Hollywood non ama particolarmente le sfide aperte, preferisce andare sul sicuro. Riportare al cinema un titolo che alla sua uscita lasciò i produttori in cattive acque, per quanto poi col tempo abbia finito per attestarsi come caposaldo imprescindibile, non era di certo quella che può definirsi una scommessa facile. Per questo nel 2011 in molti, tra semplici appassionati e addetti ai lavori, avevamo accolto con un certo scetticismo la notizia che i diritti di Blade Runner erano stati rilevati per una somma imprecisata dalla Alcon Entertainment, in circolazione da una quindicina d’anni e, se si eccettua Insomnia (remake di un film norvegese affidato a un promettente regista anglo-americano, che sarebbe diventato il banco di prova per saggiare le future ambizioni di Christopher Nolan), mai coinvolta fino ad allora in produzioni degne di nota.
D’altronde era risaputo come Ridley Scott avesse sempre tenuto la porta aperta per un eventuale seguito, ma i suoi piani più o meno vaghi si erano andati a scontrare ogni volta contro difficoltà produttive, sovrapposizioni d’impegni e, last but not least, inestricabili nodi legali sui diritti, come nel caso dell’annunciata webseries prequel Purefold, sviluppata con il fratello Tony Scott e poi congelata a tempo indeterminato. È innegabile che la prospettiva di un possibile ritorno all’universo narrativo di Blade Runner abbia sempre solleticato anche la fantasia degli appassionati oltre a quella del suo creatore, ma in pochi sarebbero stati disposti a scommettere qualcosa sui piani di rilancio della Alcon. E invece in questi anni la casa di produzione di Broderick Johnson e Andrew A. Kosove non solo è riuscita ad assemblare una squadra produttiva di prim’ordine, coinvolgendo Columbia Pictures, Thunderbird Films e Scott Free Productions, per raccogliere il budget più alto della sua storia (ben 150 milioni di dollari, che secondo alcune fonti potrebbero invece essere stati addirittura 185), ma con la benedizione di Ridley Scott ha saputo anche assicurarsi il talento di uno dei più apprezzati cineasti in circolazione, il canadese Denis Villeneuve, reduce dal successo di Arrival (2016) e autore di piccoli grandi capolavori come La donna che canta (2010), Prisoners (2013), Enemy (2013) e Sicario (2015).
Con lui la Alcon ha ingaggiato professionisti di prim’ordine, il cui apporto sarebbe stato non meno importante o decisivo nella riuscita dell’operazione. A cominciare dallo sceneggiatore Michael Green (arruolato nel 2013, quando aveva all’attivo solo il copione di Green Lantern, nel frattempo ha visto realizzarsi altre due sceneggiature di un certo prestigio, per l’acclamato ritorno di Wolverine in Logan e per il nuovo adattamento di Assassinio sull’Orient Express firmato da Kenneth Branagh, senza dimenticare il suo ruolo di produttore e showrunner di American Gods, tratto dal romanzo di Neil Gaiman), che è andato ad affiancare Hampton Fancher, l’uomo che per primo colse le potenzialità cinematografiche di un romanzo di fantascienza intitolato Do Androids Dream of Electric Sheep?; per proseguire con Joe Walker (Blackhat, Arrival) al montaggio e Dennis Gassner (recentemente al servizio del nuovo corso di 007) alla scenografia; e per finire con la fotografia di Roger Deakins, plurinominato all’Oscar e punto di riferimento per i fratelli Coen, che è qui già alla terza collaborazione con Villeneuve dopo Prisoners e Sicario. Dell’esito artistico dei relativi contributi abbiamo già parlato diffusamente nella recensione apparsa su queste stesse pagine (http://www.fantascienza.com/22901/blade-runner-2049), quindi non ci dilungheremo oltre.
