Halgrath è un’artista musicale di San Pietroburgo. Le sue produzioni sono tappeti sonori di Ritual Dark Ambient, un genere musicale performato perlopiù tramite droni; l’artista nel volgere di circa dieci anni ha scritto un buon numero di album, dove il tempo e le suggestioni ispirano assimilazioni allo spazio profondo. O sembrano sorgere dalle profondità dell’anima stessa. Inner space & Outer space in chiave cosmica e trascendentale.
Sono le placide lande dell’interiorità, o le calme onde degli universi siderali, quelle che si sprigionano dall’ascolto della nuova raccolta Existence beyond the edge. È un assortimento pieno, esteso, nove brani che si allungano in un tempo canonico di 75 minuti, ma che soggettivamente sembrano dilatarsi oltre le pianure della psiche, attraverso le vicissitudini di un’interiorità che si prostra al cospetto dell’Assoluto: sono emozioni così poco umane da stringere dappresso il sensorio che definisce la nostra anima. L’artista di San Pietroburgo espande così la nostra coscienza attraverso sontuosi minimalismi sonori, si ha la netta sensazione interiore delle sterminate terre russe, Halgrath ce le mostra nella sua complessa interezza mentre divampano nell’oscurità artica per portare strali di altri mondi, di altre vitalità, inumane, compresse nel fondo della nostra consapevolezza da essere dimenticate e ora ricordate; ci si accorge del bisogno ancestrale di un respiro oscuro, sciamanico, matematico nella inconoscibile struttura dei multiversi spaziali, temporali, di chissà quale altra dimensione materica da noi soltanto vagamente idealizzata.
Nove brani, dicevo, nove perle di empatia cosmica come l’incedere lento di una nave siderale, esposta nella traccia d’inizio, The first movement in my life was love, e poi si sente una diffrazione d’echi da We are particles of the Universe, un momento mestamente dissonante, grandioso nel suo quasi silenzio spaziale.
La title track della raccolta ha al suo interno un cordone monomolecolare di grafene, splendido nel suo rilucere buio di fronte a soli alieni; esso ha la schiena dritta e ci permette di affrontare un viaggio eterno che nessuna delle nostre vite psichiche vedrà mai finire, ed è allora che l’Entropy of life ci distrugge e ci strugge di una liricità immane, ci narra degli orgogli della Grande Madre Russia pitturata dalle decine di sfumature che la neve assume in quelle terre remote, grigie, fredde, sciolte nel pianto della nullità empatica umana.
Il giro di boa, Descend to a stellar stratum, mi dà l’esatta sensazione di una macchia indelebile sul mio corpo psichico, di un peccato mortale che perpetuerà ogni mia azione futura o del passato; ma non posso rendermene conto appieno del disastro, è come se vedessi sotto di me un’esile trama di luci oscure, di piccoli fasci di laser colorati che ordiscono il tessuto della mia esistenza. Mi accorgo di essere l’esatto risultato del dolore, dell’errore, e m’identifico con la stessa melodia sospesa di Halgrath, la ringrazio per la sua chiarezza e annuisco mentre il movimento amniotico di me stesso mi rende mellifluo, mi porta a respirare Planetar meditation (breathing), la vibrazione della Terra che sembra essere il punto di approdo di tutto il vagare cosmico che mi ha sempre animato, deliziato, mostrato agli abissi della consapevolezza disincarnata dilaniante nella sua lancinante bellezza. Che cosa può esserci ancora oltre, cosa? Sono a casa, il viaggio è terminato ed è stato faticoso, tremendo, bellissimo, mi ha reso inerme per le tante lamelle emozionali conficcate nella carne eterea che siamo, ora…
Il rituale. Invece c’è ancora quello da esplorare; il rituale degli sciamani siberiani che collegano gli abissi siderali dello spaziotempo con le voragini percepibili della nostra anima: Confluence ritual ci attende, con il senso del tribale, con la necessità di muoverci a tempo perché siamo ora incarnati, pienamente incarnati, ma memori delle profondità spaziali, ancora abbacinati da esse, ancora grati per tutto quello che siamo stati da disincarnati.
Infine, Unknow sector, per riprendere il viaggio con la duplice consapevolezza dell’incarnazione e dell’etereo, con i suoni che divengono lessico da possedere ed esprimere con le melodie inumane, con i linguaggi siderali che contengono il codice dell’essenza consapevole, indistruttibile, superiore. E poi Withdrawn mind, il degno finale, il disegno delle placide pianure siderali che tornano a scuotere i nostri sensi, non più ignari come lo erano all’inizio del viaggio ma pregni di sensazioni definitivamente inumane, a indicare che il percorso fornito dall’artista russa si è completato proprio come si prospettava, con quel suo manifesto d’intenti che ci voleva portare nell’esistenza oltre il bordo, e che proprio ciò ha fatto dopo averci emozionato fin nelle corde più profonde del nostro animo, mostrando gli altopiani alieni di mondi impensabili, gassosi, energetici, invisibili e per questo pieni di poesia inumana.
Il cielo e lo Spazio e la nostra anima sono fuse insieme, un corpo unico, un’unica sensazione, una visione olografica che ha ampliato il parametro del nostro tempo portandolo alle dimensioni degli eoni, facendoci così amare profondamento gli sterminati spazi siderali, infiniti per la nostra misera incarnata finitezza sensoriale e psichica.
Gli abissi sono staticamente pronti da sempre, per noi. Veniamo proprio da lì, non dimentichiamolo mai.
Si acquista qui: https://halgrath.bandcamp.com/yum
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