— E così tu saresti un Cronista, eh?

— Un fottuto Cronista, Ily, fottuto!

Arriccio il naso quel tanto che basta a sottolineare il mio disappunto, ma senza esagerare. Di solito ho sempre detto la mia a chi abbia mai pensato di offendermi sparandomi il proprio alito fetente a non più di un palmo del naso, ma stavolta taccio. E prendo ancora qualche secondo, saggiando la resistenza dei legacci che mi tormentano i polsi.

— Hai finito la voce, amico?

— Starà pensando a cosa scrivere sugli ultimi minuti della sua vita, te lo dico io!

Faccio ciondolare la testa dall’una all’altro. Ily e Dave, a quanto pare. Presentazioni piuttosto affrettate, le nostre, e non di quelle ortodosse con sorrisi acquiescenti e palmi protesi. Per fortuna il terzo Tecnomane se ne rimane in disparte, qualche passo più indietro. Se pure lui si mettesse a parlare come questi due, credo che non potrei esimermi dal ridere, nonostante tutto. E farmi ammazzare in pochi secondi.

Alzo le spalle e cerco di assumere un’aria perplessa come di chi sa di trovarsi nei guai senza aver fatto nulla per finirci. — Ma quale Cronista! — sbotto, cercando di notare qualche segnale positivo nelle loro espressioni.

— Fottuto! — grida ancora Dave, accompagnando l’insulto preferito con un pugno allo stomaco.

Sputo fuori tutta l’aria che ho nei polmoni e poi quasi mi strozzo mentre di riflesso cerco di inspirare per riprendermi. Sento gli occhi lucidi e un dolore cupo che pulsa in un luogo indefinito nell’addome. Porca puttana, questo non ha delle braccia, ma mazze da demolizione.

— Sei un Cronista — mi sbeffeggia la ragazza, Ily, con un tono graffiante e adesso una linea di derisione che le taglia in due il volto. E mi sputa, merda. Se c’è una cosa che mi fa veramente incazzare…

Non dico nient’altro. Dopotutto, hanno il blocco di carta e il pennino per le cronache. E almeno una decina di pagine incomprensibili da additare come la prova di quello che asseriscono.

Mi guardo attorno e all’improvviso mi rendo conto che si mette davvero male. Osservo il terzo del gruppo, ancora fermo e in silenzio. Provo a parlare a lui: — Magari potete lasciarmi andare e…

— Tu non vai da nessuna parte, schifoso timorato di Dio.

Ecco, Dave ha dato voce a tutte le mie preoccupazioni. Certe volte non è sufficiente credere in Dio. Ci vorrebbe che fosse qui accanto a darci una mano. Ma la profezia è chiara: Dio verrà agli uomini dal piccolo mondo e porterà la salvezza. Pure stando lì a rigirare quelle parole in tutti i modi, non credo di essere gli “uomini”, ma solo un povero disgraziato finito in una brutta situazione. Per una manciata di lamine di scambio, tra l’altro.

Alzo gli occhi e cerco di sbirciare oltre le canne che compongono il tetto di questa baracca improvvisata. C’è ancora un po’ di luce e, come dovrebbe fare ogni buon Cronista, volgo lo sguardo nella direzione di Hossegod. Non riesco a vedere il piccolo pianeta, ma è poco importante. La mia unica speranza di salvezza è là fuori, da qualche parte.

— Conosci le regole, giusto? — Ancora Ily. Fa scansare Dave di qualche passo e questa volta è lei con il viso a pochi centimetri dal mio naso. Almeno lei è carina, diamine!

Per l’ennesima volta rispondo limitandomi ad alzare le spalle. Chi è che non conosce le regole? E la prima, qua fuori, è la più essenziale e netta di tutte: non ci sono regole, dove non arriva la Legge.

— Quindi adesso ci dici cosa sei venuto a fare da queste parti, vero?

