Amici per la pelle (rugosa) di E.T., infatueighties della fantascienza, popolo dei dungeon: molti di noi si sono lasciati andare in questo caldo abbraccio vintage made in Netflix. Sì è vero, non ci sono cose veramente strane (nel senso di originali) in questo Stranger Things ideato dai fratelli Matt e Ross Duffer. Difficile parlare di innovazione quando il plot prevede una storia di amicizia tra ragazzini in un piccolo paesino del midwest statunitense negli anni Ottanta. A Hawkins, Indiana, scompare il piccolo Will Byers e, allo stesso tempo, appare una misteriosa bambina di nome Undici caratterizzata come se fosse un’aliena. Scappata da un misterioso laboratorio, Undici viene adottata (per così dire) dagli amici di Will e prenderà parte alla ricerca dello scomparso. Non prima di aver esplorato un po’ il mondo con uno sguardo che incorpora l’affascinante ingenuità dell’E.T. di Steven Spielberg. Quale dei due “alieni” è più buffo con una parrucca bionda? Quale dei due travestimenti è più incongruo rispetto al contesto drammatico in via di svolgimento?
Ecco la ricetta di Stranger Things: vitalità postmoderna, commistioni pop e citazionismo febbrile. Le pareti delle camerette dei protagonisti non sono abbastanza ampie per esibire tutti i poster che omaggiano le influenze linkate da Stranger Things. Piaccia o no, questo carico di rimandi ha sbancato il botteghino televisivo (non esiste niente del genere ma ci torneremo più avanti). Com’è possibile questo successo quando esiste un’offerta di serie tv così paffuta? Davvero c’è spazio per un racconto che conta così tanto sul supporto sentimentale di quelli che sono cresciuti a pane e John Carpenter? Tra l’altro nella biografia dei suddetti showrunners c’è poco degli anni Ottanta visto che sono cresciuti nei Novanta. Eppure un 95% su Rotten Tomatoes e un 9,0/10 su Imdb sono indici molto lusinghieri. E qui viene da chiedersi: che fine hanno fatto (o cosa ne pensano) i millennials? In fondo il caso Stranger Things suscita un po’ di domande attorno all’identikit di chi guarda serie tv oggi. Qui proviamo ad abbozzare un’analisi, ma ci sarebbe molto da approfondire.
Netflix non fornisce statistiche relative alle visioni sulla piattaforma e questo pone più generali problemi di misurazione nell’epoca dell’audiovisivo fruito via streaming. C’è l’evidenza di una popolarità rappresentata dal volume di conversazioni sui social network e dalla cornucopia di recensioni proposte da praticamente tutte le testate che si occupano di spettacolo. In mancanza di rating o statistiche oggettive anche la pubblicazione di saggi su tematiche incrociate dal serial costituiscono una testimonianza di successo. Lo stesso vale per l’incredibile mole di byte occupati da GIF, generatori di GIF e meme a tema Stranger Things. Insomma sembra quasi che in questa strana epoca di visioni frammentate, ubique e oblique il successo di un serial sia misurabile solo in termini di visibilità del brand, di operazioni trans-mediali, di presenze alle feste dei cosplayer.
I numeri non sono più quelli di una volta. Ma nonostante queste incertezze, pare che gli executive americani abbiano sempre le idee chiare prima del lancio di un nuovo prodotto. Nella sua fase di gestazione il progetto Stranger Things suona proprio strano agli studios. Il nucleo del plot è la scomparsa di un bambino presumibilmente in balia di un terrificante mostro senza occhi e gli amici del bambino sono i protagonisti. Il punto è che i network che producono serie tv non sono canali per bambini e un Alien ambientato in un paesino di provincia si presenta chiaramente come un prodotto per adulti. Nel corso dei numerosi rifiuti, i Duffer hanno collezionato tanti consigli tra cui quello di far risaltare le indagini sovrannaturali del detective Hopper (quello che tutto sommato si presenta come l’unico carattere adulto nella serie). Ma così si sarebbe perso il fascino della soggettiva psicologica dei protagonisti preadolescenti e quelle particolari sfumature emotive inserite in un contesto horror/sci-fi. Si sarebbe perso quel senso di infanzia che può finire da un momento all’altro.
I fratelli Duffer si meritano ogni oncia del successo di Stranger Things perché hanno tenuto duro proteggendo il nucleo emotivo della storia. Ma è probabile che in corso di scrittura si siano resi conto che proprio amplificando quanto più possibile la resurrezione degli anni Ottanta si poteva lavorare una carrozzeria seducente per il target dei trenta-quaranta-cinquantenni. Del resto un network smart come Netflix deve necessariamente caratterizzarsi tenendosi lontano dalle ricette per-tutta-la-famiglia ABC oppure dai terrificanti polpettoni teen concepiti in casa The CW (CBS e Warner che uniscono i cervelli). Da notare che Stranger Things deve trovare posto accanto ad altre serie Netflix ormai di culto quali House of Cards, Narcos e Orange Is the New Black: show dal target non proprio generalista.
