La prima parte di questa inchiesta è stata pubblicata sul n. 204 di Delos (https://www.fantascienza.com/24439/perche-la-fantascienza-non-viene-capita#font-size-down) e vi hanno partecipato Francesco Verso, Franco Ricciardiello, Alessandro Fambrini e Walter Catalano. Segnalo inoltre che è stata ripresa da La Bottega del Barbieri (http://www.labottegadelbarbieri.org/perche-la-fantascienza-non-viene-capita-1/) che vi ha aggiunto un altro interessante intervento di Fabrizio Melodia. Proseguiamo con altri esperti, e non è certo un caso che i partecipanti siano, oltre che scrittori, anche editor e docenti di scrittura.

Enrico Rulli

La mia esperienza è diametralmente opposta a quella presentata.

Enrico Rulli
Enrico Rulli

Secondo quello che vedo io, da una parte si assiste a un progressivo impoverimento della fantascienza, sempre più stretta in canoni rigidi che ne codificano le modalità narrative e ne mortificano la capacità di rappresentare sia il futuro che il presente; dall’altra si assiste a una attenzione sempre maggiore del lettore comune verso opere innovative, piene di quella carica eversiva che era propria della fantascienza fino a 40-50 anni fa. In classe (insegno scrittura narrativa) mi ritrovo spesso a confrontarmi con persone che non leggerebbero mai fantascienza, ma che invece leggono – e spesso vogliono scrivere – opere non presentate con questa etichetta ma che della fantascienza sfruttano tematiche, sia pure in maniera non tradizionale.

La ragione di questo stato di cose risiede probabilmente nel fatto che le tematiche culturali nelle quali si muoveva la fantascienza sono state col tempo da essa sdoganate e sono divenute patrimonio culturale comune. Di converso, la letteratura di fantascienza è andata depauperandosi, per finire irreggimentata, come dicevo prima, in canoni rigidi e ripetitivi. A ciò si aggiunge la considerazione che oggi viviamo in società sempre più disomogenee da un punto di vista culturale grazie, come nota la filosofa e redattrice di MicroMega Cinzia Sciuto, all’iniezione di contributi culturali che vengono da fuori, ma anche a causa delle spinte centrifughe interne che caratterizzano le società liquide (Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Milano: Feltrinelli, 2018). I rigidi canoni che la fantascienza si è data sono inadatti a tradurre tale stato di cose.

Infatti, basta dare un’occhiata ai successi editoriali degli ultimi lustri per rendersi conto che non mancano esempi di opere di successo che sfruttano tematiche che potremmo definire fantascientifiche, ma che della fantascienza sfuggono l’etichetta. Cito a caso pescando dai successi editoriali degli ultimi lustri.

E comincio, non a caso, citando un saggio, L’ordine del tempo di Carlo Rovelli (2018). L’opera, scritta da uno dei nostri fisici più prestigiosi, si propone da una parte di dimostrare la fallacità del nostro comune intendere il tempo, e dall’altra di costruire un nuovo sentire di questa dimensione, basato sui principi della meccanica quantistica. Rovelli lo fa arricchendo l’esposizione con citazioni narrative, filosofiche, poetiche. Non conosco opera di fantascienza che abbia venduto come questo libro, e che sia in grado di ottenere lo stesso effetto in maniera così radicale e rivoluzionaria.

Altro esempio ormai datato è Il racconto dell’ancella (Handmaid’s Tale, 1985) di Margaret Atwood. La Atwood non presenta solo una distopia, ma sfrutta questo scenario come mezzo per riflettere sulla condizione femminile.

World War Z. La guerra mondiale degli zombi (World War Z: An Oral History of the Zombie War, 2006) di Max Brooks è scopertamente un’opera orrorifico-fantascientifica, ma non viene normalmente percepita come tale. Probabilmente perché sfrutta il tema della pandemia per puntare il dito sul culto del denaro, secondo l’autore grande problema della cultura contemporanea.

Finisco con La più amata (2017) di Teresa Ciabatti, in cui l’autrice mette in dubbio il concetto di realtà e di ricordo, come il miglior Dick non potrebbe fare, pur rimanendo all’interno di un’opera (apparentemente) mimetica.