Non mi piace il tono che ha dato alla voce, troppo ammiccante, troppo con qualcosa di velato che non fa presagire nulla di buono.

— Faccio quello che deve fare ogni Cronista — rispondo, mantenendo una certa indeterminatezza in quello che dico. — Guardo, rifletto, scrivo e…

— E da quando gli Altissimi Invocatori sono interessati a quello che accade così lontano dai centri?

Sento quasi l’esigenza di sorridere, davanti a tanta ingenuità, però mi trattengo, perché il concetto espresso dalla ragazza non è banale. È la consuetudine a formalizzare certi pensieri. E se gli Invocatori non hanno mai dato mostra di interessarsi a quello che accade fuori dai centri ecco che è lecito credere che non ci sia nulla, qua fuori, che possa interessare un Cronista.

— Non c’è nulla che non sia interessante agli occhi degli Invocatori. — Provo a dare forma alle mie elucubrazioni. — Perché tutto è essenza di Dio, Ily. — Scelgo un tono confidenziale, da ortodosso rompicoglioni, me ne rendo conto. Ma forse se davanti a sé non vede altro che un bigotto Cronista ho qualche possibilità di portare la pelle a casa.

— Oppure il benefattore di Hossegod ci ha solo voluto fare omaggio di una nuova cavia, non è così?

Ogni volta che parla Dave mi sento un passo più vicino alla morte. Lo guardo di sbieco, senza perdere il contatto visivo con Ily, ferma davanti a me. — Dave, io credo che…

— Forse dobbiamo ragionarci con un po’ di calma — interviene l’altro, quello che finora non ha parlato e se n’è rimasto in disparte.

— Ecco — faccio, tradendo un accenno di nervosismo con una nota di tremore nella voce — forse dovremmo fare a questo modo, no?

Ily si alza lentamente e lancia un’occhiata a Dave. Insieme si voltano verso il compagno.

— Le Rocce sono vicine, Paloth — fa Ily. — Potrebbe essere una buona occasione per provare la radio. Forse Dave ha ragione e…

— Rischiamo di vanificare settimane di lavoro — taglia corto l’uomo che Ily ha chiamato Paloth. Dave sembra non avere nulla da aggiungere, adesso.

— Ma è così per ogni tecnologia che testiamo, no? — insiste la ragazza.

Paloth annuisce, ma dall’espressione che assume non sembra che sia disposto a cedere. — Abbiamo solo due trasmettitori e non possiamo permetterci di perderne uno, lo sai.

— Mi servono poche ore per finirne un altro — interviene Dave. Noto una certa eccitazione nella voce del mastodontico ragazzo. È sempre interessante notare come si perda il controllo di sé ogni qualvolta si sia sensibili all’argomento trattato.

Sorrido, ora che i due più infervorati mi danno le spalle, fregandomene di farmi notare da Paloth. Anche se si è esposto solo da qualche istante, mi pare quello più equilibrato e l’unico disposto a concedermi ancora qualche ora di vita. Non butterà al vento l’autocontrollo per un mio mezzo ghigno.

— Bene — asserisce Paloth — allora non perdiamo altro tempo. Quando avremo un trasmettitore in più faremo una prova. Andate, adesso — ordina.

Meno di un respiro dopo, nella piccola baracca siamo solo in due. L’uomo che evidentemente è il leader di questo gruppo di Tecnomani mi guarda con un cipiglio serio. Mi sta scrutando, lo capisco dal velo che scende davanti ai suoi occhi mentre mi osserva. È decisamente giovane, ma ha i lineamenti tirati dalle preoccupazioni. E una cicatrice sul collo, appena sotto l’orecchio destro. Qualche chip, immagino. Uno dei tanti esperimenti riusciti. Vorrei solo saperne di più.

— Da qui non riesco a vedere Hossegod — provo a dire.

— Il tuo Dio se ne farà una ragione, Cronista.

— Mi chiamo Egar.

