da un soggetto di Maurizio de Giovanni,
per gentile concessione dell’autore
(dal verbale di sommarie dichiarazioni testimoniali di Venturi Emiliano, fascicolo Roscia Massimo, contro ignoti)
Quando, una settimana fa, suonai al citofono di casa di Massimo Roscia, ancora mi stavo chiedendo perché avesse scelto proprio me.
Poteva pretendere e ottenere di essere intervistato in diretta, in prima serata, a casa sua o dovunque volesse. I grandi nomi della stampa avrebbero venduto l’anima al Diavolo per quell’intervista, pagando cifre folli per l’esclusiva; ne avrebbero parlato nelle settimane precedenti, per creare l’evento, e poi nei mesi successivi, nei talk, uno speciale dietro l’altro, sfruttando lo scoop fino al tedio.
Invece Roscia aveva chiamato me, un giovane cronista di un quotidiano altrettanto giovane. Sua moglie Alessandra mi comunicò il giorno e l’ora dell’intervista, raccomandandomi la massima puntualità. Neanche mi chiese se fossi disponibile o meno, il suo era un ordine più che un invito.
Fui puntuale, ovviamente. Mentre salivo con l’ascensore, credetti di intuire il motivo della scelta di Roscia. Tutti conoscevano il suo stupefacente intuito, la sua capacità di individuare prima di chiunque altro un gusto, una fragranza, di scovare una cantina o un ristorante, un talento, quelli che poi avrebbero conquistato la grande platea dei gourmand. Il tocco di Roscia, lo chiamavano: portentoso, infallibile, di rara sagacia, su cui lo stesso Roscia aveva costruito la propria fortuna. E, per parlare della sua rentrée, dopo l’esilio volontario degli ultimi tre anni di cui nessuno conosceva le ragioni, aveva individuato una nuova, promettente penna, il sottoscritto, che presto, mi piacque pensare, sarebbe stata assurta nell’empireo del grande giornalismo.
M’illudevo: i fatti successivi chiarirono che la sua scelta era stata dettata dalla necessità di avere di fronte un interlocutore che lo ascoltasse e basta, un testimone più che un investigatore, la cui figura non eclissasse la sua.
Sulla porta trovai ad attendermi la signora Alessandra, la chef che aveva abbandonato la cucina per restare vicino al grande genio. La donna era vestita molto semplicemente, una camicetta abbinata al pantalone, di una dolente eleganza, la stessa dei tratti del viso: le rughe dipartivano dagli angoli della bocca e degli occhi, come le ramificazioni del delta di un fiume, i capelli venati d’argento.
La salutai e lei mi rispose con un cenno del capo, senza sorridere. Con un gesto, m’invitò a entrare e a seguirla.
Iniziammo un lungo cammino, attraverso un labirinto di studioli, salottini, disimpegni, corridoi, tutti calati in una penombra silenziosa. Il criterio seguito nell’arredare la casa era quello dell’accumulo, della giustapposizione; un affastellamento di quadri, libri, tappeti, statue, lampade, vasi, di tutte le epoche, di ogni provenienza, riempiva ogni centimetro libero, come se quel museo domestico cercasse, in parte, di comunicare la ricchezza della vita e della persona di Massimo Roscia.
Poi, arrivammo in una stanza completamente immersa nelle tenebre. Ci volle qualche secondo perché i miei occhi si abituassero a quell’atmosfera da cripta, il tempo necessario per distinguere una poltrona sulla quale una figura umana sedeva immobile.
– Lasciaci soli – disse una voce che sembrava parlare dall’oltretomba, una voce che conoscevo ma che non sentivo da tempo.
La signora Alessandra si ritirò, in silenzio: mi accorsi solo allora che non avevo scambiato con lei neanche una parola.
La figura sulla poltrona allungò una mano oltre il bracciolo, verso un’abat-jour, e accese la luce. E lo vidi. Vidi cosa era diventato Massimo Roscia: l’uomo alto e possente di un tempo si era raggomitolato su sé stesso, come se un demone avesse preso a scavare dall’interno, fino a far collassare la spina dorsale sul bacino.