La scintillante collana di citazioni non si posa sul collo di un gelido manichino. I portali della curiosità, le soglie continuamente varcate in Stranger Things parlano di un incanto, di una ingenuità infantile che è continuamente minacciata dalla morte. Una morte lovecraftianamente intesa non come semplice fine di un individuo ma come fine di tutto il nostro universo così inadeguato ad arginare il caos selvaggio prospettato nel Sottosopra. Il nostro mondo appare debole, disorganizzato, pieno di esitazioni, bizzarrie emotive, barriere comunicative. Sono pareti che separano generazioni che non si capiscono, individui che vorrebbero parlarsi ma non ci riescono, nostalgie culturali, playlist musicali inconciliabili. Quando si crea una breccia tra universi che fino a ieri si sfioravano senza toccarsi, quando viene liberato il mostro, il nostro mondo, che ci siano o meno adulti o soldati armati, sembra destinato ad avere la peggio.
La notte, il fitto del bosco, l’opacità delle pareti, l’oscurità del subconscio, la minacciosità di ciò che non si conosce: tutti elementi essenziali nell’iconografia rilanciata da Stranger Things. A Hawkins gli ambienti attorno cui ruota la vicenda sono essenzialmente due sotterranei: la cantinola dove il gruppo di ragazzini gioca a Dungeons & Dragons e nasconde Undici; i laboratori paragovernativi dove viene liberato il mostro e probabilmente aperto un varco interdimensionale. Sono entrambi microcosmi chiusi, protetti dallo sguardo esterno. In questi ambienti vengono sollecitate vertigini inconfessabili sull’orlo di vari abissi. A ben vedere il protagonista infantile rende ancora più spaventoso il realismo magico cercato dai fratelli Duffer. Sganciare il tipico mostro fantasy o il lupo della fabula da origini spirituali o religiose trasporta l’elemento sovrannaturale in un territorio più familiare ai nerd appassionati di scienza e fantascienza. Cosa diamine vuole quel ragazzino che telefona al suo prof di scienze alle dieci di un sabato sera per farsi spiegare la ricetta per una vasca di deprivazione sensoriale? Cosa succede veramente all’elettricità durante un blackout? Possibile dare una forma biologica al male o alla malattia mentale?
Il tentativo di assumere uno sguardo scientifico e lucido sui fatti non fa che aumentare l’inquietudine della suggestione lovecraftiana. La visione di Undici ci mostra un universo indifferente alla vita, dove si affermano solo le creature pronte ad una cieca lotta per la sopravvivenza. Non a caso il Demogorgone non ha occhi. E non a caso la dimensione del Sottosopra ci appare come se il nostro universo fosse stato sommerso da una profondità oceanica rischiarata da un lontanissimo e fioco bagliore. È un universo parallelo o il nostro prossimo futuro? In Le montagne della follia, H. P. Lovecraft chiarisce bene la sua posizione: «La razza umana scomparirà. Altre razze appariranno e si estingueranno a loro volta. Il cielo diventerà gelido e vuoto, attraversato dalla debole luce di stelle morenti. Che a loro volta scompariranno. Tutto scomparirà. E ciò che fanno le persone non ha più senso del moto casuale delle particelle elementari.» L’habitat del Demogorgone è un incubo suboceanico dove la natura è talmente violenta che solo particelle elementari possono vivere tranquille fluttuando a caso.
Le antitesi chiamate in ballo sono dunque: vita/morte, bambino/adulto, magia/scienza. E non è quasi mai chiaro quale dei due poli abbia una valenza positiva. Da una parte gli sviluppi narrativi giocano continuamente sulla sospensione tra racconto di magia sovrannaturale e storia di una tecnologia che sfugge al controllo. Dall’altra i personaggi finiscono con l’arrendersi all’evidenza che in questa avventura l’adolescenza e i suoi colpi di testa celano un’insospettabile forma di saggezza. In questo senso è magistrale l’interpretazione di Joyce (anche perché interpretata da Winona Ryder, referente di un certo cinema anni Novanta) che riesce ad essere contemporaneamente madre preoccupata e personificazione di nevrosi e frustrazioni adolescenziali. Le sue visioni e i suoi azzardi finiscono con l’essere uno dei motori principali dell’azione. Il gioco di luci natalizie interdimensionali è un meta-momento in cui l’avventura magica firmata The Duffer Bros si accorda con l’analisi del tecno-antropologo Erik Davis il quale nel suo TechGnosis (edito in Italia dalla Ipermedium nel 2001) constata come tutte le tecnologie tendano a farsi carico di credenze religiose, narrazioni mitizzanti, aspirazioni trascendentali.
In Stranger Things proprio l’elettricità che prende vita finisce con l’essere il decisivo canale comunicativo che apre varchi tra universi e brecce in barriere fatte di incomunicabilità. In definitiva l’impressionate apparato di rimandi vintage costituisce una potente pulsantiera ad uso e consumo del target primario costituito dai non più giovanissimi in grado di resuscitare continuamente i bei tempi andati. Ma tra i pulsanti non c’è solo la nostalgia per quei due decenni lì: c’è anche una ricodificazione di epoche antecedenti della fantascienza. Si torna indietro scavalcando l’età dell’oro del sense of wonder e delle prime space opera, per arrivare diritto in the Mouth of Madness e alle radici di quel genio di Lovecraft che grandi cineasti come Ridley Scott e John Carpenter avrebbero visualizzato sotto forma di commistioni fantascienza/horror. Gli otto episodi della prima serie sono dunque un reticolo affascinante perché lo spettatore è continuamente ingolosito da esche culturali che lo portano via via sempre più a ritroso nella storia dell’immaginario popolare, trascinandolo in un altrove primordiale costituito dalle origini stesse del fantastico.
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