Non replica. Non ho un’identità che possa interessarlo. L’importante è che io sia qui, pronto a immolarmi, non certo volontariamente, alla loro causa. Sospiro e chiudo gli occhi, quando Paloth mi volta le spalle ed esce sulla scia degli altri due. Vorrei almeno un pezzo di carta su cui scrivere che la vedo brutta. Giusto per passare il tempo e pensare il meno possibile.

— Che cosa avete intenzione di fare?

Butto lì la domanda con l’unica intenzione di prendere tempo. E infatti non rispondono, ma si limitano a indossare espressioni furbe condite con un pizzico d’eccitazione dovuta alla situazione.

Quando sono rientrati nella baracca mi sono svegliato di soprassalto. Mi sono addormentato quasi senza rendermene conto, nonostante la posizione scomoda nella quale m’hanno legato e la neanche tanto sottile preoccupazione che mi lacera lo stomaco con artigli feroci.

È ancora Ily ad avvicinarsi. Si china e sfodera quel sorriso di chi la sa lunga che comincio a odiare. — Egar — mormora. — È così che ti chiami, giusto?

Ha una voce dolce. Se non stesse pensando di ammazzarmi la troverei eccitante. Mi limito a un cenno d’assenso e continuo a fissarla dritta negli occhi.

— Bene, Egar — riprende — tu svolgi un lavoro importante per il tuo Dio, non è così?

Ma ogni frase termina con una domanda che cerca la mia approvazione? Sento l’esigenza di sbuffare e gridare. Non faccio né l’una né l’altra cazzata. — È così — rispondo a mezza voce.

— Quello stesso Dio che abbiamo atteso per secoli e che non è mai giunto a portare l’aiuto promesso. — Quasi un sibilo, adesso. Sento una vena d’odio in quello che dice. Una delusa, non solo una Tecnomane. Una delle tante persone che si aspettavano qualcosa di più, dalle profezie. E non è facile far coincidere le proprie aspettative con i tempi di una divinità palesemente in ritardo. Di almeno settecento anni. Solo la dialettica degli Invocatori tiene in piedi il teatrino, a volte è fin troppo evidente.

L’aiuto verrà dal piccolo mondo — recito a memoria. La profezia è stata tramandata a voce per decenni. E quando è stata scritta non tutti i passaggi erano chiari. Ma la promessa di aiuto era presente ovunque, in tutti i testi, in tutti i cuori degli abitanti di Azeth. Magari alle Rocce non frega nulla, ma a tutti gli altri sì.

— Tu invece aiuterai il progresso, Egar — riprende Ily. Con la coda dell’occhio percepisco la figura immobile di Dave, due passi più indietro, e quella nuovamente silente di Paloth. — E tutti gli uomini. Più di quanto abbia mai fatto il tuo Dio.

Non ho altre idee se non quella di riprendere a salmodiare: — Giungerà dal piccolo mondo nella notte dell’uomo e…

— Fa’ silenzio — sussurra Ily. E mette in queste due parole tanta velata minaccia che mi convince subito. — Dave?

— Sì? — Il ragazzo si avvicina. Se prima a puzzare era solo l’alito ora percepisco anche odore acre di sudore. Una bestia, miseria! Non potevo finire in mani peggiori.

— Ci muoviamo subito — ordina lei.

Per la prima volta da quanto sono rientrati nella baracca cerco lo sguardo di Paloth. Ma non eri tu a comandare qui dentro? Vorrei gridarglielo, ma non servirebbe a nulla. Incrocia il mio sguardo, impassibile come al solito, poi quando apre la bocca gela ogni mia speranza: — Non avvicinatevi troppo — comanda. — E poi tornate immediatamente indietro.

Ily si alza e gli risponde con un cenno, prima di parlare ancora all’indirizzo di Dave. — È tutto pronto?

— Tutto pronto.

— Slegalo, allora, e incamminiamoci.