Era incanutito, i capelli folti avevano lasciato il posto a una rada peluria di un bianco malsano; la barba incolta rendeva ancora più impressionanti le gote pallide sotto le occhiaie profonde, le labbra esangui contratte in una smorfia terribile. Solo gli occhi, mobili, vigili, avevano la stessa luce di sempre, quella che sapeva folgorare e gratificare, penetrare e stroncare, quella di Massimo Roscia, il più grande critico enogastronomico del mondo, di ogni tempo, temuto e blandito, il fustigatore dell’approssimazione culinaria e il mentore delle nuove leve del gusto, il palato raffinato che tutto aveva assaggiato, nonché il ricchissimo padrone della catena di ristoranti Chez Massimo, con sedi a New York, Mosca, Singapore, Tokyo, Roma e altre cento metropoli.
– Non sono malato – esordì leggendo lo sconcerto sul mio volto. – Almeno, non sono malato nel corpo – aggiunse indicandomi l’altra poltrona.
Mi sedetti ed estrassi dalla giacca il taccuino e la penna, nonché il registratore, che posai sul tavolino di fronte a me, con il microfono puntato in direzione del mio ospite.
– Mi ascolti, senza interrompere: conosco già ogni sua domanda e soddisferò ogni sua curiosità, le assicuro – mi garantì, dopo aver bagnato le labbra bevendo da un bicchiere.
– Acqua, semplice acqua, l’unico liquido che posso bere, ormai. Incolore, insapore, innocuo, come tutto il resto – spiegò posando il bicchiere sul tavolino.
Accesi il registratore e posai la punta della penna sul taccuino. Roscia fece un grugnito d’assenso, come ad apprezzare il mio modo di procedere e iniziò a parlare.
– Non è semplice, sa?, essere Massimo Roscia. Ci vuole molta disciplina, rigore, autocontrollo. La sorte mi ha dato in dono questo – disse aprendo la bocca e mostrando il palato. – Lo strumento più sofisticato e perfetto che la natura potesse concepire. Uno strumento sensibile, però: niente fumo, niente spezie troppo piccanti, alla larga dalle brodaglie troppo bollenti e dal ghiaccio, per preservare queste papille gustative. Un semplice raffreddore è un’autentica iattura, perché i profumi e i sapori scompaiono e, senza il mio palato, sono uno scribacchino come gli altri, uno di quelli che inghiotte a occhi chiusi e fa il ruttino alla fine. Eppoi, ci vuole misura: mai abbuffarsi, si pilucca come uccellini, perché si asseconda il gusto, non l’appetito: lo spettro di una gastrite è sempre in agguato. E, nel bere, si liba, piccoli sorsi appena, l’ebbrezza è il rifugio degli stolti, non di chi deve rimanere lucido, sempre.
Roscia si prese una pausa e fece scorrere gli occhi lungo le pareti della stanza, dove c’erano decine di foto incorniciate che lo ritraevano con i potenti della Terra.
– Tutte queste persone mi chiedevano una cosa sola: di suggerire loro le parole giuste per comprendere quello che stavano mangiando e bevendo, per scoprire i sapori, per conoscere i profumi, per apprezzare una sensazione che aveva l’ambizione di farsi pensiero, per dare un senso alle loro sinapsi, come se il piacere più grande passasse necessariamente attraverso la consapevolezza. Era quello che mi ha chiesto la Regina K*****, quando ha voluto i miei servigi per creare il menù perfetto, quello delle nozze del figlio: le pietanze giuste, i vini abbinati, in un’armonia di sapori che non aveva alcun limite, né di tempo né di costi. Oppure, quando il Presidente P***** acquistò per mezzo milione una bottiglia di Chateau Lafite Rothschild del 1787, volle che fossi io a stapparla, per berla insieme con lui, perché gli spiegassi le sensazioni che stava provando, i sentori, i profumi, i colori e le suggestioni che ne scaturivano. Il mio palato coglie l’ineffabile, attribuisce un nome all’inesprimibile conferendogli sostanza, rendendone partecipe chi, altrimenti, userebbe la bocca solo come una stazione di transito prima dello stomaco.
Roscia bevve un altro sorso d’acqua e mi chiese se volessi qualcosa. Declinai, ringraziando, senza alzare la punta della penna dal taccuino. Roscia continuò.
– Il celebre tocco di Roscia nasce da lì, dal mio palato. Il mio palato è l’arbiter, il giudice imparziale e inesorabile, che apprezza e stronca; a me poi non resta che tradurre nel linguaggio degli uomini le sue conclusioni. E non sempre quelle conclusioni piacciono a tutti, anzi.