Il lettore che ha avuto pazienza di arrivare fin qui ci perdonerà di esserci dilungati sui retroscena, ma per un’operazione come questa le vicissitudini produttive non rappresentano un semplice corollario da ridimensionare al rango di curiosità, come d’altro canto insegnano anche le traversie in cui incorse la realizzazione di Blade Runner (si veda a questo proposito l’ottimo libro di Paul M. Sammon Blade Runner. Storia di un mito, purtroppo non più in catalogo, ma sarebbe ora che qualche editore si decidesse a riproporlo ai lettori italiani). Il processo di costruzione di Blade Runner 2049, come dimostra la sua trama stratificata, ricca di rimandi al capolavoro di Ridley Scott, rispecchia la necessità di fare i conti con un rompicapo matematico: riprodurre quel mix di stupore e malinconia, di meraviglia e inquietudine, di speranza e dannazione, di riscatto e castigo, che ha reso Blade Runner un’opera unica nel panorama cinematografico mondiale. Il risultato finale omaggia nella misura giusta il precursore e allo stesso tempo dischiude allo sguardo dello spettatore e dell’appassionato nuovi orizzonti, il tutto con uno sforzo immaginifico che riesce a reinventare l’estetica di Blade Runner tenendosi paradossalmente fedele all’originale.
2019-2049: le cicatrici del futuro
Trent’anni non sono passati invano. Il mondo del 2049 che ci viene presentato appare fin da subito come una credibile derivazione del 2019 impresso indelebilmente nella nostra memoria di spettatori e appassionati, ma è anche il prodotto di una netta discontinuità che, se vogliamo, riprende anche molti dei nostri attuali motivi di preoccupazione.
Il tempo trascorso dal 1982 ha infatti comportato un graduale slittamento della distopia di Ridley Scott nei territori dell’ucronia, o se vogliamo della discronia, aggiungendo straniamento a straniamento: il Giappone non ha soggiogato il mondo e nemmeno la West Coast e, anche se mancano meno di due anni alla data fatale, la robotica comincia sì a muovere i primi passi, così come il dibattito sull’intelligenza artificiale tiene banco sulle pagine dedicate a scienza e tecnologia, e magari la scalata alla frontiera spaziale inizia pure a essere tentata da imprese private disposte ad annunciare lo sbarco su Marte entro il prossimo decennio, ma non c’è purtroppo traccia dei replicanti “più umani dell’umano”, né di colonie spaziali pronte ad accogliere l’esodo dei terrestri in fuga da un pianeta al collasso. Non era insomma esente da rischi l’idea di sviluppare un mondo che in molti avrebbero potuto cogliere come già superato, o comunque contraddetto dai fatti. Ma né i produttori né Denis Villeneuve si sono lasciati scoraggiare e in qualche modo Blade Runner 2049 ha saputo costruire un nuovo futuro sulle fondazioni del vecchio futuro immaginato da Scott.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo ai primi anni successivi agli eventi raccontati in Blade Runner. Lo spartiacque tra le due epoche è rappresentato dall’evento noto come Black Out. All’inizio degli anni ’20, dopo la morte di Eldon Tyrell (Joe Turkel), la Tyrell Corporation mise in produzione un nuovo modello di replicante: se i Nexus 6 avevano una vita limitata alla durata di soli quattro anni, i Nexus 8 avevano una durata illimitata e venivano identificati da un codice impresso sui loro impianti oculari. Ancora in lotta per vedersi riconoscere parità di diritti con gli esseri umani, i replicanti finirono tuttavia per scatenare una violenta ondata di attacchi terroristici, che culminarono nel Black Out, un impulso magnetico che cancellò tutti i database in cui erano archiviate le informazioni sulla loro identità (come sono andati i fatti è raccontato nel corto animato Blade Runner Black Out 2022, scritto e diretto dal grande Shinichiro Watanabe, già creatore della mitica serie Cowboy Bebop). Le autorità misero quindi al bando la produzione dei replicanti, provocando il collasso del già traballante impero economico della Tyrell Corporation.
