Non è raro incappare, nelle pagine e nei gruppi di Facebook dedicati alla fantascienza e al cinema, in un’endemica discussione di paragone tra i due film tratti dal celebre romanzo di Stanislaw Lem del 1961, per l’appunto Solaris di Andrej Tarkovskij (1972) e Solaris di Steven Soderbergh (2002), cosa che sovente si traduce in un’appassionata preferenza per il primo, nonostante le evidenti differenze rispetto all’opera scritta, dovute all’animo e alla sensibilità del regista russo. Quando però qualcuno fa notare che la pellicola di Tarkovskij non è stata affatto la prima riduzione cinematografica del romanzo di Lem, quasi tutti cadono dalle nuvole e stentano a credere di aver “mancato” ad un dato così rilevante, in effetti davvero poco noto. Eppure è vero: la prima versione “live” di Solaris si ebbe nel 1968, l’anno di uscita di 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick, a firma dei registi Boris Nirenburg e Lydya Ishimbayeva, un film per la televisione in due parti realizzato dalla Central Television Production sovietica (quindi mai apparso sul grande schermo), in bianco e nero, uscito in DVD in lingua russa nel 2009 (attualmente è recuperabile su Youtube sottotitolato in inglese).
Superato (anche per il sottoscritto, a suo tempo) il primo attimo di sconcerto a fronte di tale scoperta e riusciti a renderne pubblica l’esistenza della pellicola in una scheda del nostro volume Mondi paralleli-Storie di fantascienza dal libro al film (Editore Delle Vigna, 2016), forse la prima pubblicazione in Italia a trattarla, oggi è possibile recuperare alla visione questo film dimenticato da tutti, e forse anche a far mutare qualche opinione che si poteva avere prima, quando si credeva che il Solaris di Tarkovskij fosse il primo adattamento tratto dal libro di Lem.
Quello che possiamo dire subito è che la versione di Niremburg-Ishimbayeva è quasi del tutto fedelissima al libro originale, non offre varianti autoriali alla materia trattata né rilevanti cambiamenti di trama. È Solaris esattamente come concepito da Lem, che invece si mostrò poco convinto, quando non addirittura polemico, sia della versione successiva di Tarkovskij sia di quella di Soderbergh.
Riassumiamo a grandi linee la storia, per i pochi che ancora non la conoscessero. In un prossimo futuro, lo psicologo Kris Kelvin (Vasily Lanovoy) viene inviato sulla stazione orbitante attorno al pianeta Solaris, un mondo ricoperto da una sorta di oceano plasmatico che si suppone essere un gigantesco organismo vivente e senziente. Qui, l’uomo trova i due membri dell’equipaggio (un terzo, amico di Kelvin, già defunto per suicidio) allo sbando totale, completamente straniati, un ambiente lasciato al disordine e all’incuria, in un’atmosfera di tensione e cupo mistero. Il cibernetico Snaut (Vladimir Etush), in preda all’alcolismo, cerca confusamente di mettere sull’avviso Kelvin a riguardo di “qualcuno che potrebbe incontrare sulla stazione”, senza riuscire a essere più chiaro, mentre lo scienziato Sartorius (Viktor Zozulin), barricato nel suo laboratorio, sembra nascondere dei misteriosi “ospiti”. Lo stesso Kelvin avverte delle presenze aliene aggirarsi per tenebrosi corridoi della stazione, senza poter darsene spiegazione.
Durante la prima notte a bordo, gli appare davanti, in carne e ossa, la figura di Harey (Antonina Pylius), la giovane moglie morta suicida dieci anni prima, apparentemente priva di ogni ricordo del suo passato. Sconvolto, Kelvin l’attira con l’inganno in una capsula a razzo e la spedisce via dalla stazione, nello spazio. Snaut offre allora un’ipotetica spiegazione dei fatti: l’oceano di Solaris legge nelle menti degli uomini in orbita, estrapola isole della memoria, attingendo direttamente dall’inconscio, corrispondenti a eventi traumatici o dolorosi della loro vita, li “incarna” in simulacri umanoidi che appaiono nuovamente ai loro occhi, portando però loro il disagio e la disperazione, un nuovo confronto doloroso con gli eventi del passato rimosso. È un tentativo di contatto da parte dell’oceano senziente, dei doni del pianeta ai visitatori umani?
Una nuova Harey ricompare davanti a Kelvin la notte successiva, senza nulla ricordare. Questa nuova matrice, però, comincia a umanizzarsi sempre di più, chiedendosi il perché della sua amnesia e realizzando presto di non essere la vera Harey, ma una sorta di copia proveniente dall’oceano. I tre scienziati, sempre più turbati dalla presenza dei loro “ospiti”, decidono di inviare all’oceano un’emissione modulata dei pensieri di Kelvin da sveglio, tentando per l’ennesima volta un contatto riscontrabile. Harey, nel frattempo, si toglie la vita, conscia di essere solo una fonte di dolore per Kelvin, che in realtà si è nuovamente innamorato di lei, ma la sua struttura a base neutrinica la fa resuscitare. Si rivolge quindi segretamente a Snaut e Sartorius, che hanno approntato un congegno in grado di disintegrare i neutrini, liberandosi per sempre dei loro “ospiti”, e li prega di usare la macchina su di lei. Lascerà a Kelvin un’ultima lettera di addio.
