Nell’aprile del 1919 Albert Einstein ricevette a Berlino la lettura di uno sconosciuto collega dell’università di Königsberg. Un mese dopo, le osservazioni dell’eclisse solare del 29 maggio da parte degli astronomi guidati da Arthur Eddington avrebbero reso la teoria della relatività generale celebre in tutto il mondo, ma allora Einstein era un nome noto solo nei circoli di fisica. Da poco aveva iniziato a cimentarsi nell’impresa che lo avrebbe ossessionato fino alla morte, il tentativo di unificazione dell’unica forza quantistica allora conosciuta, quella elettromagnetica, con la gravità. La lettera di Theodor Kaluza lo lasciò pertanto senza parole. Kaluza dimostrava infatti che, aggiungendo un’altra dimensione alle quattro ordinarie di cui è composta la nostra realtà (tre spaziali e una temporale), dal formalismo matematico di Einstein per descrivere la gravità si ottengono naturalmente le equazioni dell’elettromagnetismo. Il “tensore di Einstein”, che descrive lo spazio-tempo nella relatività generale, è una matrice 4x4. Aggiungendo una quinta dimensione, la matrice 5x5 produceva cinque equazioni extra, quattro delle quali erano esattamente le equazioni di Maxwell per l’elettromagnetismoi. Einstein seguì i calcoli di Kaluza e li trovò corretti, ma esitò a lungo prima di raccomandare l’articolo per una pubblicazione; e ciò per un motivo molto semplice: non abbiamo alcuna prova dell’esistenza di una quinta dimensione. Alcuni anni dopo, nel 1926, il matematico Oscar Klein rifece la stessa scoperta di Kaluza, introducendo la meccanica quantistica per rendere possibile l’esistenza della quinta dimensione: essa non doveva infatti essere più grande della lunghezza di Planck, la minima grandezza possibile in natura, pari a 10^-33 centimetri. La teoria che postulava l’esistenza di cinque dimensioni fu ribattezzata “teoria di Kaluza-Klein”, ma perse ben presto interesse agli occhi dei fisici, più interessati ad esplorare in quegli anni le straordinarie conseguenza della fisica delle particelle che a stare dietro a una bizzarria matematica. Le cose cambiarono nel 1970: un gruppo di fisici teorici, tra cui l’italiano Gabriele Veneziano e l’americano Leonard Susskind, elaborarono un modello in cui le particelle elementari, fino ad allora considerate puntiformi, venivano sostitute da corde unidimensionali, o stringhe. Ipotizzando che le diverse particelle non fossero altro che modi di vibrazione di una stringa, si poteva riuscire a ottenere anche il “gravitone”, la presunta particella responsabile del campo gravitazionale. In tal modo la gravità descritta dalla relatività generale come geometria dello spazio-tempo veniva ricondotta alla meccanica quantistica, che descrive il mondo in termini di particelle di energia (“quanti”). Sembrava la realizzazione del sogno di Einstein, solo che per funzionare questa nuova teoria – la “teoria delle stringhe” – richiedeva ventisei dimensioni invece delle quattro che conosciamo. Di fronte a un problema del genere, qualsiasi persona normale avrebbe abbandonato tutto il progetto, giudicandolo fallimentare. Ma quei fisici si ricordarono che l’idea di una o più dimensioni extra, forse così piccole da sfuggire ai nostri sensi, non era nuova: dopo decenni di oblio, la teoria di Kaluza-Klein tornò così in auge.