Quando i vecchi imperi crollano, nuovi imperi si affermano per riempirne il vuoto. Niander Wallace (Jared Leto) è uno dei nuovi signori di questo mondo, che ha raccolto l’eredità di Eldon Tyrell. Dopo essere riuscito con la sua Wallace Corporation a risolvere il problema mondiale della crisi alimentare attraverso un innovativo sistema di produzione artificiale delle proteine, Wallace rilevò i brevetti della Tyrell ormai in bancarotta e intraprese la sperimentazione per il perfezionamento degli impianti di memoria. Nel 2036, presentando ai legislatori il suo nuovo modello di replicante, leale, obbediente e facilmente controllabile, Niander Wallace riuscì a ottenere la revoca del divieto di produzione e mise sul mercato i nuovi Nexus 9 per assecondare lo sforzo dell’umanità nella colonizzazione spaziale.
I Nexus 9 sono affidabili a tal punto che gli viene consentito anche di vivere e operare sulla Terra, al servizio delle autorità. L’agente K (Ryan Gosling) è uno di loro e lavora per conto del Los Angeles Police Department, con l’incarico di ritirare i vecchi 6 e 8 ribelli, che per tutta la durata del divieto si sono dati alla clandestinità e che cercano di sopravvivere sotto copertura. È lui il protagonista al cui fianco esploriamo questo mondo, un mondo che non nasconde i punti di contatto con quello noto allo spettatore, ma che riserva anche diverse sorprese.
Tutto il lavoro di world-building alle spalle di Blade Runner 2049 sembra giocato sul filo sottile di questo equilibrio: il richiamo di echi familiari all’appassionato e la costruzione di qualcosa di completamente diverso. Se davanti alle città assediate dai rifiuti e alle campagne destinate alle colture sintetiche lo spettatore può provare un senso di “allargamento” della visuale, abbracciando finalmente quei dettagli che rimanevano fuori dalla messa a fuoco di Blade Runner, al cospetto delle immense centrali solari termoelettriche che suppliscono all’esaurimento dei combustibili fossili, come pure delle imponenti muraglie erette per contenere l’innalzamento delle acque in seguito ai cataclismi comportati dal cambiamento climatico, non può non provare un senso di profondità esaltato dalla grandiosità della prospettiva. Alle lingue di fuoco che rischiaravano la notte sul panorama infernale di Torrance ed El Segundo, la periferia industriale di Los Angeles, Villeneuve sostituisce l’apertura delle chiuse della diga che risparmia l’agglomerato urbano e i suoi abitanti dalla furia dell’oceano.
E così non è difficile riconoscere le stigmate della vecchia epoca nelle ferite del nuovo mondo.
Philip K. Dick all’ennesima potenza
L’opportunità di riprendere la storia di Blade Runner in un sequel sembra essere stata colta dalla produzione anche per operare un ulteriore recupero dickiano, inteso sia come tematiche che come sensibilità. Infatti cosa c’è di più dickiano dell’inutile ricerca di una verità incapace di rivelarsi davvero ultima, o di una realtà che slitta in continuazione intorno al protagonista promettendogli punti di riferimento che poi finisce puntualmente per togliergli quando più ne avrebbe bisogno?
L’agente K è un replicante e questo lo scopriamo nel corso della primissima scena, in occasione del confronto/scontro verbale/fisico con il replicante Sapper Morton (Dave Bautista). Ma proprio dopo aver ritirato il ricercato, K scopre una cassa militare seppellita ai piedi di un albero rinsecchito davanti all’ultimo rifugio della preda. La cassa contiene i resti di una donna morta durante il parto. Ma da subito risulta chiaro che non si tratta di una donna qualunque: sulle sue ossa viene infatti individuato un codice, dal quale K riesce a risalire – grazie a ciò che rimane degli archivi della Tyrell – a un vecchio Nexus fuggito da Los Angeles nel 2019. La donna si chiamava Rachael e, a quanto pare, la data della sua morte è ben nota al blade runner, che ricorda di averla vista incisa sulla base di un cavalluccio di legno che rappresenta una delle poche memorie della sua infanzia.