Camminiamo a passo svelto per almeno una frazione. Rimaniamo quasi sempre sotto il tetto compatto degli alberi e i raggi che filtrano tra le chiome non sono sufficienti a stemperare l’umidità che c’è qua sotto. Sento il sudore che ruscella sulla schiena e ho i capelli incollati alla fronte. Ily apre il gruppo e Dave chiude alle mie spalle, minaccioso col suo incedere pensante e i continui sbuffi di chi mette un piede avanti all’altro con una certa fatica.

— Potremmo riposarci qualche minuto? — azzardo. Un po’ perché ne sento la necessità, un po’, soprattutto, per prendere tempo.

— Ti riposerai tra le Rocce, amico — se la ride la ragazza. Si degna appena di voltarsi quel tanto che basta per farmi notare l’espressione divertita. Ora che la vedo meglio, fuori dalla penombra della baracca nella quale m’hanno tenuto a marcire per ore, mi rendo conto che è ancora più bella di quanto già non avessi apprezzato. Non solo un bel viso e un corpo atletico. Pure un certo spessore nei punti giusti, insomma.

— Dave? — supplico sospirando come un morente. Pure lui arranca, ormai è evidente. Forse cede alle mie suppliche e riesce a convincere pure Ily.

— Non fiatare. — La sua risposta si accompagna a una manata devastante che mi schianta tra le scapole. Poi un risucchio osceno mentre si affretta a recuperare il respiro perso per parlare. Sta morendo ma non è disposto a darmi soddisfazione.

Ho le mani intorpidite, ma è chiaro che non posso chiedergli di liberarmi i polsi. Il ragazzo piuttosto mi strapperebbe le braccia, pur di accontentarmi. Scuoto la testa e strizzo gli occhi. Il sudore me li fa bruciare e di tanto in tanto faccio fatica a tenerli aperti.

Cerco di capire che direzione stiamo seguendo. Non andiamo verso il centro abitato, questo mi pare evidente. Momahn, il secondo sole, da quello che posso intuire, è alla mia destra. I raggi di Lucent, la stella principale, sono così deboli che da sotto questo tetto di vegetazione non potrei mai intuirne la direzione.

— Stiamo andando verso la valle? — chiedo a un certo punto. Serro la mascella, aspettandomi un nuovo colpo da parte di Dave, ma non succede nulla.

— Siamo quasi arrivati — è la risposta asciutta di Ily. — Non ti preoccupare.

— Mi rimane altro oltre la preoccupazione? — ribatto.

Li sento ridere insieme, stavolta. Ma è sempre la ragazza a parlare. — Ti rimane sempre la speranza, no?

— Già — borbotto, soffiando l’aria dal naso, afflitto.

— Ci siamo — esclama dopo un quarto di frazione di silenzio. — Dave?

— Lo preparo — risponde il ragazzo. Senza avere il tempo di pensare a niente di intelligente da dire, mi sento afferrare per una spalla e tirare indietro.

Voltandomi, mi trovo per l’ennesima volta a un palmo dal sorriso marcio del mio nuovo amico. — Perché non ne discutiamo, magari?

— Perché invece non stai zitto?

Quando risponde a questo modo mi sembra che imiti Ily, attingendo a una determinazione verbale che non sembra essere naturale, per lui.

— Potrebbero farvi comodo alcune lamine di scambio, e allora…

— Lo vedi questo?

Trovo ancora una volta una valida motivazione per tacere, quando da una saccoccia che porta a tracolla tira fuori un coltello con la lama lunga quanto un avambraccio. Faccio solo un cenno d’assenso. Lo vedo, sì. Poi non mi rimane altro che scrutare le ombre del sottobosco tutt’attorno.

— Non vedo le Rocce — faccio dopo un istante, cedendo all’istinto e alla curiosità. L’occhiataccia di Dave, che sta armeggiando con qualche altro aggeggio che ha appena tirato fuori, stavolta è divertita.

Ily si avvicina. — Venti passi in quella direzione — spiega, indicando alla mia sinistra. — Aspettano solo te.

La mia espressione deve essere ridicola, perché la ragazza scoppia a ridere.

— E cosa ci fanno delle Rocce quaggiù?

Stavolta sembra condividere la mia stessa perplessità. Un luogo deserto, in mezzo a una fitta boscaglia. Eppure ci sono le Rocce.

— Non mi interessa per quale motivo siano emerse qui. Mi basta che ci siano. Per noi è anche più comodo e sicuro, no?

— Per voi lo è di certo, ci credo. Ma…

Non sento più nemmeno la necessità di capire questa cosa. Non è normale che le Rocce siano emerse così lontano dagli uomini. Nessuno aveva mai portato una testimonianza di questo tipo. Eppure è piuttosto evidente che qui non c’è vissuto nessuno. Loro non dovrebbero esserci. Nessun uomo, nessun controllo. Nessuna Roccia. Per la miseria, è una delle prime cose che si imparano.

— Magari se non rocci puoi scriverci qualcosa di interessante, no?

— Ma non capite che questa cosa è da studiare? — Mi rendo conto che ho preso quasi a urlare. — Capire perché sono emerse così lontano dai centri abitati può essere più importante che far funzionare le vostre radio senza che ròccino.

Ily mi risponde mentre Dave continua a preparare non so cosa. Ha tirato fuori una serie di biglie nere e le sta sistemando con cura sul terreno davanti a me. — Più importante per un Cronista, certo. Non per noi, Egar.

— Io…

— Tu prega affinché le nostre trasmittenti funzionino senza farle rocciare. Poi magari ti concediamo qualsiasi riflessione filosofica, amico.

— Non mi state trattando come un amico — ribatto con una punta di acidità.

— Sono un’inguaribile ottimista — è la replica pronta di Ily. — Se tutto va bene potremmo diventarlo. Te lo auguro.

— Cosa sono quelle cose? — Lasciandomi cadere a terra, esausto, mi rivolgo a Dave.

Risponde subito, come se non aspettasse altro che illustrarmi tutto con dovizia di particolari. — Biglie esplosive azionabili a distanza.

— E servono?

— A farti esplodere un pezzo alla volta se tra le Rocce non farai quello che ti ordiniamo.

Sudore freddo si unisce a quello acre della lunga camminata. Deglutisco a fatica poi cerco lo sguardo di Ily. Annuisce appena, alzando le sopracciglia.

— Forse è me-meglio rocciare! — riprendo, quasi balbettando.

— Ci auguriamo che tu possa uscirne sano e salvo — commenta Dave. Forse è la prima volta in cui i nostri pensieri collimano. Ma non aggiungo altro, mentre inizia a fissare le biglie al mio corpo, con del nastro adesivo. Prima alle gambe, poi braccia e busto. Fanculo, altro che amici. Se sopravvivo gliele faccio ingoiare, queste bombe.

— Avanza.

Non è la prima volta che mi trovo tanto vicino alle Rocce, ovviamente. Ma è senza dubbio la prima volta che le temo con tanta intensità. Ily deve ripetere quello che ha detto almeno due volte, prima che io mi renda conto che è un ordine. Vuole che mi muova tra le Rocce. Quando ritorno in me sento Dave tossire. Un avvertimento, presumo: ricorda le biglie. Come se potessi ignorarle. Sembra abbia scelto i punti in cui piazzarle con gusto maniacale. Appena al di sotto delle ginocchia. All’altezza dei gomiti e una sull’ombelico. Abbastanza lontana dal cuore da non regalarmi una morte rapida. Quando ha scherzato sull’idea di piazzarmene una pure sotto le palle ho quasi dato di stomaco. Ma la sesta l’ha rimessa nello zaino e solo dopo ha preso una delle radio trasmittenti e me l’ha consegnata.