Le “speculazioni filosofiche, psicologiche o sociali” sono già fortemente presenti in questi e altri romanzi che non cito per mancanza di spazio e che appartengono alla categoria dell’opera mimetica o del saggio. Perché li si dovrebbe cercare in opere di etichetta fortemente legate a canoni narrativi che spesso si dimostrano inadeguati a trattare tali argomenti?

Paolo Aresi

Paolo Aresi
Paolo Aresi

Non so se ho capito bene la domanda, ma proverò a dare qualche opinione. Il termine fantascienza è usato spesso per indicare qualche cosa di assurdo, o comunque di altamente improbabile. E’ vero. Allo stesso tempo nella pubblica opinione, mediamente, il termine “fantascienza” viene associato a forme di intrattenimento, al limite divertenti, magari un po’ astruse, ma niente di più. Vi confesso che, quando mi presentano come “scrittore di fantascienza” avverto un po’ di disagio e talvolta mi sento in dovere di aggiungere: “Ma non solo di fantascienza”. Perché? Perché nel nostro paese il pregiudizio dell’equazione Fantascienza uguale intrattenimento e fantascienza uguale cose assurde è ancora forte, anzi, più forte che negli anni Settanta. Io penso che sia originato prima di tutto dal fatto che in Italia non si pensa più al futuro, e questo lo sappiamo bene. Inoltre esiste una mentalità antiscientifica o comunque poco scientifica che investe anche il nostro settore. Con maggiore forza perché vi si aggiunge anche questo non interesse, o magari addirittura paura, nei riguardi del futuro.

Siamo un paese alla deriva, di un provincialismo profondo e ora pure estremamente “liquido”, senza orizzonte. Con poche e belle eccezioni.

Seconda ragione: la marea di fantascienza che dagli anni Novanta ha invaso cinema e videogiochi rappresenta, in effetti, soprattutto intrattenimento, gioco, evasione.

Terza ragione, tornando alla nostra letteratura: la qualità letteraria è bassa. Non giriamoci attorno. Sono pochi i libri veramente belli, gli autori in grado di suscitare forti emozioni, forti coinvolgimenti mostrando scenari futuri, e comunque scenari del “se”. Cerco di leggere regolarmente testi di fantascienza, italiani e stranieri, ma mi capita di rado di entusiasmarmi. L’ultima volta mi è successo con Il problema dei tre corpi dell’autore cinese Cixin Liu.

E quindi? Io cerco, nel mio microcosmo, di continuare a credere nella letteratura che occupa il territorio del futuro; continuo a leggerla e a scriverla tentando, semplicemente, di dare il meglio di me stesso come autore. Questo non vincerà il pregiudizio. E allora a volte sogno un’alleanza di bravi autori che si muovano insieme e che facciano della qualità della comunicazione la loro arma.

Giulia Abbate

Una volta chiesero a Einstein se ci fosse una lezione che avrebbe voluto lasciare alle giovani generazioni, e lui rispose: “L’universo è abbondante per tutti”.

Alla luce di questa convinzione, il blocco legato a un gusto personale o la precisa scelta in favore del realismo da parte di alcune persone non mi pare preoccupante e non mi sento in grado di giudicarlo né di analizzarne le cause. Trovo più utile constatare che esistono altri segmenti di pubblico che invece sono ben pronti a godersi la fantascienza fatta bene, come dimostrano tanti successi di titoli e botteghino, e chiedermi come fare a raggiungere loro.

Il rifiuto pregiudiziale di fare un necessario salto culturale mi pare un problema che affligge molto di più i produttori di fantascienza, rispetto ai potenziali fruitori. La produzione e la comunicazione della SF in Italia soffrono di problemi che rendono del tutto secondario il supposto pregiudizio del pubblico.

Richard Bandler, grande studioso di comunicazione umana, dirime così il problema della supposta incomprensione altrui: Il significato di qualsiasi comunicazione non sta in ciò che noi pensiamo che significhi, sta nella reazione che provoca.

