‒ Tum tutum tu tum tu tum tum tum tum tum tu…
‒ Per favore!
‒ Scusa ‒ dico alla mia collega, smettendo di canticchiare. Lo faccio inconsapevolmente quando sono in condizioni di stress, e chiudere le valutazioni dei nostri piccoli studenti del primo anno (ventuno bambini di sette anni, tutti settimi figli di settimi figli di varia nazionalità) per le vacanze è sempre una rincorsa estenuante.
Per quanto ci si possa preparare adeguatamente settimane prima, si arriva sempre con l’acqua alla gola, alla faccia della programmazione.
Depongo silenziosamente il fardello costituito dai quaderni rilegati in pelle nera con il monogramma della scuola in viola e mi siedo al tavolo pentagonale della sala insegnanti.
Odio correggere i compiti su questo tavolo.
Le rune incise rendono la scrittura balzellante anche se la pergamena è ben resistente.
Faccio tre inspirazioni profonde a occhi socchiusi, visualizzo la mia sfera e la modello con le mani, la introietto e inizio il lavoro.
Correggo mezza pagina e alzo gli occhi.
Sjobahn mi sta osservando, e so già cosa dirà.
‒ Ti odio.
‒ Perché? ‒ Chiedo. Adesso verrò trascinato in una discussione che mi farà perdere tempo e concentrazione, ma so che per lei sarà rigenerante e poi finalmente potremo lavorare.
‒ Come fai a mantenerti così calmo?
‒ Potenza della Matematica Cabalistica. ‒ Ovvero la mia materia.
‒ Non scherzare. ‒ ribatte lei tra il divertito e l’adirato.
‒ Dopo qualche anno ci si fa l’abitudine. Seriamente, Sjobahn, è parte integrante del nostro lavoro.
Ho assunto il tono del vecchio esperto, eppure ho tre anni meno di lei, ma dieci in più di lavoro.
Lei insegna Lingue Arcane, alias Filastrocche come i nostri deliziosi discepoli settenni amano definire la sua materia (la mia viene definita Numeracci) e passa più ore di me con loro cercando di aiutarli a ottenere la giusta intonazione fonetica e l’esatta scansione metrica nella recita di antichi incantesimi, una fatica improba.
‒ D’accordo, mi rimetto al lavoro, però poi mi insegni a visualizzare la sfera?
Ecco, Sjobahn mi è antipatica, ma non posso esimermi dal risponderle.
‒ Va bene, ma per l’ultima volta, se poi non ci riesci non ne parliamo più. ‒ Mi sorride un po’ mesta, e torna al suo lavoro.
Altri tre respiri a occhi chiusi per me e faccio lo stesso.
Correggo tredici compiti poi il quattordicesimo mi costringe a tornare indietro spesso, controllare e ricontrollare.
È un disastro.
Non solo ha terminato gli esercizi con quarantanove minuti di ritardo rispetto agli altri, ma le operazioni sono scritte in pessima grafia, incolonnate schifosamente e…
Però c’è una strana simmetria.
Allontanando il foglio e osservandolo nel suo insieme mi accorgo che gli errori sono simili e si ripetono, provo a immaginare come mai faccia costantemente quel preciso tipo di errore e, ignorando il fastidio che mi provoca vedere un foglio ridotto così, mi rendo conto che Caterina Dushak è affetta da discalculia ovvero non ha automatismo nello svolgere semplici operazioni di addizione e sottrazione dei simboli cabalistici; insomma: ogni volta il suo cervello deve ricominciare da capo.
Mi sento triste per lei.
La mia collega sbuffa, evidente segnale che vuole riaprire un contatto.
Mi arrendo.
‒ Cosa c’è?
‒ Guarda quest’esercizio di metrica di Caterina. ‒ E spinge verso di me il quaderno.
La suddivisione dei versi che Caterina dovrebbe svolgere con segni rossi mentre li legge è sbagliata, esitante, e la trascrizione accanto contiene in ogni terzina almeno un paio di errori di posposizione o scambio di sillabe e lettere, anche qui sempre le stesse.
‒ È dislessica. ‒ Dico, e sento già il peso di doverlo comunicare al preside e poi ai genitori.
Pauline mi guarda sgranando gli occhi. ‒ Dislessica? Una di quelli che confonde parole e sillabe?
Si sta agitando, la capisco, le costerà il triplo della fatica riuscire a ottenere il minimo da Caterina.
Annuisco. ‒ Sì, ho già avuto esperienza di bambini simili, credimi, è così.
‒ Grande Madre! ‒ Invocazione o bestemmia? Comunque è accorata.
‒ Non prendertela, è rimediabile, non sempre riusciamo ad accorgercene al primo trimestre.
‒ Tu non capisci! ‒ Si è alzata in piedi, e mi sembra che stia tremando.
‒ Calmati, dai…
‒ E invece no ‒ sibila ‒ sono tre giorni che non legge il compito che le assegno e ora è in biblioteca per punizione a leggere ad alta voce il rotolo di Babele!
‒ Be’, quella sì che è una serie di filastrocche inutili, assolutamente incompren…
La consapevolezza mi mozza la frase in bocca.
Caterina che non capisce quello che legge, sposta le sillabe, cambia le lettere, scandisce aritmicamente gruppi di parole che andrebbero lette separatamente.
‒ La teoria dell’allitterazione.
Scatto in piedi prima di Sjobahn, spalanco la porta e mi lancio per le scale col fiato corto.
La teoria di Von Lausen, il più insigne studioso del rotolo di Babele, mi risuona nella testa, l’abbiamo sempre ritenuta tutti poco più che una chiacchiera del dopo cena.
È possibile che la divisione dei versi sia aleatoria, e che alcune frasi siano allitterate o anagrammate con una chiave criptica ma l’insieme delle due cose costituisce un linguaggio incomprensibile e solo una mente aliena potrebbe riaprirne i segreti.
Non una mente aliena, ma una mente diversa.
‒ Ma che ti è saltato in mente? Proprio il rotolo di Babele! ‒ Non riesco a trattenermi dal rimproverare Sjobahn.
‒ Perché, la punizione solita qual è?
Ha ragione, quella è la punizione classica di Filastrocche. Leggere qualcosa di incomprensibile controllati solo dalle orecchie dei ventotto pipistrelli della biblioteca, ci si sente inutili e frustrati e si evita per sempre di ripetere una simile esperienza.
Siamo sull’ultima rampa verso la biblioteca, sento il cantilenare della voce argentina della bimba.
Si inceppa a tratti, poi ricomincia, ma ha una sua regolarità.
Per un attimo mi sento rincuorato, ma è un solo microsecondo.
Adesso mi pare di sentire tonalità profonde insinuarsi nella voce, come una specie di ringhio che sorge dagli abissi, i pipistrelli iniziano a stridere. Dietro di me Sjobahn si lamenta in preda al panico, Caterina prosegue imperterrita.
‒ Caterina, basta così, apri la porta! ‒ Urlo, ma la vocina prosegue.
Faccio leva sulla maniglia della porta della biblioteca proprio mentre dall’interno il ruggito si accompagna al rumore di legno fracassato e al boato come di una grande onda.
Con una spallata apro la porta e vedo davanti a me i segreti del rotolo disvelati e l’inizio della fine.
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