Il Novecento è stato più volte definito come il secolo del trionfo delle immagini. La preponderanza delle immagini (in movimento e non) prodotte – a partire dalla fotografia, passando per il fumetto e il cinema, fino alla televisione – ha fatalmente marchiato il secolo scorso. Il nuovo millennio, però, si è aperto con un cambio di rotta decisivo e spiazzante: la produzione e, soprattutto, la diffusione a livello globale di immagini e video, non è più esclusivo appannaggio di fotografi, registi, disegnatori, distributori cinematografici, ma di ognuno di noi. Basta dotarsi delle giuste tecnologie, ormai a basso costo, e chiunque è in grado di produrre una foto o un video e di condividerlo, grazie a Internet, con chiunque sia dotato di un computer o di un telefono cellulare.
Questo proliferare d’immagini pone, ovviamente, enormi questioni in tema di privacy, di libertà individuali. Per un verso il diffondersi delle tecnologie legate alla sorveglianza e al controllo ha raggiunto un sviluppo inimmaginabile solo qualche anno fa; dall’altro verso, l’uso di tale tecnologia ha modificato sempre più lo stesso concetto di sorveglianza e di privacy.
Del resto, i moderni telefoni cellulari ormai hanno la possibilità sia di effettuare fotografie sia video. Ma non solo. Con la app giusta si possono montare dei video, così come modificare singole immagini, in altre parole manipolare. Quello che una volta era un gadget fantascientifico dell’agente segreto James Bond – una macchina fotografica nascosta nell’astuccio di un apparente portasigarette – è ormai un accessorio ad appannaggio di tutti. E poi, basta puntare e schiacciare.
La sorveglianza delle nostre città – guarda caso attuata proprio con l’occhio elettronico delle telecamere –, i reality show che impazzano per le televisioni di tutto l’Occidente, la voglia di voyeurismo che dilaga su Internet (vedi il fenomeno degli yotuber) sono tre fenomeni sociali, solo apparentemente dissimili, ma che in realtà sono profondamente legati e rappresentano le facce di una stessa realtà: stiamo – senza essere catastrofici o apocalittici – dirigendoci verso un’era da Grande Fratello di orwelliana memoria.
Molti studiosi avvertono i pericoli di tale fenomeni. Scrive, ad esempio Stefano Rodotà (Tecnopolitica, Editori Laterza, Bari 2004):
Bisogna, quindi, definire le condizioni necessarie per evitare che la società della sorveglianza si risolva nel controllo autoritario, nella discriminazione, in vecchie e nuove stratificazioni sociali produttive di esclusione, nel dominio pieno di una logica di mercato che cerca una ulteriore legittimazione proprio nella tecnologia. Questo esige processi sociali, soluzioni istituzionali capaci di tener fermo il quadro della democrazia e dei diritti di libertà. È vano confidare nella sola autodifesa dei singoli: le speranze non possono essere affidate alle «strategie da bracconiere» che ciascuno di noi può cercar di praticare. L'impresa può apparire disperata. Non i catastrofisti, non gli apocalittici avversari delle tecnologie, ma i loro convinti apologeti hanno certificato, ben prima della svolta dell'11 settembre, la morte della privacy e, con essa, l'avvento di una società della sorveglianza in cui scompare la speranza del rispetto delle libertà e della dignità della persona.
La videosorveglianza nei luoghi pubblici – dalle banche alle fermate della metropolitana, dagli uffici postali ai supermercati, fino agli alberghi –, il rilevamento della traccia elettronica lasciata dall’utilizzo di bancomat e carte di credito, fidelity card delle insegne distributive e dell’iscrizione a quel sito Internet per ottenere determinate informazioni sono vere e proprie forme di controllo che producono una gran massa di dati che finiscono in altrettante banche dati. Se una volta, però, tali dati erano rilevabili e usati solo da forze di polizia e organismi similari, oggi sono i signori del marketing a tracciare – con queste informazioni e le nuove tecnologie della comunicazione – il profilo di ciascun cittadino, o meglio di ciascun consumatore.
Ognuno di noi, insomma, è intrappolato in una rete tecnologica che traccia il nostro profilo di consumatore e si diventa così facili bersagli per manipolazioni e pressioni di vario genere. E a questo fenomeno che fa riferimento David Lyon, nel suo libro La società sorvegliata. Tecnologie di controllo della vita quotidiana (Feltrinelli, Milano 2002), dove sottolinea con forza che tutto ciò non può che generare anche un profondo problema di democrazia.
Lo spazio che separa la società attuale da quella descritta da George Orwell in 1984 è ancora vasto, ma ci sono molti e preoccupanti segnali che ci indicano che la strada verso l’utopia disegnata dallo scrittore inglese è forse stata intrapresa. La guerra globale al terrorismo, dopo l’11 settembre, è stata usata come arma per la riduzione delle libertà personali.
In 1984, il processo di avvicinamento alla dittatura del Grande fratello è – non a caso – iniziato grazie all’uso distorto dei mezzi della comunicazione di massa e soprattutto della televisione.
