Nuove parole per descrivere nuovi mondi
Certo il linguaggio e la traduzione giocano in fantascienza un ruolo peculiare: letteratura, film, serie televisive di genere sono popolate di neologismi (parole inventate ex novo), neosemi (parole esistenti ri-funzionalizzate per adattarsi a nuove realtà), vocaboli e formule discorsive tecno-scientifici e pseudo-scientifici, ma anche riflessioni metalinguistiche, e rappresentazioni finzionali dei processi traduttivi. Come commentava Peter Stockwell in un bel saggio di qualche anno fa: “The presentation of new worlds involves new words … ” (“la presentazione di nuovi mondi implica parole nuove … ”, in The Poetics of Science Fiction, Longman 2000).
Vero è anche che, nei first contact rappresentati su grandi e piccoli schermi, e spesso anche sulla pagina, il problema della comunicazione inter-linguistica è stato spesso superato senza dispendio di teorie semiotiche e complesse decrittazioni, ma piuttosto con traduttori universali – meccanici o biologici –, forme di telepatia, lingue franche pangalattiche.
La storica egemonia della produzione anglo-americana nel panorama internazionale del genere può contribuire a spiegare come mai il problema della traduzione in fantascienza non sia poi così frequentemente rappresentato nelle opere di genere, o non sempre con grande attenzione a problemi e processi d'interpretazione trans-linguistica o trans-codicologica. Si può ipotizzare cioè che il tema della diversificazione o diversità linguistica sia meno sentito quotidianamente dagli autori la cui lingua madre – l'inglese – è la lingua da cui proviene il 75% di tutto ciò che viene tradotto in Europa (secondo statistiche Unesco). In Italia, le traduzioni dall'inglese rappresentano circa il 70% delle traduzioni pubblicate sul mercato librario di varia; nella mondadoriana Urania si aggirano attorno all'85% di tutti i titoli pubblicati; in cataloghi come quello Fanucci, dove la fantascienza è rappresentata soprattutto da alcuni grandi classici – es. Dick, Herbert – e voci contemporanee affermate a livello internazionale – es. Miéville – la porzione di traduzioni dall'inglese sale pressoché alla totalità dei titoli pubblicati.
La centralità del canone anglo-americano contribuisce anche a spiegare come mai, nel campo internazionale degli Science fiction studies, di traduzioni e di doppiaggio si parli molto poco, e, più in generale – sia sul mercato editoriale che nei dipartimenti universitari – lo spazio dedicato ad autori, autrici e tradizioni linguistiche non anglofono sia relativamente ristretto.
Per questo – omaggiando nel nostro titolo uno dei traduttori universali più
famosi della fantascienza, quel babelfish descritto da Douglas Adam nella sua Hitchhiker's Guide to the Galaxy (BBC Radio, 1978), nonché un divertente saggio di teoria della traduzione di David Bellos (“Is that a Fish in your Ear?” Translation and the Meaning of Everything, Faber and Faber, 2011) – vogliamo dedicarci a riflettere sulla traduzione in fantascienza e sulla fantascienza in traduzione, insomma: sulla fantascienza a cavallo di lingue e culture (e specie) diverse.
La fantascienza, con la sua identità di genere, con il suo repertorio di tropi e modelli condiviso da autori e media differenti, e provenienti da diverse aree linguisitico-geografiche, si conferma un osservatorio privilegiato da cui esplorare l'idea di una produzione culturale di respiro autenticamente globale.
Fantascienza in traduzione
Alla luce di tutto ciò, giungono interessanti alcune singole uscite e tendenze più complessive che ci sembra di poter evidenziare nel panorama internazionale. Le ultime annate letterarie sul mercato di genere vedono continuare lo sviluppo di aperture importanti verso aree linguistico-culturali non anglo-sassoni e verso autori e autrici di côté variegato. L'ultimo podio degli Hugo, ad esempio, ha visto il premio per il miglior romanzo andare a The Fifth Season dell'afro-americana N. K. Jemisin, la miglior novella a Binti della nigeriana-americana Nnedi Okorafor, la miglior novelette a “Folding Beijing” di Hao Jingfang, tradotto dal cinese da Ken Liu, già traduttore di The Three-Body Problem – di cui più oltre – che nel 2015 è stata la prima opera tradotta ad essersi mai aggiudicato lo Hugo per il miglior romanzo.