— Non ci vorrà molto — ghigna Dave, pungendomi con la sua ironia da idiota.

— Cosa volete che faccia? — Ancora uno dei soliti mezzucci per prendere tempo. Vogliono che mi avvicini alle Rocce e faccia funzionare la radio. Se non succede nulla di catastrofico, significa che sono salvo e loro hanno una nuova tecnologia che non disturba gli Assenti, come li chiamano gli Invocatori.

— Avanza, Egar. È inutile tergiversare.

— Magari possiamo accenderla quaggiù e lanciarla vicino a loro, no?

— Nah, lo sai che non è la stessa cosa. — Poi mi rispiega tutto come se fossi un alunno un po’ indietro e con qualche difficoltà. — Vai fino a quella Roccia lì, accendi la radio e proviamo a comunicare. Semplice e lineare.

— Se non rocciano.

— Vedrai che non succederà — prova ad ammorbidirmi Ily. — Anche se non sembra — riprende — Dave è un vero genio con questi affari. Vedrai che le Rocce nemmeno si accorgeranno che stiamo usando le nostre radio.

— Faremo esplodere tutto Azeth! — mi lamento. Mi rendo conto che detta così suona patetica, ma se un Cronista non esagera di tanto in tanto non è credibile.

— Avanti — ordina ancora, dandomi una piccola spinta.

Faccio il primo passo e mi fermo irrigidito. Un leggero colpo di tosse di Dave mi suggerisce un secondo passo, poi un terzo. Senza rendermene conto, ormai in trance, sono a due braccia dalle Rocce. — Va bene qui?

Sto tremando e il sudore mi ha inzuppato la casacca. Osservo la protuberanza che emerge dal terreno, così simile a una roccia ma tanto diversa nella sostanza. Da quando abbiamo compreso in che modo raggiungere una pacifica convivenza con i nativi le cose hanno cominciato ad andare meglio. Ma quanti uomini sono rocciati insieme agli Assenti, prima di capire che certe cose non ci erano permesse?

— Ancora due passi, Egar — suggerisce Ily.

Osservo la radio, stretta nella mano destra, e respingo l’impulso di nasconderla dietro la schiena, quasi a celarla alle Rocce. Porca Puttana. Non ci sono centri abitati, qui. Non ci sono uomini a disturbare gli equilibri del pianeta. Per quale motivo ci sono le Rocce, allora? Pensieri che si accalcano nella mente, ma che sono di poca importanza. L’unica cosa che conta è la radio che ho in mano. Mi auguro con tutto il cuore che Dave sappia davvero il fatto suo. Se la radio con le sue interferenze fa rocciare l’essere immobile a pochi palmi da me sono spacciato.

Lo sanno bene, i Tecnomani, che per sopravvivere alle loro stoltezze è necessario stare lontano dalle Rocce. Ogni convivenza ha le sue regole. E gli Assenti non ammettono la tecnologia. Non tutta, perlomeno. Lo sanno bene, i bastardi, per questo quando beccano uno come me ne approfittano subito.

— Adesso facciamo la prova, okay?

Non rispondo, tanto non è che abbia alternative. Muovendomi lentamente mi volto verso i due ragazzi, fermi a distanza di sicurezza. Se l’Assente roccia, loro si salveranno. Io inizierò una nuova vita in simbiosi con Azeth.

Impreco sottovoce, alzando gli occhi al cielo. Un vezzo, niente di più. Anche se tutte le profezie dicono che la salvezza arriverà dall’alto, dal cielo.

Dave ride. Ily appresso a lui. E allora lo faccio pure io.

— Bravo, Egar, è proprio il momento giusto per pregare il tuo Dio, non credi?

— L’aiuto verrà dal piccolo uomo… — mormoro.

— La paura ti gioca brutti scherzi, eh? — mi deride Ily. — Adesso non ricordi nemmeno più le parole esatte della profezia?