Esaminando il DNA della donna negli archivi genetici, l’agente K scopre una duplice corrispondenza. Sembrerebbe quindi che Rachael sia morta per le complicazioni legate a un parto gemellare. Il problema è che i due gemelli, un maschio e una femmina (che risulta a sua volta deceduta), non possono condividere lo stesso codice genetico. Dai registri K riesce a risalire all’orfanotrofio a cui venne affidato il neonato sopravvissuto, ma recatosi sul posto non riesce a trovare nessun elemento utile alle sue indagini: qualcuno è stato lì prima di lui e ha fatto sparire le informazioni risalenti a quel periodo. K ritrova però il cavalluccio di legno nello stesso identico posto che ricordava. Quando gli viene confermato dalla dottoressa Ana Stelline (Carla Juri), una specialista che lavora per Wallace, che il suo ricordo è originale, mentre ai replicanti dovrebbero essere impiantate solo false memorie, K si convince di essere lui stesso il bambino dato alla luce da Rachael.
La scoperta completa la prima crisi esistenziale del protagonista, che vede crollare tutte le sue certezze. È una scelta interessante della produzione, del regista e degli sceneggiatori in particolare, che l’innesco di questa presa di coscienza abbia luogo nel mezzo di una San Diego devastata, ridotta a un’immensa discarica urbana in cui il lettore di Philip K. Dick non può non riconoscere un omaggio al kipple (talvolta tradotto in italiano come “palta”). Come spiega nel romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? (Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, traduzione di Riccardo Duranti, Fanucci Editore) J.R. Isidore, lo “speciale” che fungerà da stampo per il J.F. Sebastian interpretato da William Sanderson nella pellicola di Ridley Scott, alla replicante Pris Stratton (nel film interpretata da Daryl Hannah):
«[…] La palta è fatta di oggetti inutili, inservibili, come la pubblicità che arriva per posta, o le scatole di fiammiferi dopo che hai usato l’ultimo, o gli involucri delle caramelle o l’omeogiornale del giorno prima. Quando non c’è più nessuno a controllarla, la palta si riproduce. Per esempio, se quando si va a letto si lascia un po’ di palta in giro per l’appartamento, quando ci si alza il mattino dopo se ne ritrova il doppio. Cresce, continua a crescere, non smette mai.»
La palta (il kipple) diventa così una metafora per l’entropia a cui è destinato ogni processo, biologico, fisico o sociale, dall’evoluzione delle organizzazioni politiche alla morte termica dell’universo, ed è l’ombra lunga che incombe sulle vicende dei personaggi del romanzo, la presenza scomoda che ricorda al protagonista quanto inutile sia qualsiasi tentativo di resistenza o ribellione all’ordine naturale delle cose.
Nell’orfanotrofio di Blade Runner 2049, dickensianamente trasposto in un sistema organizzato di sfruttamento della manodopera dei minori che dovrebbe ospitare e tutelare, l’agente K trova una tessera fondamentale del mosaico che sta cercando di ricostruire. Ma come accade sempre in Dick, la rivelazione che lo sorprende di lì a poco è solo un’illusione, dietro cui si cela un inganno ben più grande: il nostro bisogno umano – e in questo ecco il replicante che comunque si dimostra all’altezza dei propri costruttori – di sentirci “speciali”, ma non nel senso del romanzo di Dick e del povero Isidore, inteso come umano difettoso e per questo inadatto al reclutamento per il programma spaziale, bensì in quello di essere davvero unici, di eccezionalità di cui essere fieri, di singolarità da valorizzare.
È la seconda crisi che mette in dubbio ancora una volta le certezze che ci siamo faticosamente costruiti, e arriva in un momento in cui ci siamo inevitabilmente già posti una domanda che a questo punto si dimostra superata, ma che nondimeno continuerà ad accompagnarci fino all’ultimo fotogramma: siamo davvero ciò che ci comunicano i nostri ricordi, ciò che tratteniamo dell’inesorabile scorrere del tempo? O non siamo piuttosto ciò che abbiamo dimenticato lungo la strada, ciò che sapevamo un tempo e che poi abbiamo rimosso, affidandolo volontariamente o inconsciamente al placido ristoro dell’oblio?