Il mondo della fantascienza si fa sempre più sensibile ad autori e tematiche “post-coloniali” e comparatistiche. Si notano ad esempio il paziente lavoro della rivista Science Fiction Studies, che negli anni ha dedicato numeri monografici a fantascienza globale (1999, 2000) e fantascienza e globalizzazione (2012), fantascienza giapponese (2002), latino-americana (2007), cinese (2013) e Italiana (2015), il crescente numero di voci che The Science Fiction Encyclopedia di John Clute, David Langford e Peter Nicholls sta dedicando ad autori e tradizioni non anglofone. Negli ultimi due o tre anni altri singoli casi si sono accumulati in maniera significativa: il lancio di una collana di World Science Fiction Studies da parte dell'editore accademico Peter Lang; un numero speciale sulla fantascienza africana del Cambridge Journal of Postcolonial Literary Inquiry (vol. 3, issue 3) uscito alla fine del 2016. Il “caso” Liu Cixin – con la trilogia di The Three-Body Problem tradotta in inglese da Tor Books a partire dal 2014 e lanciata con ampio investimento promozionale (tanto che Repubblica vi dedicò un “paginone” nel giugno 2015 senza che ne fosse mai uscita traduzione italiana) è da parte sua sintomatico di un più generale interesse verso la fantascienza di area sinofona, a cui sono stati dedicati, negli ultimi anni, numeri monografici da riviste come Chutzpah! (2011) e Renditions (2012), mentre Tor ha fatto seguire la trilogia di Cixin da un'antologia multi-autore curata e tradotta sempre da Ken Liu, alla fine del 2016 (Invisible Planets: Contemporary Chinese Science Fiction in Translation).
Traduzione in fantascienza
Sul fronte della rappresentazione della traduzione in fantascienza un esempio recente è giunto (è il caso di dirlo) da poco sui grandi schermi italiani da oltreoceano. Arrival (USA, dir. Denis Villeneuve, 2016), distribuito in Italia nel 2017, a cui Delos ha dedicato lo speciale 187 di gennaio.
Il film è basato su “The Story of Your Life”, un racconto di Ted Chiang (autore che su Delos non abbisogna di presentazioni) imperniato concettualmente attorno alla logica di “minor tempo” o “minor azione”, che in fisica presiede a numerosi leggi (il principio di Fermat essendone il caso più comprensibile intuitivamente), e nelle conseguenze filosofiche che essa ha su una concezione deterministica dell'universo fisico e delle catene causali.
Se è vero che il linguaggio dà forma al pensiero, e che il nostro paradigma di realtà è matrice della nostra capacità cognitiva (ipotesi di Sapir-Whorf), ecco che il sistema linguistico degli alieni eptapodi consegna agli umani la capacità di ricordare il futuro (un'ipotesi simile, di riconfigurazione cognitiva per via linguistica, si trova anche nella novelette di Chiang “Undestand”).
La trasposizione di Villeneuve si concentra sulla concezione temporale alternativa – un continuum non lineare, di Einsteniana derivazione – con una riflessione sui paradossi temporali che sfiora (senza farsi trascinare in disquisizioni troppo complesse) il tema del libero arbitrio. I portatori di questa concezione temporale sono gli enigmatici alieni le cui astronavi sono giunte al pianeta Terra – questo l'antefatto – e attendono in silente sospensione che gli umani decifrino il loro linguaggio. La protagonista (Amy Adams), è una traduttrice di chiarissima fama coinvolta dal governo americano nel tentativo di decifrare i logogrammi alieni, assieme al collega fisico (Jeremy Renner) a cui è affidata una spiegazione-lampo di quel principio di Fermat su cui il racconto di Chiang poteva permettersi di indugiare ben più a lungo. È precipuamente il linguaggio degli alieni eptapodi a consegnare all'uomo (anzi: alla donna!) la capacità di concepire e dunque percepire gli eventi in maniera non sequenziale.
Per certi versi i mezzi propri del medium cinematografico vengono impiegati sapientemente allo scopo. È il caso del montaggio alternato delle analessi – flashback, che si riveleranno alla fine essere anche prolessi – flashforward. È il caso anche della cogenza linguistica della dimensione fisica del corpo, di contro agli approcci crittografici cari a fantascienze di più spiccata matrice matematico-statistica: il corpo è la chiave con cui per prima la protagonista riesce ad aprire un varco nell'incomunicabilità iniziale (“they need to see me”; la mano e il tentacolo appoggiati sui due lati del vetro, “now, that's a proper introduction!”). In ciò, la protagonista di Arrival è erede di una lunga genealogia di donne fantascientifiche, che nella riflessione sul potere del linguaggio e nella riflessione sul corpo – anche alieno e mostruoso – hanno trovato potenti mezzi di straniamento cognitivo.
Al di là dunque dei limiti (qualche “cattivo” bidimensionale e qualche trucchetto narrativo per far quadrare la sceneggiatura, qualche concessione misticheggiante, e la resa visiva di un tempo non lineare che si accontenta di una forma grafica circolare), si apprezza lo sforzo di sviluppare il motivo linguistico con attenzione al problema della decifrazione letterale di un testo profondamente alieno nei suoi caratteri fisici, ma anche con attenzione al problema più spiccatamente traduttivo e semiotico della referenza. Saranno le due specie dotate di un “minimo comun background gnoseologico” che consenta il trasferimento di significati semantici? Tematiche, queste, in cui il lavoro di Chang conta precedenti eccellenti, da Stanislaw Lem a John Brunner, e su cui torneremo.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID