Ricordo il secondo giorno di scuola, o forse era il primo. Lo ricordo al dopopranzo, sul tavolo della cucina già a fare i compiti, mia madre fuori sul piazzale che stendeva il bucato. Ricordo il calore piacevole di quel giorno, col suo silenzio opulento e la mattinata passata in appelli interminabili, l’ombra di un gioco curioso sulle mie labbra, le scolaresche che si formavano e i tanti volti sconosciuti intorno; ogni viso, che non fossero quelli di mia madre e di mio padre, o di qualche parente o vicino da contare sulle dita di una mano, mi era sconosciuto a quei tempi.
Ricordo la linearità dei pensieri di allora, le aspettative che non erano nemmeno tali: non mi attendevo nulla dal futuro, semplicemente vivevo e non avevo coscienza di farlo. Semplicemente ero una tavolozza da illustrare, senza che avessi consapevolezza di me oltre le parole dette e ascoltate.
Ricordo che i Floyd fu come averli sentiti suonare, in quei giorni dell’ottobre ’71; erano così prossimi a me, solo che io non ne sapevo nulla, non sapevo nemmeno cosa fossero quelle melodie, non avevo il concetto di armonia o di arte, o di universo. Ripensandoci ora, di quei giorni sento la morsa olografica stringermi evocativa e complessa, completa, vedo me bambino col suo mondo pieno, finito nella sua vacuità, e ciò che ora amo a quel tempo era soltanto un quanto di energia indeterminato. Ricordo che quel pomeriggio, e pochi altri appresso, qualcosa di sconosciuto, ma bello e intrigante come un’epifania, prendeva il volo dai miei pressi e mi spingeva oltre quella cucina, oltre i miei compiti e la precisione che stavo impiegando nel tracciare le lettere su un foglio, maiuscole e minuscole.
Un piccolo ambasciatore di fattezze oniriche era di fronte a me, un uccello forse, e si alzava sulle rovine riemerse da secoli di oblio, mi mostrava coi suoi occhi cose che non avevo mai visto, né avrei potuto facilmente vedere in seguito: ma questo lo capii molto più tardi, solo ora posso dirlo, solo dopo le vicissitudini di un’intera esistenza votata al Nulla senziente e alle sue incarnazioni. Riesco ancora a stupirmi, però, e credo sia questo il regalo più profondo che adesso posso apprezzare, fin dai tempi in cui scrivevo in quella cucina, su quel tavolo, quando quell’uccello si tramutò in un bellissimo cristallo dalle forme mutevoli, da cui usciva una voce melliflua e distante che coronava ogni mio pensiero con una miriade d’immagini che solo ora, a distanza di decenni, riesco a mescolare in modo intelligibile: le caverne calcaree che mi si formavano intorno erano talmente arcaiche da darmi il senso di una storia che non conoscevo, ma che sentivo già mia, nell’intimo di qualcosa che scattava in me da un evo precedente che credevo di non aver mai vissuto.
Quel cristallo mi prese per mano, io con l’innocenza e spensieratezza di un essere vuoto, e mentre lui si trasformava invariabilmente in cigno, poi in un delizioso scoiattolo, infine tornava a essere un uccello che volava sopra di me e mi portava l’ambasceria di voci ammalianti, mi mostrava tutti i gradienti di una poesia innata nell’esistenza che stavo per vivere, con il piacere del ricordo, con la notte che si posava sulle mie palpebre intatte dal delirio energetico dell’occulto.
– Cosa fai, Sandro? Finiti i compiti?
Mia mamma si accertava che avessi finito quelle piccole esercitazioni, mentre il pomeriggio riscaldava tiepidamente il piazzale che riverberava solare; brandelli di fantasia erano ancora lì nascosti, tutti da scoprire.
– Sì mamma, mi piace la scuola, m’insegna tante cose, solo che sapevo già leggere, te lo ricordi?
– Certo che lo ricordo, ma è importante che tu sappia anche scrivere, altrimenti non potrai esprimerti e sarai condannato a una vita di ristrettezze, non soltanto fisiche; tuo padre e io ti vogliamo felice e istruito, qualsiasi cosa tu faccia.
– Ma io non sono mai solo, mamma…
I Floyd erano accanto a me, quel giorno e anche i pochi successivi, ma ciò bastò per darmi la sicurezza di un percorso onirico e immaginifico che avrebbe prediletto, nel mio futuro, la fantasia sfrenata senza appigli con i vincoli umani, mentre la morte secolare e la vita dimenticata, le quotidianità sepolte da un atto di violenza inumana, si libravano in note acute e dissonanti, tutte insieme, un urlo che mi piacque all’istante.
Ero soggiogato e sorridente, quel tipo di sorriso inebetito e scanzonato; aspettavo il prossimo film o storia, o libro, o qualsiasi altra fantasia senza sapere che prima o poi, sarei stato io a pensarlo, realizzarlo, dirigerlo.
– Mamma, mi accompagni nelle caverne?
– Quali caverne?
– Quelle disegnate da questi suoni.
– Quali suoni?
La salutai dall’interno di un antro di roccia chiuso da metavetro futuribile; anche quello avrei costruito con la mia energia, un giorno. Ne ero già cosciente.
When that fat old sun in the sky is falling,Summer evening birds are calling.Summer's thunder time of year,The sound of music in my ears.Distant bells,New mown grass smells so sweet.By the river holding hands,Roll me up and lay me down.And if you sit,Don't make a sound.Pick your feet up off the ground.And if you hear as the warm night fallsThe silver sound from a time so strange,Sing to me, sing to me
Fat old sun – Pink Floyd
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