Ritroviamo molto Dick anche nel personaggio di Niander Wallace, la naturale evoluzione di tante figure di tech titan oggi in circolazione, che sposa con le ossessioni faustiane sia il carisma quasi misticheggiante di Elon Musk che le ambizioni di Yuri Milner o Jeff Bezos (comunque non superiori a quelle totalizzanti dello stesso Musk): un egocentrico che sogna di sostenere la scalata dell’umanità alle stelle servendosi per lo scopo di un adeguato numero di schiavi. Schiavi che non possono che rispondere al profilo dei replicanti, la classe operaia del futuro. Come Blade Runner recava tracce nascoste di un altro grande romanzo di Dick (si scorgevano tracce delle inquietudini de La svastica sul sole dietro l’ambientazione orientaleggiante della Los Angeles del 2019), così qui ritroviamo i segni di almeno un altro paio di titoli dell’autore californiano. A cominciare da Un oscuro scrutare, con il poliziotto infiltrato che perde contatto con la realtà e con la propria identità, così come succede – da una prospettiva invertita – all’agente K. Ma lo stesso Niander Wallace, che nelle intenzioni di partenza di Villeneuve avrebbe dovuto essere interpretato dal compianto David Bowie, è a sua volta una ripresa dello spietato uomo d’affari eponimo de Le tre stimmate di Palmer Eldtrich: come Palmer Eldritch, Wallace reca le stigmate di un’umanità ibrida, essendo di fatto un cyborg; come Palmer Eldritch, Wallace è intenzionato a piegare la realtà alla proprio volontà.
Costi quel che costi.
Un sogno dentro un sogno dentro un sogno
In una versione preliminare del film, come ha dichiarato recentemente il direttore del montaggio Joe Walker, il lungometraggio durava più di quattro ore e Villeneuve aveva quindi considerato la possibilità di dividere il film, almeno idealmente, in due parti. Scartata l’ipotesi di assegnare un titolo a ciascun capitolo, è stata operata una scelta certosina delle scene da sacrificare, ma anche così la pellicola conserva un’andatura lenta, che trasmette un senso quasi di fatalità, oltre che di sospensione onirica.
E in effetti lo stesso Walker ha confermato in tal senso il ruolo allegorico di quei dettagli degli occhi che scrutano il mondo del futuro, e che ovviamente omaggiano la leggendaria sequenza di apertura del film di Scott. Lì l’occhio sembrava rimandare a una sorta di dittatura dell’immagine, suggerendo una riflessione metatestuale sul cinema stesso e sullo show business, ma assolveva comunque a una funzione drammatica in risonanza tra due piani narrativi: quello della ricerca della verità del cacciatore di replicanti e quello della vera natura dei soggetti sospettati di essere dei replicanti, riconosciuti attraverso il cosiddetto test Voight-Kampff, ideato per misurare la risposta empatica a una serie di situazioni ipotetiche attraverso le reazioni proprio dell’occhio (fluttuazione della pupilla, dilatazione dell’iride, responso rossore). Adesso, se da una parte viene recuperata la funzione narrativa dell’occhio (i Nexus 8 vengono identificati da un codice impresso alla base del bulbo oculare, che i blade runner espiantano dal cadavere per operarne il riconoscimento), dall’altra viene anche aggiunto un ulteriore livello simbolico: l’occhio che si apre sulle desolate distese rurali che alternano colture sintetiche e specchi solari anticipa l’inizio del percorso che condurrà l’agente K alla prima delle scoperte in grado di destabilizzare il suo mondo; l’occhio che si apre sulla città di notte, uno sterminato e caotico palcoscenico su cui va in onda senza interruzioni la danza degli ologrammi, anticipa la seconda, ancora più dolorosa, presa di coscienza di K.