Lo spunto fondamentale offerto da Klein era stato quello di immaginare la possibilità di dimensioni estremamente piccole, non “estese” come le tre dimensioni spaziali che conosciamo ma “compattificate” in uno spazio ridottissimo. Dirlo è tuttavia molto più facile che farlo. In che modo si possono “compattificare” tutte le dimensioni previste dalla teoria delle stringhe? Agli inizi degli anni Ottanta gli sforzi di Michael Green, John Schwarz e Edward Witten – considerato il “guru” della teoria delle stringhe – erano riusciti a ridurre il numero di dimensioni previste da ventisei a dieci. Ma si trattava pur sempre di sei dimensioni spaziali in più rispetto alle tre che sperimentiamo normalmente (la decima resta quella temporale). D’altro canto, con un numero inferiore non sarebbe stato possibile descrivere il nostro universo attraverso la teoria delle stringhe. Per dirla sinteticamente, infatti, aumentando il numero di dimensioni aumentano i modi di vibrazione delle stringhe, attraverso cui otteniamo le particelle del Modello Standard. Per produrre tutte le particelle che conosciamo, abbiamo bisogno di uno spazio-tempo in dieci dimensioni.
Nel 1984 ancora Witten, insieme ad altri tre colleghi (Philip Candelas, Andrew Strominger, Gary Horowitz), arrivarono all’intuizione più luminosa. Così come negli anni Settanta la “riscoperta” della teoria di Kaluza-Klein aveva permesso di prendere in considerazione la possibilità di più dimensioni, nel 1984 i quattro riscoprirono una teoria che sembrava non avere nulla a che fare con la realtà, sviluppata dal matematico italiano Eugenio Calabi e ripresa poi dal sino-americano Shing-Tung Yau, utilizzata per descrivere particolari forme della geometria. Secondo Calabi, la congettura che porta il suo nome “non aveva niente a che fare con la fisica. Si trattava rigorosamente di geometria”ii. Era un modo per descrivere la curvatura di un oggetto topologico in uno spazio complesso: tali oggetti possono deformarsi in tutti i modi possibili senza perdere le loro proprietà (una ciambella si può trasformare, attraverso opportune manipolazioni, in una tazza: mantiene sempre la stessa proprietà, ossia la presenza di un buco, nel primo caso al centro, nel secondo caso nel manico). Witten e colleghi trovarono il modo di “compattificare” le dimensioni extra previste dalla teoria delle stringhe utilizzando le varietà di Calabi-Yau, che possono essere immaginate, nella metafora di Yau, “come un foglio di carta appallottolato, con piegature su piegature: solo che queste pieghe sono molto accurate, rispondono a leggi precise. Uno spazio compatto non contiene regioni infinitamente lunghe o larghe, anche se il sistema di piegature fa sì che il molto possa stare nel poco, come in una valigia preparata con cura”iii.
Il diametro di uno spazio di Calabi-Yau è dell’ordine di 10^--30 cm. Non c’è da stupirsi dunque che le dimensioni extra sfuggano ai nostri sensi, eppure questi spazi di Calabi-Yau sono presenti in ogni punto dello spazio-tempo che conosciamo.
A questo punto l’ultimo passo necessario per ottenere una “teoria del tutto”, ossia una descrizione unitaria della natura in grado di superare l’irriducibile dicotomia tra fisica quantistica e relatività generale, consisteva nel trovare la giusta varietà di Calabi-Yau, ossia il modo di compattificare le dimensioni extra tale da consentire di ottenere tutte le famiglie di particelle previste del Modello Standard. Yau conosceva due sole varietà, ma quando si mise a calcolare il numero di varietà possibili, scoprì “che con tutta probabilità dovevano essere qualche decina di migliaia, ciascuna delle quali rappresenta una topologia diversa e una diversa soluzione delle equazioni della teoria delle stringhe”iv. Disastro. Come se non bastasse, più o meno nello stesso periodo i fisici teorici si resero conto che esistevano cinque versioni diverse della teorie delle stringhe, chiamate di tipo IA, tipo IIA, tipo IIB, eterotica O ed eterotica E. Finì tutto in un punto morto finché nel 1995 Witten non fece il miracolo, dimostrando che le cinque versioni non sono altro che diverse espressioni – basate su diversi valori della costante di accoppiamento – di un’unica teoria più ampia. Witten la battezzò “teoria M”, ed oggi sostituisce di fatto la teoria delle stringhe. Per cosa sta la M? Secondo alcuni, per “miracolo”, come quello compiuto da Witten nel 1995, rimettendo i fisici in carreggiata; secondo altri, per “mistero”. In realtà sta per “membrana”, perché la nuova teoria prevedeva due cose singolari: la prima è che, per funzionare, devono esistere non più dieci, ma undici dimensioni, quindi una dimensione spaziale extra in più, che non è compattificata, ma estesa; la seconda, ancora più importante, è che non esistono solo stringhe, ma anche membrane o brane, di dimensioni diverse. Una 2-brana è una brana a due dimensioni, praticamente uguale a un foglio di carta (se non si tiene conto dello spessore); il nostro mondo è una 3-brana, ossia un brana con tre dimensioni spaziali. Secondo la teoria M, le stringhe non sono altro che 1-brane, ossia brane unidimensionali. Tutte queste brane fluttuano e vibrano all’interno di uno spazio più ampio, che è l’undicesima dimensione, il bulk.