Il rifiuto verso la SF da parte di persone anche molto preparate è spesso non pregiudizio, ma conseguenza, reazione a un’offerta di bassa qualità. (Ne ha parlato chiaramente Francesco Verso nel suo intervento di questa stessa inchiesta). La mancanza di un sistema e di una mentalità professionale produce scrittori e scrittrici che non riescono a crescere e testi che sono sempre carenti di qualcosa. E dato che i lettori e le lettrici non sono critici letterari, e non hanno affatto il dovere di capire vita morte e miracoli di un genere, né di esaminarne la storia e la produzione omnia per salvare il salvabile, capita spesso che dopo un paio di letture mediocri la buona volontà sia dirottata verso generi dall’offerta più matura e professionale, e che chi legge si dica semplicemente: Questa è la fantascienza? Bene, non fa per me.

Parlo anche di comunicazione, oltre che di produzione SF, perché spesso bastano le recensioni ad allontanare potenziali interessati: il fantascientista di turno è molto impegnato a definire, del libro analizzato, quanto coefficiente di Dick e quanti granelli di Resnick ci sono dentro, lanciandosi in discorsi esoterici da appassionati allo stato terminale. (Proprio di esoterismo ha parlato anche Franco Ricciardiello nel suo intervento sempre in questa cornice). Tali discorsi naturalmente spaventano il pubblico generalista, interessato “semplicemente” a trovare una bella storia con personaggi credibili, ambientazioni studiate, stile originale… insomma, quegli aspetti che definiscono davvero un libro e che spesso sono poco curati proprio nei testi di autori SF, troppo presi a superare l’esame di ortodossia per curare la narrazione tout court.

La fantascienza fatta bene e ben presentata è invece un genere popolarissimo che sbanca il banco e che la gente adora senza nessuna preclusione: se si producono belle storie e le si propongono in modo azzeccato, molte delle resistenze crollano, il genere diventa secondario e (in un mercato come quello del libro che è comunque in perdita per tante altre ragioni!) i numeri cambiano.

Questo non è un problema solo italiano. In un suo intervento vecchio di qualche anno, Jonathan Lethem dà un quadro sconsolante della situazione statunitense in alcune sue fasi, parlando di “una fantascienza reazionaria tanto orrenda artisticamente quanto comodamente familiare” e afferma: L’incapacità della fantascienza di presentare la sua faccia migliore, di guadagnarsi un rispetto adeguato, non è stata mai così tragica come adesso che dall’esterno ci si appropria tanto regolarmente dei suoi punti di forza. (…) Tra i fattori schierati contro l’accettazione della fantascienza come scrittura seria, per un osservatore esterno nessuno è più evidente di questo: i libri sono maledettamente brutti.

Quando la produzione e la comunicazione fantascientifica avranno lavorato sui propri ampi margini di miglioramento, saranno in diritto di chiedersi che problemi ha il pubblico. E saranno anche in grado di superare la “mentalità della scarsità”, quella trappola mentale che ci fa sentire personalmente defraudati se qualcuno si proclama diverso da noi o semplicemente non interessato a noi. L’universo è abbondante per tutti, in fondo. Ma è folle pensare di ottenere risultati diversi se si fanno le cose sempre nello stesso modo.

Daniele Barbieri

La domanda è chiara: perché molte persone non riescono a compiere quel salto culturale che dovrebbe far loro accettare le premesse di un racconto di fantascienza? Non vorrei farla troooooooppo semplice ma la mia spiegazione è che viviamo in tempi dominati da ignoranza e paura.

Se cresce il numero di persone che non comprende (non studia, non si interessa, non è in condizione di pensare ecc…) le nozioni minime della politica, dell'economia, delle leggi, della violenza ecc – e dunque della catastrofe climatica e della guerra permanente nelle quali siamo immersi – perché sorprendersi se così tante/i non hanno le minime basi scientifiche e logiche (filosofiche “urlerebbe” il mio amico Fabrizio Melodia) per capire un racconto ma anche un ragionamento, una statistica, una sequenza causa-effetto? Persino la differenza tra scienze e tecnologie è oscura ai più. Un'ignoranza coltivata e incoraggiata ma… ne parliamo un'altra volta. Poi in Italia ci sono ragioni storiche – una si chiama “potere del Vaticano” – che rendono il garbuglio ancora peggiore; ma anche di questo parliamo un'altra volta.

La paura ogni giorno e ogni notte attanaglia tante/i (anche questa è coltivata dai “Palazzi” e dai loro mega-mega-megafoni) e colpisce perfino all'interno di quelle minoranze che pure non sono avvinte all'ignoranza come un'edera al muro; insomma le persone per le quali una frase come “salto culturale” è comprensibile. Ci hanno convinti – anche a mano armata – che non abbiamo futuro e che questa merda è “il migliore dei mondi possibili”. Perché quel segmento che io chiamo PUPA (popolo un po' alfabetizzato) dovrebbe essere incuriosito o affascinato da una letteratura che allunga lo sguardo – a volte in modo geniale e con una scrittura affascinante – su futuri possibili e/o su altri mondi? Ma dai amico/a, se pure sai/puoi/vuoi leggere perché sperare, cercare, ragionare? Scappa anche tu: c'è la fantasy per esempio che è quasi sempre consolatoria.

Forse dovrei aggiungere – o raccontare – un sacco di cose. Almeno una riesco a scriverla, senza che questo diventi un pappone (da pappa) o un pippone. Quando alle persone non troppo ignoranti e non troppo terrorizzate io riesco a mettere in mano il meglio della fantascienza di solito si innamorano. Vale per libri dell'epoca d'oro e vale per quelli di questo più difficile – anche chi scrive non solo è spesso censurato/a ma talora è a sua volta spaventato/a – momento storico.

Daniela, appena ho finito Ritrovato e perduto di Ursula le Guin te lo passo. Risposta: Ho letto poche pagine e mi basta; un libro così lo compro, racconti così li voglio avere sotto mano. Claudio, hai visto che il mese prossimo Urania pubblica un altro romanzo di Robert Sawyer. Neanche il tempo di finire: Quando? di Sawyer voglio leggere tutto.

Per la mia esperienza chi ama la buona fantascienza è quasi sempre una persona che crede alla possibilità di costruire, almeno in parte, i nostri futuri, e dunque aspetta (o progetta) di mettere sottosopra questo mondo – ignorante e pauroso – per farne uno saggio e desiderante, dove le scienze (e le sue ancelle tecnologie) non restino nelle mani di pochi ma diventino al servizio di tutti.

Conclusioni (?)

Tutti gli interventi contengono opinioni largamente condivisibili, anche se in qualche caso spostate su un piano diverso. Mi sembra però che alla risposta si siano avvicinati di più Franco Ricciardiello con il suo richiamo all’analfabetismo scientifico degli italiani e Fabrizio Melodia con il suo parallelo tra metafisica e filosofia versus fantascienza e letteratura (che personalmente condivido in toto). Mi stupisce invece che nessuno abbia fatto cenno – se non, larvatamente, Paolo Aresi – al fatto che la fantascienza sia comunemente considerata narrativa di serie B; l’annosa (e falsa) contrapposizione tra letteratura alta e letteratura popolare – o, di massa, di consumo, di genere (io la definirei “populista”, perché I promessi sposi, oggi studiato a scuola, era venduto a dispense e quindi “popolare”) – ha un suo ruolo, in questa vicenda.

Mi convince invece di meno il richiamo alla necessità di una scrittura migliore espressa un po’ da tutti ma in particolare da Giulia Abbate; non perché non ne riconosca il bisogno, ma perché non è questo il punto. Questa inchiesta nasce da un episodio che vede coinvolta proprio Giulia: avevo dato da leggere a una persona il suo racconto Perky Sun, apparso nell’antologia da me curata Sarà sempre guerra (La Ponga, 2017), e il giudizio è stato che l’idea del racconto era assolutamente inattendibile. Il racconto parla del condizionamento che una canzone pop provoca nella mente dei soldati e l’idea non è del tutto campata in aria, è solo l’estremizzazione di quanto varie ricerche psicologiche hanno dimostrato. A nulla è valsa la mia replica a questo signore – peraltro scrittore, antologista, di cultura anche se autodidatta, lettore onnivoro e vorace, ma ahinoi anche anziano – e il richiamo ai meccanismi tipici della SF (l’estrapolazione, la sospensione momentanea dell’incredulità, il fatto che non si deve giudicare l’idea di partenza ma gli effetti che questa provoca): la risposta fu (più o meno) che il racconto poteva convincere solo chi crede a Babbo Natale. Ora, il racconto di Giulia è ottimamente scritto e molto ben orchestrato, con una trama avvincente e personaggi credibili, con riflessioni sulla natura umana e sulla guerra non banali; un racconto valido sotto tutti gli aspetti. Quindi, ai fini della mia inchiesta, non sono né la qualità letteraria di un testo né la cultura del lettore a provocare la mancata comprensione della fantascienza.

Un altro episodio mi accadde anni addietro, ma potrei andare ancora più indietro nel tempo, fino a quasi mezzo secolo fa, solo che non ricordo nessun fatto e nessuna opera precise da poter citare. Quando uscì l’antologia Racconti matematici (2006), forte del fatto che fosse stata pubblicata da un editore prestigioso come Einaudi, feci leggere a qualcuno il racconto di Robert Heinlein La casa nuova, che sicuramente chi mi legge conoscerà; anche qui le risposte furono che si trattava di una sciocchezza. Ovviamente noi sappiamo benissimo che un tesseratto o ipercubo non può esistere nella nostra dimensione, ma questo non ci impedisce di fare un salto avanti, oltre la logica, e goderci un racconto divertente e ben congegnato, opera di uno dei maggiori scrittori di fantascienza.

Ho citato quest’ultimo episodio pregresso, non ricordando nessun titolo relativo ad analoghe esperienze che avevo avuto in un passato più remoto, perché alcuni degli intervistati hanno equivocato sulla mia domanda iniziale e ritenuto che io stessi parlando della situazione attuale. Sia Alessandro Fambrini che Walter Catalano, come pure Francesco Verso ed Enrico Rulli, fanno riferimento alla fantascienza di qualche anno fa in contrapposizione a quella di adesso, con considerazioni certamente condivisibili da molti punti di vista. In realtà la mia domanda non era riferita solo all’evoluzione che la fantascienza ha avuto, o ai cambiamenti che ci sono stati nella società e dunque nel parco dei fruitori, lettori o spettatori che siano. Era, per così dire, assoluta e riguarda la fantascienza in sé, non certo come pura avventura ma come mezzo per speculare sull’Uomo.

Detto questo, e avendo ponderato tutti gli interventi, non mi pare che si sia giunti a una conclusione univoca. Solo risposte parziali, anche se significative. La mia personale visione è che la maggior parte delle persone, sia pure acculturate e competenti, soffra di una sorta di “pigrizia mentale” che impedisce loro di fare quel salto logico che è alla base della mia domanda. Un po’ come i commercianti, che una volta calcolavano a mente il costo di un chilo di patate + un chilo di mele e oggi usano la calcolatrice. Forse la risposta la potrebbe dare uno psicologo – la fantascienza come un test di Rorscharch: il lettore generico vede solo una macchia, il fantascientista ci trova un intero universo. Scherzi a parte, trovo giusta la conclusione dell’intervento di Daniele Barbieri: Per la mia esperienza chi ama la buona fantascienza è quasi sempre una persona che crede alla possibilità di costruire, almeno in parte, i nostri futuri, e dunque aspetta (o progetta) di mettere sottosopra questo mondo – ignorante e pauroso – per farne uno saggio e desiderante, dove le scienze (e le sue ancelle tecnologie) non restino nelle mani di pochi ma diventino al servizio di tutti. In altre parole la mia convinzione è che noi fantascientisti facciamo parte di una élite di individui molto intelligenti e capace di vedere aldilà delle cose concrete. E pazienza se può suonare razzista.

Ma forse, alla fine, ha ragione Fabrizio Melodia: Smettiamola di chiederci perché la fantascienza viene rigettata e continuiamo a praticarla. Che domani gli osservatori alieni (arrivati troppo tardi) non dicano che la nostra civiltà si autodistrusse per mancanza di menti pensanti. E chiamiamola fantascienza, per favore. Con fierezza e ironia socratica.