– La mia rovina è iniziata quando non ritenni di attribuire sulla mia guida un giudizio di eccellenza all’ultima annata di Taurasi della Cantina G*****: Lucio F*****, il titolare, mi disse che il mio palato sbagliava, che non aveva capito, che non poteva capire, perché non aveva assaggiato il metro di paragone, quello del vino vero, il migliore, l’autentico e originale nettare degli dèi. Lui aveva avuto il privilegio di berlo, diceva. E commiserava chi, come me, millantava una conoscenza che non potevo avere. Perché non avevo bevuto quel vino.
– Normalmente, avrei scrollato le spalle, non mi sarei curato di chi m’ingiuriava dopo un giudizio non gradito, mi era già successo e sarebbe successo ancora. Invece, fui incuriosito: avvertii, nelle parole di Lucio F*****, l’eco di un rimpianto, lessi nei suoi occhi il riverbero di un sogno, con una luce languida e disperata, come quella di un amante che, per una notte, una notte sola, ha potuto avere tra le sue braccia la donna perfetta, sensuale, quella dei suoi sogni.
– Lo sfidai: gli chiesi, se mai esisteva quel vino, di farmelo bere. Che stupido sono stato, che borioso, inutile, insopportabile idiota.
Vidi piangere Roscia, singhiozzando, con il petto affannato che si alzava e abbassava a ogni singulto. Ricorse all’ennesimo sorso d’acqua per trovare un po’ di calma, come se, inghiottendola, potesse mandar giù anche l’amarezza.
– E lui mi accontentò, una sera di tre anni fa; tre anni, due mesi e sedici giorni fa. Ogni giorno, da allora, ho maledetto quella sera. Il diavolo, subdolo ingannatore qual è, si è pure tolto lo sfizio di farsi pregare per condurmi all’Inferno. Sogghignava, Lucio F*****, quando mi chiedeva se ero sicuro di voler bere quel vino, che poi le cose non sarebbero più state come prima, che tutto sarebbe cambiato, come era cambiato per lui, dopo averlo bevuto. Ma io non recedevo, insistevo, dovevo berlo, il mio carnet doveva essere completo, il mio palato doveva cimentarsi anche con quella prova.
– Mi diede appuntamento a Piazza Sant’Ignazio, una sera di fine estate. Entrammo per un porticina di legno, in un palazzo vecchio come Roma stessa. Scendemmo un’infinità di scalini, avvolti dalle tenebre, seguendo il fascio di luce di una torcia. Poi camminammo, non so per quanto tempo, un’ora, due, tre, per le viscere putride di questa città, incontrando solo topi e blatte, fino a quando, voltando l’ultimo angolo, ci trovammo di fronte a una scalinata di mattoncini, che saliva verso la notte e l’aria fresca.
– Sbucammo in un piccolo giardino, neanche cento metri quadri, racchiuso da mura altissime e antiche. Al centro del giardino c’era un pergolato, un’unica pianta di vite, con il tronco grande come quello di una quercia secolare. C’era un silenzio ancestrale, irreale, metafisico, come se quel luogo non fosse di questa terra; solo la luna e le stelle, sopra di noi, testimoniavano che quello era il cielo di Roma.
– In un angolo, a ridosso delle mura, c’era una panca di pietra: la mia guida, sussurrando, mi disse di sedermi. Obbedii. Solo allora feci caso alla figura ieratica che trafficava intorno al pergolato. Sembrava un piccolo monaco, portava una specie di saio nero, lungo fino a terra, tanto che non si vedevano i piedi, e aveva un cappuccio calato sulla testa. Era attento alla cura della vigna, impugnava una piccola forbice da potatura che adoperava con gesti lentissimi e sapienti, eliminando foglie e recidendo piccioli, tralcio dopo tralcio, carezzando i grappoli, acino per acino.
– L’uva sembrava pronta per la vendemmia, era gonfia, rubiconda con riflessi violacei, nell’aria si avvertiva il sentore zuccherino della maturazione.
– Restammo non so quanto a guardare il monaco. Poi lui parve far caso a noi: si girò dalla nostra parte, con la testa sempre celata dal cappuccio. Scambiò un cenno d’intesa con Lucio F*****, e scomparve in un pertugio delle mura, per tornare dopo qualche minuto, con una bottiglia e tre bicchieri.
