Anche se non esiste nessun censimento mondiale capace di accertarlo con esattezza, le stime demografiche assicurano che nel 2011 il numero di esseri umani viventi sulla Terra ha sfondato quota 7 miliardi. Il nuovo record è stato raggiunto appena dodici anni dopo il raggiungimento dei 6 miliardi, nel 1999, e venticinque anni dopo aver superato quel traguardo che a molti sembrava fatidico, 5 miliardi (nel 1987). Per contro, abbiamo dovuto aspettare l’alba del XIX secolo per vedere l’umanità toccare per la prima volta il numero di 1 miliardo di abitanti.
Nel 2013 nel mondo sono nate approssimativamente 135 milioni di persone e ne sono morte 57: la popolazione è aumentata quindi di quasi 78 milioni di abitanti in un solo anno. Secondo le stime della Columbia University, tra dodici anni supereremo quota 8 miliardi, per arrivare a 9 miliardi intorno al 2050 e a 10 miliardi nel 2100. Questa proiezione, confermata anche dall’ONU, sembra prospettare comunque uno scenario ottimistico: la crescita della popolazione infatti dovrebbe rallentare sempre di più a partire dal prossimo decennio. Il trend che si sta ormai affermando in Europa e negli Stati Uniti, e che vede i paesi più ricchi fare i conti con la stasi della natalità e in alcuni casi (come l’Italia) con un saldo negativo tra nati e morti, sarà “esportato” anche nel Terzo mondo, la vera bomba demografica di questo secolo.
L’umanità dovrebbe quindi raggiungere il suo picco alla fine del XXI secolo, iniziando poi un lento declino. Prima che ciò accada, tuttavia, per ogni cittadino europeo ci saranno almeno 5 cittadini provenienti dall’Africa sub-sahariana, molti dei quali emigreranno verso l’Europa. Una realtà che avrà un impatto geopolitico inimmaginabile, ma che economicamente potrebbe rappresentare anche un guadagno per l’Occidente: con l’Europa che, entro la metà del secolo, dovrà fare seriamente i conti con il calo della natalità, solo l’immigrazione potrà dare slancio all’economia.
Non solo Africa, tuttavia. Entro il 2050 l’India supererà definitivamente la Cina come paese più popoloso del mondo: mentre la Cina, lentamente, proseguirà il suo percorso di riduzione delle nascite, calando a 1,3 miliardi di abitanti, l’India – che invece non adotta politiche di controllo della natalità – passerà dagli attuali 1,2 miliardi a 1,7. Ma attenzione, scrive David Bloom, docente di economia e demografia ad Harvard in uno studio pubblicato su Science: queste stime possono variare anche significativamente. L’adozione di politiche contraccettive nei Paesi in via di sviluppo può garantire una significativa riduzione della crescita mondiale, portando già nel 2050 a un drastico calo della popolazione, destinata a scendere a poco più di 6 miliardi di abitanti entro la fine del secolo. Viceversa, un aumento dell’attuale trend della natalità, soprattutto in Africa, potrebbe rendere lo scenario assai peggiore, con una popolazione mondiale che supererebbe i 15 miliardi nel 2100i.
Secondo un celebre calcolo di Isaac Asimov, se il peso totale dell’umanità raddoppierà ogni 35 anni, come sembrano suggerire le tendenze attuali, nel 3530 il peso totale dell’umanità sarà uguale a quello dell’intero pianetaii. Una situazione ovviamente impossibile, perché la Terra non potrebbe sostenerla; ma anche ipotizzando, come faceva Asimov, che l’umanità si sparga nel cosmo, al ritmo attuale di crescita la popolazione umana raggiungerebbe nel 6800 d.C. il peso totale dell’universo noto. Fantascienza? Non esattamente. Quando, agli inizi del XX secolo, un famoso detto che girava sui giornali sosteneva che l’intera popolazione umana poteva essere ospitata tutta sulla superficie dell’isola di Wight, larga 381 chilometri quadrati, qualcuno si impressionò. Nel 1968 lo scrittore John Brunner sostenne che la popolazione dell’epoca, 3 miliardi e mezzo di esseri umani, si sarebbe dovuta “spostare” tutta sulla più larga isola di Man (572 chilometri quadrati); e scrisse un romanzo divenuto celebre in cui prevedeva che nel 2010 l’umanità, raggiunta quota 7 miliardi, si sarebbe potuta pigiare tutta sull’isola di Zanzibar (1554 chilometri quadrati). Il romanzo s’intitolava Tutti a Zanzibar e, per quanto fosse fantascienza, sbagliò di un solo anno le sue previsioniiii.