Dalla rivelazione alla disillusione, l’occhio segna l’inizio di ciascuna delle due parti in cui Blade Runner 2049 è ancora idealmente diviso e rimanda direttamente al risveglio. Che, in un modo che sarebbe forse piaciuto a Dick, cultore delle dottrine riconducibili allo gnosticismo, richiama anche il risveglio dall’oblio, con il tema dell’anámnèsis che attraversa una parte cospicua della sua produzione.
Il mondo in un origami
Oltre al kipple, un altro elemento originale del romanzo di Dick andato perduto nell’adattamento cinematografico di Ridley Scott è la riflessione sulla religione, che nella declinazione di Do Androids Dream of Electric Sheep?, attraverso il culto mistico di Mercer, aggiunge uno strato ulteriore alle considerazioni dell’autore sul ruolo dell’empatia nella definizione dell’umanità. Ma a differenza del kipple, il sottotesto mistico-religioso era stato in qualche modo già recuperato da Scott in tutta una serie di dettagli che echeggiano sia le scritture che l’iconografia legate alla tradizione ebraico-cristiana.
I Nexus 6, rei di essere “più umani dell’umani”, scontavano il loro peccato originale nella condanna di poter vivere al massimo quattro anni. Il loro creatore, Eldon Tyrell, viveva isolato sulla sommità di una piramide che avrebbe potuto essere la montagna del purgatorio, l’unico posto della città in cui era ancora possibile vedere la luce del sole, mentre la sconfinata bolgia metropolitana di Los Angeles che si estendeva ai suoi piedi era relegata in una notte senza fine, schiacciata sotto la piaga eterna di un diluvio universale.
E se Blade Runner si concludeva con l’atto di pietà di Roy Batty (Rutger Hauer, immenso) che, dopo aver capovolto i ruoli della caccia ai danni del carnefice Deckard, gli dimostrava salvandogli la vita di essere davvero “più umano degli umani”, arrivando a provare – o almeno imitare, ma se l’effetto è questo, fa davvero differenza? – la stessa empatia degli esseri umani, in Blade Runner 2049 si passa dal sacrificio a un altro tema caro alla cristianità: la narrazione della Natività. Il sottotesto salvifico che già era facilmente riconoscibile nel Cristo folle e furioso interpretato da Roy Batty viene così recuperato e riportato alle origini, facendo un punto zero che potrebbe significare molto per l’eventuale continuazione, espansione e sviluppo della serie. Inoltre, così come suggerivano Hampton Fancher e David Webb Peoples nella sceneggiatura originale, rifacendosi a una tradizione letteraria che da William Blake risale a John Milton, anche qui i replicanti vengono assimilati a degli angeli da parte di Niander Wallace – non più caduti o ribelli, ma angeli in catene sulle cui spalle costruire il futuro dell’uomo nello spazio.
Con questa tematica, Villeneuve rilancia anche il conflitto tra umani e replicanti in termini di lotta di classe, punto di vista comunque già presente nel capolavoro del 1982 (http://www.fantascienza.com/10123/blade-runner-e-la-mitologia-del-nuovo-millennio). Qui il discorso abbraccia anche un movimento clandestino che ricorda molto la Underground Railroad, ovvero la rete segreta allestita nell’800 dagli abolizionisti per permettere agli schiavi in fuga dal sud di riparare negli stati liberi, in Canada o in Messico. E questo movimento per la liberazione dei replicanti sembra destinato a giocare un ruolo di primo piano negli – ancora ipotetici – sviluppi futuri.
