peso. D'altronde anche il figlio, pur essendo a propria volta un bel ragazzo, si manteneva snello solo grazie all'attività sportiva. Dimostrava inoltre meno della sua età. Aveva ereditato dalla madre la tendenza genetica a ingrassare ed a apparire più giovane dell'età anagrafica.
– Mamma, scusa, che ora fai?
– Le tre meno cinque.
– Non è possibile. – Sussurrò il ragazzo.
– Ma sì, meno tre, per l'esattezza. – Ribadì lei, serafica, guardandosi di nuovo il polso.
In cucina c'era un orologio da muro e Matteo si fiondò a controllare. 14:56. Adesso era decisamente spaventato.
– Beh, ecco, è un po' presto, effettivamente. – Farfugliò.
Uscì subito, non sopportava più di stare a casa. Nell'androne ritrovò i vicini e gli elargì soprappensiero il suo solito buongiorno.
– Ciao giovanotto, vai a una partita? Fatti valere, mi raccomando, alla prima protesta estrai un bel cartellino rosso e chi si è visto si visto.
Quel che Rizzo junior elargì in risposta fu più una smorfia che un sorriso.
Poco dopo era di nuovo al campo. Il parcheggio si presentava semi vuoto, come se non fosse ancora giunto quasi nessuno. Colto da un atroce sospetto, decise di attendere l'eventuale arrivo del pullman ospite. Non poteva crederci, eppure…
Appena il grosso autoveicolo giunse, corse col cuore in gola a osservarlo dal retro e, proprio come aveva temuto, non trovò segno alcuno di impatti, né recenti né vecchi. La copertura di plastica si presentava intatta. Nel frattempo i ragazzi scesero a terra, l'autista rimise in moto, fece manovra e urtò la cancellata.
Sconvolto, Matteo udì le stesse risate e commenti ironici. Qualche istante dopo risentì anche le imprecazioni dell'autista, uguali identiche a quelle pronunciate in precedenza. Ed ecco lì il copri fanale di plastica rotto, con alcuni frammenti sparsi a terra.
Ora non c'era più dubbio. Per qualche incomprensibile motivo il tempo era tornato indietro. E, comprese facendo mente locale, non era accaduto soltanto poco prima, ammesso che il termine – prima – rivestisse ancora un significato. Fin dalla sua uscita originaria, l’impianto era stato meno affollato del dovuto e sua madre era parsa vagamente sorpresa, come se lui fosse stato in anticipo: si era dunque già verificato un precedente sbalzo temporale. Doveva essere accaduto quando era stato sfiorato dal fulmine o presunto tale. Non se ne era però reso conto, perché evidentemente sia prima sia dopo la traslocazione si era trovato all'interno della sua camera, fermo all’incirca nella medesima posizione.
L’adolescente entrò nello spogliatoio riservato agli arbitri, ma anziché cambiarsi sedette a meditare. Non era digiuno in materia, s'interessava d'astronomia ed era un fan di Star Trek di antica data. Andava ancora in prima media quando aveva scoperto per caso gli episodi di Enterprise e se ne era entusiasmato. Aveva quindi seguito tutte le nuove proposte, compreso la prima stagione, appena andata in onda, dedicata al capitano Picard, e perfino The Orville, un'imitazione di Star Trek che gli piaceva quasi più dell'originale. Aveva inoltre scaricato da internet le serie classiche complete e se l'era viste innumerevoli volte. Di The next generation, ad esempio, rammentava più d'un paradosso temporale. Era tuttavia un ragazzo coi piedi per terra, sapeva che eventi del genere non sarebbero mai avvenuti nella realtà.
Ora invece non solo era successo, ma lui era l'unico a rendersene conto e ciò gli sembrava ancora più inverosimile dell'evento in se stesso. In proposito gli pareva possibile un'unica spiegazione e cioè che si fosse casualmente venuto a trovare al centro degli eventi e che per qualche motivo ciò lo ponesse in condizione di privilegio.
Ma anche ammesso, gli pareva ugualmente insensato. Perché mai la sua tranquilla stanzetta di un’anonima cittadina qualsiasi del vasto mondo avrebbe dovuto trovarsi al centro di un fenomeno di tale enorme portata? E l'accaduto era esaurito o si sarebbe ripetuto? Avrebbe provocato ulteriori conseguenze o si sarebbe limitato a far perdere una manciata di minuti?