La crescita delle megalopoli
Una cosa è certa: la popolazione all’interno dei contesti urbani non calerà, ma è anzi destinata ad aumentare sempre più. Entro il 2050 il 65% della popolazione mondiale sarà concentrata nelle aree urbane. Estendere a dismisura i confini delle nostre metropoli non può essere una soluzione, perché il verde naturale che viene fagocitato dal cemento e dall’asfalto non trova immediata sostituzione nel verde urbano, e perché in tal modo si sottrae spazio alla produzione di generi alimentari. Una prima soluzione, già adottata da oltre un secolo, è quella di sviluppare le città in altezza. Al momento il Burj Khalifa di Dubai detiene il record di altezza (828 metri), ma si tratta di un primato destinato a essere presto superato. I nuovi materiali superresistenti, come i tubi di carbonio o il grafene, potranno permettere la costruzione di edifici alti oltre un chilometro, e anche di più. Ad altezze elevate il vento è più forte, quindi pale eoliche sistemate sul tetto potranno produrre energia sufficiente a coprire i fabbisogni di ciascun grattacielo, in sinergia con i pannelli fotovoltaici. Vere e proprie città, insomma, autonome non soltanto dal punto di vista energetico. In cima o ai piano interrati potranno ospitare enormi centri commerciali dotati di tutto: un modello simile a quello del Marina Bay Sands a Singapore, tre torri di 150 metri di altezza unite da una tettoia che ospita parchi e strutture ricettive con una vista davvero mozzafiato.
Un’altra soluzione sarà quella di scendere in profondità. Non necessariamente a causa di gravi danni ambientali o catastrofi inevitabili, come la caduta di un meteorite. Ma semplicemente per sfruttare i vantaggi che può conferire l’abitabilità del sottosuolo: lì non importa che tempo faccia in superficie, per cui le coltivazioni – rigorosamente in serra o in colture idroponiche – non sono soggette alle condizioni meteo, e soprattutto non ci sono sprechi in termini di riscaldamento. Ad appena due metri di profondità, lontani dalla luce solare, la temperatura resta stabile sui 10°, perciò basta regolare il termostato per far sì che il termometro non vada mai sotto o sopra una temperatura stabilita, per esempio 25°, che secondo alcuni studi è l’ideale in un ambiente privo di umidità.
Se comunque non volessimo andare ad abitare sottoterra, potremmo perlomeno relegare al di sotto della superficie una delle cose meno piacevoli in assoluto delle nostre metropoli: il traffico. In Cina ci stanno già lavorando: il progetto prevede di scavare a Pechino 26 enormi tunnel all’interno dei quali far scorrere il traffico delle tangenziali e quello all’interno della cerchia più interna della città, da rendere completamente pedonale. In questo modo diventerebbe possibile ripulire l’aria della capitale cinese, il cui cielo somiglia sempre più “al colore di un televisore sintonizzato su un canale morto”, per usare una celebre espressione di un romanzo molto pessimista sul futuro delle nostre metropoli, Neuromanteiv. Nel sottosuolo di Pechino, il governo cinese intende concentrare anche uffici e centri commerciali, come pian piano sta già facendo Tokyo, la cui downtown è tra le più sviluppate al mondov.
Resta poi il mare, che copre i due terzi della Terra. LilyPad è il progetto dell’architetto belga Vincent Callebaut per ospitare su una città “anfibia” ben 50.000 abitantivi. Un po’ sopra e un po’ sotto la superficie, LilyPad è una città in grado di resistere all’innalzamento dei livello dei mari e di produrre energia sfruttando la forza mareale, il vento, il sole e non solo. Le pareti dell’isola sono composte da fibre di poliestere e biossido di titanio, capace di reagire ai raggi ultravioletti in modo da assorbire l’inquinamento atmosferico. LilyPad metterebbe in campo tutti gli ultimi ritrovati nel settore della biomimetica, che punta a creare tecnologie simili agli espedienti usati in natura per l’autoregolazione dei sistemi viventi. E in prospettiva si potrebbe pensare di vivere anche sott’acqua al livello dei fondali marini. Lì, enormi città protette da cupole trasparenti ma costruite con materiali solidissimi, capaci di resistere alla pressione enorme delle masse d’acqua sovrastanti, potrebbero svilupparsi all’occorrenza per centinaia di chilometri, collegando le varie cupole attraverso tunnel all’interno dei quali scorre il traffico cittadino. Forse non sarebbe possibile allevarci animali, ma niente impedirebbe di avere una ricca dieta a base di pesce e di altri alimenti coltivati con le moderne tecniche che possono fare a meno del terreno in superficie per crescere.
