Come fu che salii sulla stazione spaziale internazionale Freedom3, alla rispettabile età di 74 anni? È presto detto. Mi aveva chiamato il Direttore per una proposta: — Vittorio — mi aveva detto — tu continui a lavorare per la Gazzetta del Meridione da quasi venticinque anni. Ti sei sempre occupato di fantascienza e nuove tecnologie. Bene. Cosa di più fantascientifico per te, se non fare un servizio stampa sulla Freedom3, alla tua età? Toccheresti con mano la tua fantascienza salendo a cinquecento chilometri di altezza! --- Non avevo saputo dire di no. Sarebbe stata una magnifica, inattesa conclusione della mia tardiva carriera di giornalista-scrittore. E l’idea mi metteva addosso un’energia che non provavo da tempo. Fu così che dopo una serie turbinosa di contatti, telefonate, appuntamenti, visite mediche specialistiche (tollerare l’accelerazione della partenza di un razzo, perdere parte del proprio peso, può non essere sopportabile per anziani), mi ritrovai a bordo di qualcosa che avevo conosciuto per la prima volta – ma in versione fantastica nei lontanissimi anni Cinquanta, appena quattordicenne, in un romanzo di Arthur C. Clarke: cioè mi ritrovai in una stazione spaziale orbitante. Il libro di Clarke si intitolava Isole in cielo e mi aveva fatto sognare per anni.Sulla Freedom3 fui ricevuto dal Comandante Isaac Chyalkovskij quasi in pompa magna. Sarei rimasto a bordo un paio di giorni: tempo necessario per le interviste e le visite, ma anche per smaltire lo stress del viaggio e abituarmi alla bassa forza di gravità sulla stazione. Vi risparmio una descrizione minuziosa della Freedom3, d’altronde in rete trovate sull’argomento anche i minimi dettagli: immagini, storia di come sia nata, le nazioni che hanno contribuito alla costruzione (l’Italia ne fa buona parte parte), e anche come questo gioiello spaziale sia in perenne perzionamento. E poi le ricerche e gli esperimenti fondamentali di fisica, chimica, astronomia che si svolgono a bordo e che non sarebbe possibile eseguire sulla Terra… E soprattutto troverete notizie della crescente, anzi imponente corrente turistica che anima la stazione con i suoi lussuosi, supertecnologici locali di divertimento. Ma no, non dirò altro su questo. Vi accennerò invece ciò che può comunicarvi l’essere qui, fisicamente.
Immaginate una enorme sala, alta quanto un palazzo a due piani con una parete-vetrata gigantesca. Il salone è buio tranne piccole luci alle mura, e oltre la vetrata (spessa tre centimetri a prova di piccole meteoriti) appare uno spettacolo incomparabile. Chi conosce le belle notti serene non ha idea di cosa sia il firmamento, visto dalla Freedom3, vivendoci, lontano da smog, inquinamento luminoso e senza il filtro opacizzante dell’atmosfera terrestre. Un cielo-tappeto nero come pece, fitto di punti colorati quasi accecanti. Vere pietre preziose, nubi di luce, diademi. La stazione ruota lentamente e il cielo si dipana come in un film.
Eravamo un centinaio in quella sala, inchiodati come statue a guardare un panorama irripetibile. Per imprimercelo bene nella memoria e nei sensi. Ma l’esperienza ancora più inattesa venne poco dopo. Avevo saputo che sulla Freedom stavano sorgendo, in alcuni vani, modeste chiese di varie confessioni: cattolica, maomettana, anglicana, un tempietto indù, un luogo di meditazione zen. E scoprii che il sacerdote officiante nella chiesetta cattolica era un pugliese, don Elvezio Guadalupi. Un prete nello spazio: benissimo! come giornalista, non poteva sfuggirmi.Don Elvezio mi ricevette subito dopo aver celebrato una messa. La chiesetta era un cubo metallico di circa 15 metri quadri, con un altare in acciaio stilizzato come una scultura astratta, essenziale, a mio parere molto bello. Le luci erano spente ma brillavano una diecina di autentiche candele (speciali). Oltre l’altare, un’altra vetrata si spalancava sullo spazio stellato. Nella penombra Don Elvezio mi disse bonariamente: — Vede? Sulla stazione ci troviamo “un gradino più in alto”, e perciò mi piace pensare d’essere un tantino tutti più prossimi al Cielo. Lo spazio interplanetario con la sua vastità, i suoi enigmi, possiede qualcosa che ci fa sentire più uniti come specie umana e più vicini al mistero della creazione. Anche chi non crede non può provare sensazioni intense, qui.
Ed era vero. Sono non credente, ma quei momenti furono per me una pausa di serenità e dolcezza meditativa che – cosa rara per me – riuscì a commuovermi, ma anche a far raccogliere le mie forze. Ne ringraziai don Elvezio. Stavo per congedarmi, ma il sacerdote mi bloccò: – Va via senza aver visto?
Dapprima non compresi. Mi accostai all’altare, esitante. Solo allora, quasi con un sobbalzo, mi resi conto. C’era il Crocifisso, ma poi qualcos’altro. Una statua in bronzo con dorature. Un vecchio scuro in viso, aureolato, con mantello, bastone ricurvo e… Inconfondibile!
— San Nicola! — esclamai stupefatto.— Già — disse don Elvezio. — La responsabilità, o il merito se preferisce, è mio. Sì, ho qualche conoscenza… Lei non sa quanto ho lavorato per edificare in cielo la prima chiesa cattolica, e ho voluto farlo portando nello spazio proprio lui… — Accennò alla statua. — Che ne pensa? È o non è un santo internazionale, rappresentativo? E guardi: in quella teca sono riuscito a trasferire un paio delle sue reliquie prelevate dalla Basilica di Bari. Una piccola seconda Traslazione, si potrebbe dire, dopo quella del lontanissimo 1087, quando baresi andarono con una nave a Mira in Asia Minore, e lottarono, anche contro i veneziani per il possesso delle ossa del Santo… e questa è tutta una storia a parte.
Se tutto qui ora mi meravigliava mi metteva anche allegria, nonostante la mia scarsissima frequentazione delle religioni. — Bene! — mi venne da celiare — D’altronde si dice che una delle caratteristiche del Santo sia giusto quella di amare i bambini e anche forestieri. Quassù il flusso dei visitatori da ogni zona della Terra sta diventando davvero consistente…
— Certo. Ma voglio dirle una cosa. — Don Elvezio aveva un sorrisetto enigmatico. — Nella Bibbia è scritto: “Molte sono le case del Signore”. Ed una interpretazione piuttosto recente di questa frase sibillina è che queste “case” possano essere anche altri pianeti. — No! — esclamai. — Lei si riferisce a… eventuali a exaterrestri?
— Sarebbe assurdo? — rispose don Elvezio. — Forestieri, vero? Chi sa dire cosa può accadere domani? — Sorrise… E girò il volto fissando stelle lontane.
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