L'istinto gli diceva che gli effetti sarebbero stati assai peggiori di così, proprio a causa del fatto che episodi del genere non si sarebbero mai dovuto verificare. Se almeno avesse potuto confidarsi con qualcuno. Ma con chi, se nessun altro li percepiva? A meno che i più sofisticati strumenti scientifici non riuscissero a rilevare delle discrepanze. Come convincere però gli scienziati a occuparsene? Non sarebbe nemmeno riuscito a farsi ascoltare e se anche l’avessero ricevuto sarebbe stato preso per pazzo. In effetti egli stesso non poteva escludere a priori di essere impazzito. Si accorse che le mani gli tremavano. Aveva paura, una paura nera.
Quando si verificò l'incidente, l'equipe era chiusa in laboratorio da due turni e mezzo. Tecnici e scienziati erano molto stanchi, ma non se la sentivano d'interrompere l'esperimento al suo culmine. Se fossero riusciti a catturare i neutrini come si ripromettevano, avrebbero potuto compiere un enorme salto di qualità nella comprensione dell'universo.
Zwurt, il maturo scienziato a capo dell'operazione, sollevò la proboscide prensile terminante in sei lunghi peduncoli opponibili e si tastò la spessa cute azzurra e nera. Era secca e screpolata in più punti, giacché da troppo tempo ormai non s'immergeva. Sbuffò irritato, gonfiando a dismisura le gote. Si spostò quindi sulle quattro zampe, il robusto paio posteriore e quello più delicato anteriore, afferrò una caraffa colma d'acqua salata e se la rovesciò addosso.
Ne provò un immediato sollievo, ma era una ben misera panacea. Per mantenersi in buona salute, la sua specie anfibia necessitava di immersioni periodiche nelle acque dell'oceano. Il guaio era che alcuni dei delicati strumenti utilizzati nell'esperimento potevano rimanere danneggiati dalle elevate concentrazioni saline presenti nel mare. Per giunta gli intensi venti marini trasportavano polveri di sale anche a grandi distanze. Per tal motivo avevano ritenuto più opportuno costruire il sito sulla terraferma, lontano dalla costa.
Il programma originario prevedeva la realizzazione in loco di una piscina coperta oceanica, di dimensioni più che sufficienti per le loro necessità, ma i finanziamenti si erano esauriti anzitempo, costringendoli a soprassedere e ad accontentarsi di una consegna quotidiana. Ed era purtroppo una quantità solo precariamente bastevole alle necessità dell'intero insediamento. D'altronde non vi era alternativa: di recente un equipe di ricercatori aveva realizzato speciali tute che, un volta indossate, permettevano alla pelle di mantenere il necessario equilibrio salino e acqueo, esistevano però solo prototipi, e non era stato possibile procurarsene. In fondo preferiva così, infatti, come tutti i membri della sua specie mal sopportava la presenza di qualsiasi tessuto a contatto con l'epidermide.
Stavano analizzando i dati forniti dai computer quantici, prodigi tecnologici ancora in fase sperimentale, quando qualcosa andò fuori controllo, facendo scattare gli allarmi. Il capo tecnico si lanciò in avanti, col chiaro proposito di spegnere il macchinario, ma un'esplosione lo uccise prima di averne il tempo.
Entrambi i tecnici di laboratorio e il principale collaboratore dello scienziato al timone dei lavori morirono nella deflagrazione, mentre il giovanissimo allievo in via di specializzazione rimase seriamente ferito. Zwurt e l'altro collega presenti furono invece fortunati e se la cavarono con appena qualche graffio.
Durante la sciagura accadde tuttavia un fatto inspiegabile. Zwurt, infatti, distinse al di là della parete posti che non c'erano, che non potevano esserci. Erano almeno tre? No, quattro luoghi, anomali ma ben definiti.
Il più prossimo era uno spazio chiuso occupato da una strana entità, quadrupede come lui ma eretta sulle sole zampe posteriori, con un orribile volto incompleto e una pelle bianchiccia, ricoperta in parte di peli e in parte da una struttura apparentemente artificiale. L'essere, che si scorgeva di tre quarti, sembrava così vicino da poter essere quasi toccato, ma non guardava nella sua direzione.