Gli squilibri del boom demografico
Naturalmente, la speranza è che non si debba arrivare a questi livelli, ma che si possa piuttosto in futuro invertire il trend demografico o perlomeno stabilizzarlo. L’Italia sarà tra i pochi paesi che, alla fine del secolo, avrà meno abitanti: ma nelle grandi conurbazioni urbane in Asia e, soprattutto in futuro, in Africa, queste soluzioni potrebbero davvero trasformarsi in realtà. Secondo Joel Cohen, docente di demografia della Columbia Univeristy, per i prossimi quarant’anni vedremo sorgere nuove città da un milione di abitanti al ritmo di una ogni cinque annivii. La popolazione di questa e delle altre città sarà sempre più anziana: entro il 2065, il numero di ultra-65enni supererà per la prima volta quello degli under-15 in tutto il mondo. L’aumento della speranza di vita, soprattutto nei paesi occidentali, sarà accompagnato da un inesorabile invecchiamento della popolazione, un fenomeno che già oggi rischia di schiacciare le nuove generazioni. Nel nuovo modello di società che emergerà, i giovani trascorreranno nella casa dei genitori i primi trent’anni, quando finalmente inizieranno ad affacciarsi al mercato del lavoro, per andare in pensione non prima dei settant’anni. Per allora, la speranza di vita in Occidente – che oggi è intorno agli 80 anni – potrebbe raggiungere i 90 anni.
Ma se il tasso di natalità è destinato a calare in tutto il mondo, la stessa sorte non toccherà ai consumi pro-capite che anzi continueranno a crescere. Le risorse per sostenere una popolazione costantemente in crescita diventeranno sempre più scarse. I problemi maggiori deriveranno dalla penuria d’acqua potabile e dalla necessità sempre maggiore di terre da destinare alla coltivazione e all’allevamento, con il risultato di aumentare il disboscamento e di conseguenza l’effetto serra nell’atmosfera. Ciò comporterà seri rischi per l’ambiente e il pericolo di una penuria energetica globale se, entro il 2100, non avremo individuato una fonte di energia sicura e illimitata, auspicabilmente con un salto tecnologico nel settore delle fonti rinnovabili o con la realizzazione della fusione nucleare. Anche così, tuttavia, se il resto del mondo si adatterà allo stile di vita occidentale non sarà comunque sufficiente tutta la Terra per venire incontro alla crescita del fabbisogno globale, a meno che la tecnologia non ci venga in aiuto.
La sfida finale sarà quindi quella della crescita sostenibile, che comporterà una svolta radicale dello stile di vita soprattutto negli Stati Uniti, i cui consumi oggi sono significativamente superiori rispetto a quelli europei. Basti pensare che il 30% degli americani soffre oggi di obesità cronica, contro l’11,3% degli europei (anche se questa percentuale sta lentamente aumentando). E mentre in Europa il consumo pro-capite di acqua è di circa 250 litri al giorno – la cifra copre naturalmente soprattutto le risorse idriche necessarie per la coltivazione e l’industria – negli Stati Uniti la cifra è più che doppia: 580 litri a persona. Di contro, la media in Mozambico è a malapena di 10 litri al giorno.
Ridurre la popolazione mondiale resta quindi un imperativo. Eppure, non dobbiamo dimenticare che, dall’altra parte, c’è un pericolo ugualmente grande: quello della crisi delle nascite. La soluzione a un mondo sovrappopolato non potrà essere un mondo vecchio con pochi figli, pena l’insostenibilità del welfare e la stasi dell’innovazione. L’umanità riuscirà a raggiungere un equilibrio che permetta di mantenere quasi in parità il numero delle nascite e delle morti? L’unico modello demografico vincente per il futuro sarà questo.
Note
i David E. Bloom, 7 Billion and Counting, “Science”, 29 luglio 2011,Vol. 333 n. 6042.
ii Isaac Asimov, The End, in “Penthouse” Vol. 2 n. 5, gennaio 1971.
iii John Brunner, Tutti a Zanzibar, 1968; ed. it. Mondadori, Milano, 2008.
iv William Gibson, Neuromante, 1986; ed. it. Mondadori, Milano, 2003.
v Giampaolo Visetti, Auto e strade sotto terra. L’ultimo sogno di Pechino, “La Repubblica”, 22 gennaio 2011.
vi Sandra Zoglia, LilyPad: la città anfibia a forma di ninfea, “GreenMe.it”, 17 febbraio 2011.
vii Colin Sullivan e ClimateWire, Cities Will Feel Brunt as Global Population Passes 7 Billion, “Scientific American”, 19 ottobre 2011.
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