Avengers: Endgame rappresenta la dichiarazione di indipendenza del Marvel Cinematic Universe nei confronti dell'universo fumettistico.

In undici anni di cinecomics Marvel ci siamo abituati alle interpretazioni date da sceneggiatori e registi riguardanti Iron Man, Captain America, Thor, Hulk e tutti i loro compagni e dunque in questo film la “forbice” si divarica ancora di più, lasciando che ciascuno prosegua il proprio cammino di evoluzione nel solco tracciato dai film precedenti fino a portarlo a compimento.

I fratelli Anthony e Joe Russo, ai quali è stato assegnato il compito di chiudere la saga, hanno chiesto di non spoilerare il film, e, vi possiamo assicurare, la voglia di spoilerare è davvero minima, perché toglierebbe quel senso di epicità, di magico, e, permetteteci, di poesia, che pervade l'intero film.

Ho visto giorni migliori...
Ho visto giorni migliori...

C'è tanta, tantissima roba al fuoco, e la scelta di come affrontare il mondo dopo lo schiocco delle dita di Thanos è ponderato, tanto che, almeno all'inizio, può risultare frammentario e rallentato.

Ma è così che si elabora un lutto.

Ed è così che si scrive/dirige un film sulla ineluttabilità della morte, anche tenendo un occhio (per inciso) a serie che ne hanno parlato approfonditamente come The Leftovers.

Giungendo alla fine di un cammino lungo undici anni, il film conclude tutte le linee narrative messe in gioco, e non si tratta solo di “chi muore, chi resta, chi ritorna”, ma della crescita personale di personaggi iconici. Soprattutto, di due: Tony Stark e Steve Rogers.

È vero che nei trailer abbiamo visto scene che non erano presenti nel film, ma la stretta di mano tra i due c'è ed è centrale. Da sempre, Iron Man e Cap hanno rappresentato la contrapposizione del Soldato tutto d'un pezzo al Genio e sregolatezza, e se in Civil War ci si poneva la domanda “da che parte stai?” (e non era semplice dare una risposta), qui si capisce che ci vogliono entrambi per vincere anche perché i loro percorsi sono speculari: Tony diviene sempre più responsabile e Steve capisce che il Servizio non è tutto.

Tutti affrontano i propri fantasmi, mettendo in campo relazioni filiali, amorose, familiari molto più che in altre pellicole. Qui si parla anche di famiglia, di una famiglia strana e composita fatta di “outsider”, potenti e strani come alberi e procioni, ed è per riavere quella famiglia, o almeno provarci, che tutti si rimettono in gioco.

Il nucleo originale degli Avengers procede passo dopo passo nella propria maturazione, anche Bruce Banner trova la soluzione ai propri problemi e Thor evolve verso una personalità inaspettatamente Odinesca, pur se in una maniera del tutto personale.

Non si sottraggono nemmeno Wanda e Clint, i due “minori”, forse in termini di poteri, dimostrando quanto forte sia il loro legame di amicizia e spirito di squadra, anzi no, di famiglia, e quanto sia difficile elaborare un lutto anche per chi indossa una tuta e vive avventure ad ogni angolo.

Cinematograficamente il film forse non è perfetto, risultando un po' disunito rispetto al precedente, però è una pellicola che narra, che scava (per davvero) nella psiche dei personaggi, in un modo tale che non ci si aspetterebbe da un cinecomic, eguagliando vette “Nolaniane” in alcuni passaggi e mostrando che il MCU non è solo botte da orbi e battutine (ci sono anche quelle e tante per fortuna).

Inevitabile paragonare questa enorme saga cinematografica ad almeno altre due: Il Signore degli Anelli e Star Wars. Quella di Tolkien si basa su un corpus letterario e proprio per questo ha subito diviso gli spettatori in “veri credenti” e “scarsi neofiti”, la stessa cosa è avvenuta per Star Wars, opera originale, il cui mito si è stratificato negli anni divenendo parte dell'immaginario collettivo tanto da essere citata a proposito e sproposito. Ebbene, il MCU di questi undici anni ha creato un corpus mitologico vasto e condiviso come forse nessuno.

Al cinema ci vanno spettatori dai sette a settanta anni, e non si trattava “solo” di nonni che accompagnavano nipoti perché quando Cap dice “AVENGERS UNITI!” (Si lo dice, lo dice!) l'applauso sgorga unanime senza differenze di età.

Il merito del lavoro fatto con il MCU è proprio questo, aver dato una consistenza nuova e un ambito del tutto diverso al lavoro del defunto Stan Lee, aver preso i suoi personaggi (creati insieme a maestri come Ditko, Kirby, Starlin e decine di altri) e con estremo rispetto averli portati sullo schermo tenendo sempre presente il concetto “supereroi con superproblemi”.

Endgame, soprattutto, rifugge dal “powerplaying” ovvero dall'avere uno o più personaggi così potenti da prendere il cattivo di turno e spiaccicarlo (ricordate la scena Hulk con Loki del primo film, ecco, appunto), ma costruisce scena dopo scena la fatica di combattere e vincere. Anche per questo il parsimonioso utilizzo di Captain Marvel va apprezzato.

Ma la fatica sarebbe vana senza un buon motivo.

E il motivo è uno solo: combattere solo per se stessi non serve a nulla, farlo per amore, amicizia, per un gruppo, per una famiglia per un pianeta vale sempre la pena, e “a qualunque costo” come recita il trailer.

E se uscendo dalla sala, dopo aver smaltito la magnificenza dello scontro finale, tutte le generazioni di spettatori discuteranno anche solo per pochi minuti di questo concetto, del valore di vivere tra gli altri e con gli altri magari sacrificandosi (concetto del tutto marginale in un mondo dove Trump dirige gli USA e tanti suoi simili tante altre nazioni) scopriremo che perfino i cinecomics possono insegnare qualcosa.