A questo punto si intuisce immediatamente una conseguenza, l’esistenza di un nuovo tipo di multiverso, il multiverso a brane. Può esistere un gran numero di 3-brane, ciascuno di estensione grosso modo simile al nostro universo. Tutte i mondi-brana rispetterebbero lo stesso set di leggi fondamentali della fisica, perché emergono tutte dalla stessa teoria, ma i valori delle costanti possono cambiare. Come spiega Brian Greene: “Alcuni mondi-brana potrebbero essere simili al nostro, pieni di galassie, stelle e pianeti, mentre altri potrebbero essere molto diversi”v. Naturalmente, questi mondi si trovano al di fuori della nostra portata. Tuttavia, c’è qualcosa che riuscirebbe a uscire dalla 3-brana che costituisce il nostro universo e interagire con le altre brane: la gravità. La teoria M afferma che le particelle che conosciamo sono stringhe unidimensionali vincolate a una brana, mentre così non può essere per la forza gravitazionale, perché la relatività generale la descrive come una proprietà dello spazio-tempo, pertanto essa si esercita su tutte le dimensioni, anche su quelle extra. Questo spiegherebbe perché la forza gravitazionale è così debole rispetto alle altre tre forze fondamentali (è vero infatti che ci tiene ben legati al suolo, ma sappiamo anche che la forza di un braccio che alza un carta caduta per terra è sufficiente a contrastare la forza gravitazionale).
L’ipotesi delle brane avanzata dalla teoria M risolse un problema, ma ne aggravò un altro, quello del numero di possibili spazi di Calabi-Yau. Si scoprì che le brane producevano un campo, esattamente come avviene per talune particelle: quelli che conosciamo più o meno tutti sono il campo magnetico, prodotto da un magnete, e il campo elettrico, prodotto da un elettrone. Ebbene, una brana produce un campo branico. Quando però uno spazio di Calabi-Yau interagisce con un campo branico si producono delle distorsioni. Per ogni regione aperta di uno spazio di Calabi-Yau (ossia per ogni “buco”), si possono avere dieci modi diversi in cui lo spazio viene distorto, quindi dieci nuove forme. Ma non bisogna dimenticare che gli spazi di Calabi-Yau devono compattificare ben dieci dimensioni spaziali, compito improbo, per cui danno vita a forme estremamente complicate, che possono arrivate ad avere fino a 500 regioni aperte. Ne consegue che possiamo avere la bellezza di 10^500 modi diversi di compattificare le dimensioni extra. Questa fu la stima a cui giunsero nel 2003 Shamir Kachru, Renata Kallosh, Andrei Linde e Sandip Trivedi, chiamati familiarmente dalle loro iniziali KKLT. Quando aveva parlato di qualche decina di migliaia di forme possibili, Yau era stato di gran lunga troppo ottimista. È chiaro che così diventa impossibile ottenere qualsiasi valore predittivo dalla teoria M/delle stringhe: non esiste una sola varietà di Calabi-Yau tale per cui le dimensioni extra si possono compattificare in modo che le vibrazioni di stringa (o meglio di brana) diano conto delle particelle previste dal Modello Standard, ma ne esistono 10500, un numero inimmaginabile (basti pensare che il numero di particelle che compongono l’universo è enormemente inferiore, appena 10^80). Ma ancora una volta questo risultato, che avrebbe scoraggiato chiunque altro, non convinse gli stringhisti a gettare la spugna. “Forse, secondo loro, i decenni di tentativi infruttuosi di definire la forma delle dimensioni extra indicano qualcosa”, scrive Brian Greene. “Forse, sempre secondo questi audaci stringhisti, dobbiamo prendere sul serio tutte le possibili forme e tutti i possibili flussi che emergono dalle equazioni della teoria delle stringhe. Forse, insistono, la ragione per cui le equazioni contengono tutte queste possibilità è che sono tutte reali, e ciascuna forma è la parte extradimensionale di un differente universo”vi.