– Li riempì e ce li offrì: accolsi con trepidazione il mio, che conteneva un liquido scuro colore del sangue rappreso, denso, profumato di un profumo antico e inebriante. Gli altri due alzarono il bicchiere in segno di augurio, invitandomi a bere. E io, che sia dannato per sempre, ho portato alle labbra quel vino.
– Mentre sorseggiavo, vidi il monaco reclinare la testa all’indietro, per bere tutto d’un fiato. Il cappuccio scivolò, mostrando la sua faccia: una piccola proboscide era al posto del naso e c’erano molti occhi, troppi.
Massimo Roscia si prese una pausa, per studiare la mia reazione. Cercai di non mostrare stupore né scetticismo, per non interrompere il racconto. Il mio viso dovette rassicurarlo, perché continuò.
– Di quello che è successo dopo non ricordo più nulla; non ricordo se il monaco ha parlato, se Lucio F***** mi ha spiegato, non ricordo la strada che abbiamo fatto per tornare indietro. So soltanto che mi sono ritrovato da solo al punto di partenza, a Piazza Sant’Ignazio. Era quasi l’alba, ero frastornato, inebetito, come dopo un’ubriacatura. E pian piano mi sono risvegliato, con il sapore di quel vino ancora sulle labbra, con il palato che ne portava impresso il sentore ineffabile, come un marchio a fuoco sulla carne viva. E questo è stato esattamente tre anni, due mesi e sedici giorni fa.
Il mio ospite fu preso da un tremito convulso, come se un terremoto scuotesse il suo animo e si propagasse alle membra. Lo vidi fare con le mani gesti strani, rabbiosi, quasi cercasse di scacciare qualcosa davanti a sé, qualcosa che solo lui poteva vedere, uno spettro che danzava unicamente per la sua fantasia perturbata. Quando riprese a parlare, la sua voce era un pigolio sofferente.
– Da allora mi sono dedicato esclusivamente alla ricerca di quel giardino. Ho cercato, palazzo dopo palazzo, strada per strada, vicolo per vicolo, vagando per le viscere della città, per scovare un riscontro ai miei ricordi. Inutilmente, però. Nessuno conosce quel luogo, nessuno lo ha mai visto. Lucio F***** non si trova più, chi ha rilevato la sua cantina non ne sa nulla, è come se non fosse mai esistito. E certe volte mi trovo a dubitare che sia mai esistito per davvero, che quella sera io l’abbia vissuta solo nei miei incubi. Ma quel vino, io, l’ho assaggiato, ho bevuto il frutto di quell’unica vigna, antica come il mondo, la madre di ogni vitigno, una madre venuta dallo spazio, il paradigma, il canone, la pietra di paragone.
– Da allora, il ricordo di quel sapore ha avvelenato ogni mio giorno, quel sapore ha bruciato le mie papille, per sempre, ha annichilito il mio palato. Tutto quello che ho bevuto, dopo, aveva la fragranza della cenere stantia. Ho bevuto quel vino senza sapere che, in cambio, dovevo dare la mia anima. Il mio tocco è perso, che io sia maledetto, perché quel vino non lo berrò mai più, mai più…
Roscia tuffò la faccia in grembo, coprendosi con le mani, come a nascondere un pianto disperato. Poi si girò di lato, rannicchiando le gambe, spense l’abat-jour e con la mano mi fece segno di andare via, che il mio tempo era scaduto. Chiusi il taccuino, raccolsi il registratore e mi alzai. Accennai a un saluto, ma non ottenni risposta.
La signora Alessandra mi stava aspettando. Mi condusse all’ingresso, guidandomi per quel labirinto di stanze buie. Quando fummo alla porta, mi porse due bottiglie, un Borgogna e un Barolo, che valevano una fortuna. Feci per dire qualcosa, ma lei mi precedette.
– Le prenda. Tanto, lui non le berrà mai più. Grazie per essere venuto e per quello che scriverà. Qualunque cosa scriverà…
Le strinsi la mano, sorridendole. La porta si chiuse alle mie spalle e incominciai a scendere le scale, con il passo lento e meditabondo di chi non sa cosa pensare.
Poi, due piani più sotto, sentii lo sparo e, subito dopo, le urla della signora Alessandra.
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