Nella definizione dei personaggi, è stato fatto spesso notare come i nuovi non siano a loro volta che delle riproposizioni/rielaborazioni dei vecchi archetipi a cui eravamo affezionati. In maniera schematica, è fin troppo facile tracciare una corrispondenza tra i due cast:
Eldon Tyrell (Joe Turkel) Niander Wallace (Jared Leto)
Harry Bryant (M. Emmet Walsh) Madame Tenente Joshi (Robin Wright)
Deckard (Harrison Ford) K (Ryan Gosling)
Leon (Brion James) Sapper Morton (Dave Bautista)
Pris (Daryl Hannah) Mariette (Mackenzie Davis)
Zhora (Joanna Cassidy) + Roy Batty (Rutger Hauer) Luv (Sylvia Hoeks)
Rachael (Sean Young) Joi (Ana de Armas)
Le somiglianze si spingono dall’aspetto fisico (Mackenzie Davis potrebbe essere il Nexus 8 di Pris) al ruolo (la donna artificiale, lì era Rachael, qui Joi; il magnate, Wallace è la versione 2.0 di Tyrell; l’avversario provvisto di una personale ossessione, Roy Batty per la libertà sua e dei suoi simili, Luv per “stupire” e in qualche modo dimostrarsi all’altezza delle aspettative del suo creatore Wallace). Nel coro di lodi che ha accompagnato l’uscita di Blade Runner 2049, alcune non brillando certo per acume critico, sono spiccate le voci contrarie: si è parlato, con altrettanta facilità di giudizio, di “cinema replicante” e a corto di idee, condannato a ripetersi per l’eternità in una giostra programmata per ripescare il meglio dalle annate migliori della storia della settima arte.
Secondo chi scrive il film non è esente da difetti: nonostante i tagli effettuati rispetto al montaggio preliminare, un paio di scene risultano ancora – inutilmente – troppo lunghe e ci sono una situazione o due che avrebbero potuto essere gestite in maniera diversa, forse anche per facilitare allo spettatore la comprensione degli eventi. Ma nel bilancio complessivo sono difetti che rimpiccioliscono, come nei che mettono in risalto la perfezione di tutto il resto. E tutto il resto, sia sul piano tecnico che artistico, non è meno che perfetto, come se Blade Runner 2049 fosse riuscito anche ad assimilare il nuovo slancio prometeico dei suoi replicanti.
Blade Runner fu un film in anticipo sui tempi, e anche questo non giovò alla sua fortuna commerciale. Ma la sua carica iconografica, la sua solidità stilistica, la sua rilevanza su temi divenuti nel volgere di qualche anno di attualità scottante (bioetica e cambiamento climatico, per dirne soltanto due) ne hanno determinato la persistenza. Nessun altro prodotto contribuì all’affermazione di estetica e tematiche cyberpunk come la pellicola di Ridley Scott, spianando la strada ai lavori di William Gibson e Bruce Sterling e inaugurando una nuova stagione nella storia della fantascienza. Con il suo mix di atmosfere retrò e dilemmi bioetici, la commistione dei generi (il noir e la fantascienza, al punto da giustificare l’ideazione della formula future noir, ma anche il romance e l’horror), l’intersezione tra cultura popolare e immaginario hi-tech, Blade Runner impose un canone che arriva fino a noi, nei film, nella letteratura, nei fumetti, nella musica e nella moda. Blade Runner è un’opera figlia del suo tempo ma in grado di esprimersi con autorevolezza allora come oggi.
È facile immaginare in quante trappole e tranelli, in quanti ostacoli, avrebbe potuto inciampare un progetto destinato a far rivivere un’opera di simile grandezza. Blade Runner 2049 non è un film meno autoriale della pellicola di Scott, né meno complesso. Forse decide di rinunciare a una certa ambizione, ma sembra farlo con una consapevolezza a cui non si può non plaudire: è un po’ il marchio di fabbrica di Denis Villeneuve, che preferisce essere concreto ed essenziale laddove invece l’altro gigante di questi anni, Christopher Nolan, non sa essere meno che epico e monumentale. È un film anche molto malinconico, come avrebbe dovuto essere, ma tutt’altro che nostalgico, perché ha il coraggio di guardare avanti e di scrutare in alto, verso le stelle. Dove speriamo che ci conduca la prossima istanza, magari senza farci aspettare altri trentacinque anni.
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