Di fatto, ogni varietà di Calabi-Yau comporta diverse soluzioni delle equazioni della teoria delle stringhe, di conseguenza particelle e costanti fisiche diverse. Ciascuna di queste soluzioni, inoltre, corrisponde – spiega Yau – “a un universo caratterizzato da uno stato di vuoto diverso e, pertanto, da un’energia del vuoto diversa”vii. Si ritorna così alla stessa situazione da cui partirono Guth, Linde e Vilenkin quando ipotizzarono l’idea dell’inflazione (v. la prima parte di questa storia, http://www.fantascienza.com/20825/il-migliore-degli-universi-possibili-la-scoperta-del-multiverso-parte-i). Il nostro universo possiede un certo livello di energia del vuoto, ma ce ne possono essere molti altri. Una palla che cade da un’altura in una vallata passa da uno stato di energia a un altro, considerato lo stato di energia minimo. Analogamente, spiega ancora Yau, “ciascuno degli avvallamenti sulla superficie corrisponde a una diversa soluzione della teoria delle stringhe: una diversa varietà di Calabi-Yau che occupa questo o quello stato di vuoto”viii. Leonard Susskind ha battezzato questo sterminato insieme di possibili varietà il paesaggio cosmico.
Nel 2003, quando il gruppo KKLT se ne venne su con quel drammatico numero, Susskind pensò che non era il caso di abbandonare la partita, ma anzi di trasformare questo nuovo vicolo cieco in un’opportunità. Sappiamo infatti che esiste in natura un gran numero di parametri arbitrari, i cui valori non possono cioè essere dedotti da princìpi primi: le masse delle particelle, le costanti di accoppiamento delle quattro forze fondamentali, la cosiddetta costante di natura fine (pari a 1/137) e così via. Variando solo di poco di questi valori, il nostro universo avrebbe caratteristiche completamente diverse, tali comunque da renderlo inospitale per forme di vita come la nostra. Ciò ha spinto alcuni teorici ad avanzare il cosiddetto “principio antropico”, che nella sua versione più tautologica sostiene semplicemente che i parametri arbitrari assumano quei particolari valori perché altrimenti noi non staremmo qui a parlarne. È evidente come una simile spiegazione non piaccia agi scienziati, per i quali è sempre necessario arrivare a sviluppare una teoria esplicativa che non abbia bisogno della nostra presenza per risultare valida. Susskind tuttavia non è dello stesso avviso. Dal suo punto di vista, se si accetta l’ipotesi che possono esistere 10^500 diversi possibili universi, ciascuno con valori diversi per i parametri arbitrari, allora non c’è nulla di strano nel fatto che in almeno uno di essi tali parametri assumano valori che rendono possibile l’esistenza della vita come la conosciamo. Mentre il “paesaggio cosmico” è semplicemente l’insieme delle possibili forme delle varietà di Calabi-Yau, Susskind definisce “paesaggio popolato” la concezione secondo cui esisterebbe un multiverso in cui tutte queste possibili forme si trasformano da possibilità matematiche a realtà fisiche, per tramite di quel meccanismo previsto dai teorici dell’inflazione eternaix. L’idea è seducente, perché utilizza la teoria M/delle stringhe per arrivare alle stesse conclusioni che, in campo cosmologico, hanno portato allo sviluppo della teoria dell’inflazione, la quale in tal modo assume una seconda possibile dimostrazione.