Più oltre intravide, come in una serie di fantasmatiche trasparenze, le altre scene, che si perdevano sullo sfondo facendosi via via più confuse, anche perché le precedenti vi si sovrapponevano.
Quella successiva alla prima era un'altra immagine del locale, che appariva identico nella sostanza ma assai più vivacemente colorato e privo di entità viventi. Invece nella seguente riconobbe di nuovo l'essere dalla pelle chiara, stavolta in compagnia di un suo simile. Infine in quella dopo ancora appariva una figura angosciosa al limite della follia, una specie di enorme occhio senza corpo, che galleggiava nell'aria dinanzi a uno sfondo desolato.
Più oltre ancora sembravano prendere forma ulteriori misteriosi spettacoli, ma erano troppo indistinguibili perché gli rimanessero impressi.
La visione durò solo qualche breve istante, tuttavia si presentò nitidissima e gli strappò un'esclamazione spaventata. Un'allucinazione, stabilì. Non poteva trattarsi d'altro che di un'allucinazione. Non ebbe peraltro modo per ragionarci sopra, perché intorno a lui tutto ballava.
– Cosa accade, abbiamo provocato un terremoto? – Chiese spaventato il collega indenne, mentre il superstite più giovane era steso a terra e si lamentava pietosamente, ignorato dai compagni. Era nella loro natura trascurare ogni circostanza giudicata momentaneamente irrilevante.
– Osserva i due cronometri alle pareti, Uruuz. Non sono più sincronizzati! – Rispose costernato lo scienziato capo.
– Non capisco, cosa significa?
– Non lo so, gli dei degli abissi mi sono testimoni che non ne ho la più pallida idea.
– È come se la catastrofe fosse avvenuta prima del momento in cui si è effettivamente verificata, ma non ha molto senso. E guarda questi dati. – Esclamò Uruuz indicando concitato uno degli schermi.
L'altro strabuzzò gli occhi.
– Non è possibile.
– Invece è proprio così. La trama spazio temporale si sta alterando. Siamo stati letteralmente sbalzati all'indietro e ora la freccia del tempo ha ripreso la sua normale direzione, ma se i dati che leggo sono esatti, lo fa a velocità leggermente rallentata.
– Ma non può accadere un fenomeno del genere… a meno che…
Zwurt s'interruppe, sbigottito. Forse ciò che aveva visto subito dopo l'esplosione non era stata un'allucinazione, dopotutto.
Sulla base dell'idea appena venutagli, si mise freneticamente all'opera per ricavare il maggior numero possibile di dati sull'evento, mentre i primi soccorritori facevano irruzione nella sala.
Più tardi i due superstiti sani e il responsabile amministrativo del progetto si riunirono nello studio privato di quest'ultimo, ciascuno comodamente adagiato in una delle vasche poltrona, immersi nel liquido fino al petto. La stanchezza era del tutto dimenticata, tuttavia la tensione era alta, perché nel frattempo avevano subito altre contrazioni temporali: l’equilibrio del tempo era sempre più instabile e si andavano intensificando pure le distorsioni spaziali.
– Avete capito cos'è andato storto? Esigo una spiegazione.
– Forse. Subito prima di smettere di funzionare, il rilevatore di particelle e il compressore al plasma hanno registrato la presenza di raggi gamma e intercettato movimenti caotici di kaoni. –
I kaoni erano «strane» particelle, dotate di un'inusuale caratteristica: possedevano un senso intrinseco del passato e del futuro.
– E cosa vorrebbe dire? – Domandò il direttore amministrativo, gonfiando a dismisura le gote, innervosito dal comportamento dello scienziato capo.
Quest’ultimo pareva infatti terrorizzato, come se avesse appena compreso qualcosa di terribile. Egli restò a lungo a fissare gli astanti, prima di decidersi a rispondere.
– Nel caso di collisioni tra elettroni e positroni si dovrebbero formare caratteristici raggi gamma. – Disse infine.
– Di quali collisioni sta parlando? Non capisco.
– Prestatemi bene attenzione, per favore. Voi due ovviamente conoscete le note teorie eterodosse sull'esistenza del multiverso, cioè di un infinito insieme di universi limitrofi e paralleli?
– Aspetti un momento. Vorrebbe sostenere che saremmo entrati in contatto con un altro universo?