Alzo le spalle e non aggiungo altro. L’aiuto verrà dal piccolo mondo. Lo sanno un po’ tutti. Anche i Tecnomani, dopotutto.

— Un Cronista sa sempre quello che dice. — È il mio turno di fare lo spavaldo adesso. Non posso esimermi, anche con una radio trasmittente accanto a una Roccia.

— Sei un povero pazzo — offende Dave.

Una piccolissima frazione dopo, cade a terra. Un tonfo sonoro e improvviso.

— Ehi! — grida Ily, scostandosi appena in tempo per non finire sotto alla mole dell’amico. — Che succede?

— Forse è il piccolo uomo — esulto.

La ragazza non fa in tempo a voltarsi. Cade anche lei faccia in avanti e lascia andare la radio, che rotola sul terreno. Passato il breve momento di euforia, sento il panico crescere più forte di prima.

— Avrei dovuto farti rocciare — mormora il nano, saltando giù dal ramo di un albero, qualche passo dietro al punto in cui Ily e Dave si erano fermati.

— Stai lontano, Sedin, non fare cazzate.

Il nano ha ancora in mano lo storditore. Lo osserva e, con la solita voglia di fare il cretino che lo contraddistingue, finge di puntarlo verso di me, avvicinandosi.

— Attento alla radio — mormoro, quando vedo che i suoi piedi deformi passano troppo vicino alla trasmittente lasciata cadere da Ily. Se la attiva e quella che ho in mano capta il segnale sono fottuto, con buona pace di Dave.

— Togliti da lì, forza.

Il nano poggia un piede su una radice che emerge contorta dal terreno e mette via lo storditore. Poi raccoglie la radio di Ily. Sudando freddo, lo raggiungo con tre falcate.

— E così — riprende — alla fine ne abbiamo due, eh?

Annuisco e aggancio la trasmittente alla cintura dei pantaloni, mentre Sedin mette l’altra in un piccolo zaino.

— Le stavamo pagando un po’ troppo, oggi.

— Stavamo?

Stavo, esatto, tu avresti salvato il culo.

— E invece ho salvato il tuo, pensa te!

— Quanto staranno in queste condizioni? — domando per cambiare discorso.

Il nano fa spallucce. — Una mezza frazione, non di più.

— Allontaniamoci in fretta, allora. — Getto un’occhiata agli Assenti, fermi come loro natura, dieci passi più in là. — Incredibile, vero?

Sedin stringe le labbra e annuisce. — Per quale motivo siano emersi in questo posto è un mistero.

— E non ho intenzione di rimanere qui a scoprirlo. Andiamocene, dai.

Camminiamo per un po’ senza dire nulla. È quasi ora di mangiare, quando ci fermiamo.

— Quanto pensi che potremmo farci? — domanda il nano, indicando la radio alla mia cintura.

— Trenta o quaranta lamine di scambio, se troviamo dei Tecnomani abbastanza fanatici — dico. — E forse un paio di pasti caldi.

— Dobbiamo rimediare anche un altro blocco e un pennino, vero?

Annuisco. — Il mio è rimasto alla loro baracca.

— Potremmo anche farne a meno, tanto come Cronista non sei credibile — mi rinfaccia.

— No?

— Per niente, amico. Si vede da lontano che non credi in Dio. Hai l’aria troppo intelligente.

— Questo sarebbe un complimento?

Alza le spalle. — Non mi hai ancora ringraziato — borbotta, cambiando argomento.

— Vero, non l’ho ancora fatto.

Mi sdraio e incrocio le braccia dietro la testa. Voglio riposare un paio di frazioni. Accanto a me il nano sta bofonchiando qualcosa a mezza bocca. Lo ignoro. Osservo il cielo, visibile a tratti tra le chiome degli alberi. Hossegod è luminoso e ben visibile. Non c’è da credere in Dio, c’è solo da sperare. Sperare che vada sempre tutto liscio. È l’unica cosa che conta.