Dopo l’invio del nodulo di pensiero all’oceano, gli “ospiti” non tornano più: un segno di comprensione? A Kelvin non resta che un ultimo, angosciante dubbio: tornare sulla Terra, riscontrando l’impossibilità di un vero contatto con l’oceano di Solaris, o restare sulla stazione, tentando nuovi sistemi di comunicazione, nella speranza che “l’epoca dei miracoli crudeli non sia finita”.
Come si evince da questa breve sinossi, il film televisivo del 1968 è del tutto aderente al romanzo di Lem. Com’è ovvio immaginare, la messa in scena è rigorosamente di tipo teatrale, con totale mancanza di effetti speciali, virtuosismi scenografici, decorazioni tecnologiche o futuristiche. Gli ambienti della stazione orbitante sembrano le quinte di un moderno teatro, con corridoi curvilinei immersi nell’ombra, stanze che ricordano le camere di squallidi alberghi di infima categoria, scale di metallo su alte e vuote pareti.
L’unica concessione alla tecnologia è data da una postazione di controllo sulla Prometheus con due tecnici, simile a un’antiquata redazione televisiva, un quadro di comando presso l’hangar di ricezione, due televisori a circuito chiuso visibili durante gli incontri video dei tre scienziati, qualche apparato di scena non identificabile, una struttura simile a un telescopio nel laboratorio di Sartorius. I costumi sono anonimi, la tuta spaziale di Kelvin assomiglia a tutto tranne che una tuta spaziale, il casco più simile ad un collare ortopedico d’ospedale. Il massimo della spettacolarità è dato da immagini di repertorio di pochi secondi, con missili e capsule spaziali sgranate in video degli anni Sessanta, che ricostruiscono l’invio di Kelvin dalla nave spaziale Prometheus alla stazione e la liberazione dalla prima Harey.
Come nei remakes seguenti, anche qui (necessariamente, data l’impossibilità produttiva di ottenere determinati effetti a quei tempi) sono assolutamente mancanti le magmatiche e colossali “creazioni” sulla superficie di Solaris (mimoidi, agilanti, simmetriadi), su cui si sofferma invece il romanzo, e il pianeta stesso risulta sempre fuori scena, anche se la sua “azione” immobile si percepisce costantemente (basta un’occhiata sbigottita di Kelvin verso una delle finestre sempre semi-chiuse della stazione, particolare ripreso poi nel film di Tarkovskij, che invece ci concede dei campi lunghi sul fluido oceano colloidale solariano). Le riprese sono prevalentemente primi piani degli attori, tutti perfettamente calati nei loro ruoli e credibili, soprattutto Vasili Lanovoy, bravissimo nel caratterizzare lo sgomento di Kelvin a fronte dei fatti, e lo straordinario Vladimir Etush, uno Snaut molto umano e malinconicamente passivo allo stress emotivo cui è soggetto, la storia è raccontata più a parole che a immagini, come nella miglior tradizione teatrale.
Tutt’altro che noiosa, anche se vista in lingua originale con sottotitoli inglesi, la produzione coinvolge e tiene desta l’attenzione dello spettatore, assorbito profondamente in questo dramma scientifico dalle implicazioni sconvolgenti.
Non ci è dato di sapere cosa Lem pensasse di questo primo adattamento, né se Tarkovskij avesse avuto modo di vederlo (la probabilità è forte, poiché nel suo Solaris sembra recuperare parecchio dal film televisivo, soprattutto nelle caratterizzazioni attoriali) ma a ben vedere si tratta di un’ottima riduzione, tutta incentrata sull’aspetto più filosofico del racconto, sapientemente bilanciato con la tragedia personale dei protagonisti e con il problema di comunicabilità tra entità diverse che era cuore del romanzo. Un recupero è d’obbligo, anche solo per un confronto con le altre due versioni cinematografiche di Solaris.
Curiosamente, come postilla finale più leggera, se uno dei motivi di disaffezione per il Solaris di Tarkovskij, oltre agli ignobili tagli e al doppiaggio cagnesco e “provinciale” cui era stata sottoposta la pellicola dalla scellerata azione di Dacia Maraini e Roberto De Leonardis, fosse stato il fatto che l’attore principale Donatas Banionis assomigliasse terribilmente al nostro Paolo Villaggio, con ovvia ripercussione sulla drammaticità della sua recitazione, nel film del 1968 è Vladimir Etush ad assomigliare come una goccia d’acqua a un altro comico nostrano, stavolta Giorgio Panariello. Un problema relativo, che ovviamente tocca solo il pubblico italiano…
Solaris (Солярис, Soljaris, Unione Sovietica, 1968, 143’, BN). Regia: Boris Nirenburg, Lydya Ishimbayeva. Sceneggiatura: Nikolay Kemasky dal romanzo omonimo di Stanislaw Lem (1961). Fotografia: Yuri Bouguenais, Boris Cypress, Valery Revitch. Montaggio: G. Engyeeva. Musica: A. Kliot. Produzione: Studio Orlenok-Central Television Studios. Con Vasily Lanovoy (Kris Kelvin), Vladimir Etush (Snaut), Viktor Zozulin (Sartorius), Antonina Pilyus (Harey), Vyacheslav Dugin (primo operatore Prometheus), A. Katsynsky (secondo operatore Prometheus). Edizione in DVD in lingua russa 2009. Su Youtube versione originale con sottotitoli inglesi.
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