– Esattamente, ma non uno normale, perché altrimenti non si sarebbe verificata la contrazione.
Proprio in quel momento lo studio fu squassato da nuove scosse, più violente delle precedenti e un attimo dopo i due scienziati si ritrovarono di punto in bianco nel vicino laboratorio. Il direttore non era più insieme a loro e il disastro doveva essersi appena verificato, perché l'ambiente era all'aria e i soccorritori stavano ancora portando via i cadaveri.
– Siamo stati di nuovo sbalzati indietro nel tempo, ma loro non sembrano accorgersene. – Costatò Uruuz, con un sospiro, indicando i barellieri.
– Nemmeno il direttore se ne rendeva conto, anche se accettava la nostra parola. Mi pare indubbio che solo chi si trovava entro l'orizzonte degli eventi ne è cosciente.
– Comunque sia tutto ciò non è spiegabile con la teoria degli universi paralleli.
– A meno che alcuni di essi non siano antimateriali. Hai presente la teoria? «Un universo in contrazione composto di materia è uguale a un universo in espansione composto di antimateria», e viceversa. Due universi del genere sarebbero di fatto indistinguibili. Ogni soluzione ricavata in proposito fino ad oggi dalle relative equazioni, richiede però che un universo antimateriale equivalente al nostro possa esistere solo con la freccia del tempo invertita. Lì dunque il tempo procederà al contrario, dal nostro futuro verso il nostro passato. A mio parere dobbiamo appunto essere entrati in contatto con un universo antimateriale, la cui freccia del tempo è direzionata in maniera opposta alla nostra e deve essere stato tale contatto a scombussolare il continuum spazio temporale, per lo meno localmente. Dubito, infatti, che il fenomeno sia esteso all’intero universo. Probabilmente ci troviamo all’interno di una bolla di distorsione spazio temporale. –
– Ma se fossimo entrati in contatto con un universo di antimateria, adesso non saremmo qui a discuterne! Pure un’unica collisione tra particelle e antiparticelle sarebbe bastata ad annientare tutto.
– È vero. Tuttavia noi non siamo riusciti a raccogliere dati sufficienti sulla realtà fisica dell'antiuniverso. Io credo che non sia proprio l'esatta immagine speculare del nostro. Dev’esservi una qualche infinitesimale differenza nelle leggi che governano i due mondi. Ed è stata proprio questa microscopica difformità a impedire l'immediato annichilimento. Il mio timore è che si stiano però destabilizzando entrambi e che prima o poi…
Zwurt non poté completare il concetto, perché in quell’istante furono riportati ambedue all'attimo immediatamente successivo all'incidente. Percepì un risucchio e al contempo riapparve lo straniero dalla pelle pallida e due soli occhi, l’abitante dell’antiuniverso, che stavolta si voltò e li vide.
Poi atomi e antiatomi reagirono appieno, l’annichilazione ebbe rovinosamente inizio e per i due scienziati fu il nulla.
Matteo Rizzo fu di nuovo trasportato all'indietro nel tempo e si ritrovò nella propria camera poco dopo il ferimento. Fuori dalla finestra il cielo stavolta sembrava eruttare e la gente in strada era spaventata. Lì intorno tutto vibrava. Il vasetto di ceramica cadde dalla mensola e si fracassò.
Era la fine del mondo? Si sedette stancamente sulla sponda del letto. Si sentiva del tutto impotente ad affrontare gli avvenimenti e gli veniva da piangere. Non voleva morire, non quando la vita gli si apriva davanti in tutta la sua potenzialità. Si sforzò di trattenere le lacrime: aveva diciotto anni, adesso, era ufficialmente un uomo e gli uomini non piangono. Ma non poté impedirselo e prese a singhiozzare.
Restò immobile, spaventato e confuso, poi il fenomeno dislocativo si ripeté. Stavolta c'era però qualcosa si diverso. Una forza lo attirava come se volesse risucchiarlo. Si voltò nella direzione da cui proveniva e restò a fissare a bocca aperta la scena che gli si parava davanti.
Era un luogo alieno. Gli ricordava un po' un laboratorio scientifico, ma era zeppo di marchingegni strampalati e di incredibili mostri dalla pelle azzurra e nera. Questi ultimi sembravano grossi rospi con tre enormi occhi, sui cui musi fosse stata incollata la proboscide di un elefante. Dietro a tale sconclusionata ma nitidissima immagine sembravano per giunta essercene altre fantasma, scene somiglianti alla prima ma via via meno prossime e distinguibili.
Non ebbe l’opportunità di domandarsi il significato di quanto vedeva, perché fu trascinato verso il varco e, quasi nel medesimo istante, dopo la lunga fase di resilienza, alcuni protoni e altrettanti positroni reagirono al contatto, liberando catastroficamente energia.
Gli atomi da cui era composta la camera da letto furono annientati, mentre porzioni sempre più massicce delle due inconciliabili realtà materiali e antimateriali entravano in contatto, ampliando la voragine. In un'inarrestabile reazione a catena, la medesima sorte toccò all’edificio in cui la stanza era contenuta, poi alla città in cui sorgeva il palazzo e a tutti i suoi abitanti. Dopo ancora accadde all'intero pianeta e quindi sempre più oltre, attraverso lo spazio siderale.
Il fenomeno raggiunse le più vicine stelle, le polveri interstellari e la preponderante materia oscura, avviluppando l'intera Via lattea e il Gruppo locale e poi il superammasso di galassie, fino a quel momento brulicante di vita, e avanti così fino al totale esaurimento della materia, annichilendo infine l'intero cosmo.
Naturalmente furono necessari eoni affinché la distruzione si completasse su così vasta scala. Tuttavia fu davvero la fine del mondo, anzi la fine di due mondi, perché condusse inesorabilmente all’estinzione anticipata sia l’universo materiale sia il contiguo universo antimateriale.
Il ragazzo fu convogliato in un vortice fino a schiantarsi contro il guardaroba, sfondarne un'anta e ricadere lungo e disteso al suolo. Gli dolevano il tronco e l’articolazione superiore di un braccio: si era incrinato due costole e slogato la spalla destra. Provò a muovere quest'ultima e sentì male. Sbatté più volte gli occhi, confuso. Era ancora in camera sua, ma pavimento, armadio e letto erano ricoperti da un uniforme strato di polvere, come se nessuno vi entrasse da tempo. Si mise con prudenza a sedere e si guardò intorno, incerto. Il comodino era al suo posto, intatto! la sua prima reazione fu di sollievo. Le incredibili disavventure capitategli erano state soltanto un brutto sogno. Avrebbe dovuto capirlo fin dall’inizio, era tutto troppo assurdo perché fosse qualcosa di diverso da un incubo.
Nonostante ciò sentiva che c'era qualcosa di diverso dal solito. Era tuttavia ancora troppo stordito per determinare cosa. Esaminò allora la stanza centimetro per centimetro. Il letto con le sue lenzuola predilette raffiguranti le costellazioni, il mobiletto del computer, il guardaroba, l’angoliera coi libri di scuola. Ammirò, appesi alle pareti, gli amati poster musicali e le locandine di Next generation, ritoccata col suo volto al posto di quello dell'altrettanto giovane guardiamarina Crusher, e di Enterprise, col capitano Archer & company, e a quel punto se ne avvide. L’elemento stonato era la tappezzeria a colori assai vivaci: nella sua abitazione le pareti erano semplicemente imbiancate.
Intanto da dietro la porta sentiva vociare.
– Cosa è successo? – Chiese una nota voce femminile.
– Proveniva dalla camera di… sì, insomma, dalla Stanza. – Rispose incerta una altrettanto nota voce maschile.
– Che botto, sarà mica venuto giù l'armadio?
– Andiamo a vedere! – S'inserì una sconosciuta ed eccitata voce giovanile.
E qualche attimo dopo suo padre, sua madre e un ragazzino sui tredici anni a lui ignoto spalancarono la porta e s'immobilizzarono. Un momento di stupefatto silenzio, poi seguirono urla e strepiti, pianti e lacrime, risa e sogghigni, domande e minacce, abbracci e coccole, tutti irragionevolmente mescolati. Cosa significava tale follia? Matteo non lo capiva. Non capiva più nulla.
Il ragazzino, scoprì più tardi, era il suo fratellino tredicenne, Giacomo. Ma non aveva mai avuto fratelli, Matteo era figlio unico! Sapeva che avrebbe dovuto avere un fratello minore, in effetti, ma anche che sua madre aveva abortito quando lui aveva circa quattro anni e mezzo.
Invece la situazione risultava all’improvviso capovolta ed era il maggiore a non esserci più. Lui, Matteo, gli raccontarono, era morto. Morto! Due mesi prima, in un incidente stradale. Un'auto non si era fermata allo stop e l'aveva tamponato mentre tornava da scuola sul suo scooterino, uccidendolo sul colpo. Gli avevano fatto il funerale, l'avevano pianto e seppellito. C'era una lapide al cimitero e sotto di essa i suoi resti terreni.
I genitori non si erano però rassegnati all'immane tragedia e la cameretta, trasformata in un monumento alla memoria, non era più stata toccata da quel giorno, nessuno ci era nemmeno più entrato.
Eppure ora rammentava bene la data in cui secondo loro era avvenuta la tragica fatalità. Ed era certo di non essere andato a scuola, quel giorno, per via di uno sciopero.
I due adulti si sentivano scombussolati. In effetti quel ragazzo sbucato dal nulla era uguale identico al loro figliolo e, pur ignorando vari fatti del passato, conosceva anche particolari di cui solo quest’ultimo avrebbe potuto essere informato. No, non poteva essere il loro adorato Matteo, era impossibile e lo sapevano. Tuttavia ora era lì e dovevano prenderne atto.
Era soprattutto sua madre a volere credere in un miracolo, lo voleva con tutte le forze. Era semmai il padre a optare per un vergognoso tentativo di truffa, una crudele presa in giro nei confronti di una povera famiglia distrutta dal dolore.
Il fratellino poi si accorgeva di risultare per il neo arrivato un perfetto sconosciuto e ne era stranito e amareggiato. Quando però quel diciottenne, così simile al suo Matteo, gli raccontò l'incredibile storia che l'aveva visto protagonista e gli fornì quella che gli pareva l'unica spiegazione possibile, ne fu subito persuaso.
Scaraventato lì da un universo parallelo? Doveva per forza essere una stupidaggine, eppure la sua fresca mente ricettiva l'accettò, anche perché in qualche imperscrutabile maniera sentiva che era la verità. Sì, Matteo proveniva da un'altra realtà, dove non era morto e dove invece lui, Giacomo, non era mai nato.
Intanto Matteo gioiva e si struggeva allo stesso tempo. Gioiva perché gli episodi temporali si erano interrotti e in qualche incredibile maniera pareva salvo. Si struggeva perché tutti coloro che aveva conosciuto e amato non erano più con lui. Cosa ne era stato di loro? Intuiva che dovevano essere rimasti uccisi e che la Terra stessa doveva essere andata distrutta nell'urto con un secondo universo, mentre lui doveva essere stato sbalzato in un terzo, forse unico superstite di due interi universi. Sempre che, come tante altre volte gli era accaduto, la sua sbrigliata fantasia non stesse correndo troppo e la verità non fosse quindi così catastrofica.
Non avrebbe peraltro mai potuto averne la certezza. A ogni modo i suoi genitori e il mondo intero erano anche lì, uguali e diversi. Le nuove versioni degli amici, parenti, compagni di scuola, colleghi e vicini di casa non gli erano estranee. Erano sempre loro, nonostante qualche differenza, soprattutto caratteriale.
Quanto a quel ragazzino, il fratellino mai avuto, beh, gli piaceva, era simpatico. E dopotutto aveva sempre desiderato un fratello. Gli dispiaceva solo di non avere ricordi di loro esperienze comuni, ma era sua intenzione rifarsi con gli interessi. Avrebbe imparato a volergli bene.
Poco alla volta la sua straordinaria esperienza cominciava a confondersi sempre di più nella memoria. E col passare del tempo si sarebbe forse convinto che la vita precedente, così simile eppure differente dall'attuale, l'avesse davvero solo sognata, se non fosse stato per un particolare decisivo, che convinse anche il padre e con lui parecchi altri scettici e lo pose al centro dell’attenzione mediatica internazionale.
Perché fu effettuato l'esame del dna e l'esito, per quanto incredibile, non lasciò dubbi. I resti riesumati dal cimitero appartenevano a Matteo Rizzo, ma anche quel diciottenne, apparso all'improvviso vivo e vegeto, era Matteo Rizzo. Il dna, stabilirono gli esperti, apparteneva senza ombra di dubbio a un’unica persona.
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