L’invenzione della stampa, tuttavia, rese più semplice il compito di manipolare l’opinione pubblica, e il cinematografo e la radio perfezionarono non poco tale tecnica e ne accrebbero le possibilità. Con l’invenzione e lo sviluppo della televisione, e il progresso tecnico che rese possibile di ricevere e trasmettere simultaneamente sullo stesso apparecchio, il concetto di vita privata si poteva considerare del tutto scomparso. Ogni cittadino, o meglio ogni cittadino che fosse abbastanza importante e che valesse la pena di sorvegliare, poteva essere tenuto comodamente sotto gli occhi della polizia e a portata della propaganda ufficiale, e avere nello stesso tempo tutte le altre possibili vie di comunicazione precluse. La possibilità d’ottenere non solo una totale ubbidienza alla volontà dello Stato, ma anche una completa uniformità di vedute su tutti gli argomenti, esistette, da allora, per la prima volta.
Siamo un po’ tutti, dunque, potenziali protagonisti del Truman Show, dove un ignaro bambino viene allevato fin dalla nascita in un’isola che altro non è che un immenso set televisivo: i suoi genitori, amici, sua moglie altro non sono che comparse dello show. Prima del film di Peter Weir, però, c'è stato quel visionario scrittore che è Philip K. Dick che aveva già previsto tutto, in uno dei suoi romanzi, considerato a torto minore. Riassumiamone la trama. Ragle Gumm vive in una tranquilla cittadina americana degli anni Cinquanta, insieme alla sorella, al cognato e al loro figlio. Da due anni, partecipa ad un gioco a premio e puntualmente fornisce le soluzioni ai complessi problemi matematici proposti dal giornale locale. È così che Ragle Gumm si guadagna da vivere, ed alla soluzione dei problemi dedica gran parte della sua giornata. Ben presto però, il protagonista del romanzo comincia ad essere consapevole che la realtà che lo circonda è in qualche modo falsa e che alcuni che vivono intorno a lui sembrano complottare contro di lui, a cominciare dal suo vicino di casa. Alla fine di una estenuante ricerca, Gumm scoprirà l’atroce verità: la cittadina è un immenso scenario posticcio, così come la sua vita. In realtà è il 1997 ed è in corso una guerra tra la Terra e la Luna in cui proprio Gumm e il concorso a premi giocano un ruolo vitale per tutta l’umanità.
Questa la trama di Tempo fuori luogo, pubblicato nel 1959 in cui Dick ci dice che la realtà che ci circonda può essere finta, posticcia, con tanto di sfondo di cartapesta costruito a nostra immagine e somiglianza. Il set di un film o di una serie televisiva, in cui possiamo restare eternamente imprigionati.
Gli Stati Uniti sono ovviamente all’avanguardia in quest’avvicinamento all’utopia di Orwell. Il Capps II è un sistema di controllo che incrocia i dati dei passeggeri delle linee aeree con quelli contenuti in banche dati pubbliche o private (come quelle delle società che gestiscono le carte di credito); il Matrix (Multistate Anti-Terrorism Information Exchange) mette in comune tutti i dati esistenti a livello di banche dati statali. Solo alcuni esempi, per creare una sorta di “società della sorveglianza totale”, in cui il privato diventa sempre più pubblico in nome della sicurezza, ma spesso per conto di un processo di mercificazione dell’essere umano.
Le app sui nostri telefoni cellulari sono in grado, nel loro insieme, di definire la nostra identità, il chi siamo e cosa facciamo. Un app di un sito di e-commerce ci racconta quali sono gli oggetti che abbiamo comprato; quella che ci indica la mappa per arrivare in un determinato luogo, ci dice dove siamo andati; se abbiamo un app per ordinare pietanze direttamente da casa nostra, allora è possibile sapere quali sono i nostri gusti in fatto di cibo; e così via. Un app ha memoria e può dire molto su noi stessi, così come i dati che raccolgono i vari siti internet a cui ci registriamo per determinati servizi o acquisti di merci.
Stesso discorso per i social network. Raccolgono così tante informazioni su di noi, da foto a commenti, dai nostri like, dai quali è possibile costruire la nostra storia, raccontare le nostre preferenze, dire chi siamo.
È tutto questo è un enorme e serio problema per la democrazia dei paesi occidentali e, in definitiva, per tutti noi.
In un articolo del 2013, apparso su Wired, Richard Stallman, un programmatore e attivista statunitense che da più di 30 anni promuove l’utilizzo del software libero e aperto, ha scritto:
I dati di sorveglianza vengono sempre usati per altri scopi, anche se ciò è proibito. Una volta che i dati sono stati accumulati e lo stato ha la possibilità di accedervi, potrà abusarne in modi terribili. La sorveglianza totale, unita a una legislazione vaga, fornisce l’opportunità per una imponente spedizione di pesca verso qualunque obiettivo desiderato. Per mettere al sicuro il giornalismo e la democrazia, dobbiamo limitare l’accumulazione di dati facilmente accessibili allo Stato.
L'articolo di Stallman ha un titolo lungimirante: Quanta sorveglianza può sostenere una democrazia? È questa la domanda che dovremmo porci ed è a questo pericolo, l'indebolimento della democrazia, che le tante narrazioni della fantascienza sul tema ci hanno messo in guardia.
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