Tutto ciò si basa su un’ipotesi che non solo non è stata ancora verificata, ma che in linea teorica potrebbe essere inverificabile: se infatti le dimensioni extra sono compattificate al punto da avere una lunghezza quasi pari a quella di Planck, non c’è modo di individuarle con le attuali tecnologie, e nemmeno con quelle pensabili nei prossimi decenni. Esistono però modi indiretti con cui potremmo provare la teoria. Secondo diversi fisici che hanno sviluppato negli anni la teoria M/delle stringhe, non è solo il “gravitone” – ossia il bosone che veicola la forza gravitazionale – a possedere la proprietà di spostarsi nel bulk pluridimensionale in cui fluttuano i mondi-brana, ma anche altre tipologie di particelle che ancora non conosciamo. Queste particelle interagiscono con la nostra brana e con le altre, per cui dovrebbero lasciare qualche tipo di traccia. Quando si trovano all’interno della nostra 3-brana, assumono l’aspetto di particelle che si muovono in tre dimensioni, anche se in realtà sono extradimensionali. I fisici le chiamano “particelle di Kaluza-Klein”. La loro massa tiene conto della quantità di moto accumulata nei loro viaggi extradimensionali, mentre le loro cariche coincidono con quelle delle particelle che conosciamo. Poiché negli acceleratori di particelle come LHC non sono state finora individuate tracce di queste particelle di Kaluza-Klein (che si manifesterebbero appunto come partner di uguale carica ma di massa maggiore di quelle del Modello Standard), i fisici ne traggono la conclusione che effettivamente le dimensioni extra sono molto piccole, altrimenti le avremmo già scoperte. Lisa Randall, che è tra le principali sostenitrici di queste particelle, ritiene che dovrebbero possedere una massa intorno a 1 TeV (teraelettronvolt), per cui ora che l’acceleratore LHC è in grado di raggiungere l’energia di collisione di 13 TeV, avremmo dovuto osservarle abbastanza facilmentex. Invece così non è stato. Ciò sembra essere un colpo piuttosto forte per la teoria M, perlomeno per alcune versioni di essa che prevedono interazioni tra le diverse brane del bulk (come appunto il modello sviluppato da Lisa Randall insieme a Raman Sundrum). Esistono tuttavia altri tipi di tracce che le brane potrebbero lasciare in seguito a una loro interazione; per osservarle non dovremmo cercare all’interno degli acceleratori di particelle, ma nel cielo.
(continua…)
i Cfr. Ian Stewart, L’eleganza della verità. Storia della simmetria, Einaudi, Torino, 2008, p. 251.
ii Shing-Tung Yau e Steve Nadis, La forma dello spazio profondo, Il Saggiatore, Milano, 2013, p. 118.
iii Ivi, p. 192.
iv Ivi, p. 204.
v Brian Greene, La realtà nascosta. Universi paralleli e leggi profonde del cosmo, Einaudi, Torino, 2012, p. 147.
vi Ivi, p. 162.
vii Yau e Nadis, op. cit., pp. 310-311.
viii Ivi, p. 311.
ix Cfr. Leonard Susskind, Il paesaggio cosmico. Dalla teoria delle stringhe al megaverso, Adelphi, Milano, 2007, p. 279.
x Cfr. Lisa Randall, Paesaggi curvi. I misteri delle dimensioni nascoste dell’universo, Il Saggiatore, Milano, 2008, pp. 366-425.
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