Pienamente cosciente.
Lentamente si stavano affievolendo le sensazioni tattili del contatto con il materiale morbido di cui era fatta la DSC.
Rilassata. Sì, poteva dirsi scivolata in uno stato di serena atonia.
Il tempo incominciava a non rappresentare più un parametro misurabile.
La verticalità degli eventi si spostava a mano a mano verso una piatta linea d’orizzonte, senza alcun desiderio di rivelarne l’origine.
E immagini.
Tante.
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Una Extra-Lusso veniva a costare 2000 crediti, cifra non alla portata di tutti, ma comunque non proibitiva. Il lavoro all’università le aveva permesso di mettere da parte a sufficienza.
Betel percorse a piedi le strade bagnate di pioggia che l'avrebbero portata da casa sua, vicino al centro di Parigi, fino a Rue du Palais, alla periferia nord della città.
Già dalle sette di sera, in quella stagione, la gente per strada non era molta e quelle poche sagome che s’incontravano erano vestite di tessuti pesanti, che ne nascondevano quasi del tutto la fisionomia.
Dopo dieci minuti di cammino riprese a piovere e Betel – uscita senza ombrello, pensando che le quattro ore ininterrotte d'acqua del pomeriggio avessero esaurito le scorte celesti – attraversò la strada. Il marciapiede opposto offriva più possibilità di trovare un riparo tra le pensiline e i tendoni, visto il maggior numero di negozi rispetto al lato su cui stava camminando
Il suono della pioggia lasciava spazio ad altri rumori, che arrivavano perlopiù dalle poche macchine in circolazione e da qualche apparecchio televisivo tenuto a volume un po' troppo alto per un normale apparato uditivo.
Ad una svolta a sinistra, mise un piede in una pozza d'acqua più profonda di quelle incontrate fino a quel momento e in pochi secondi sentì la punta del piede bagnarsi. Non aveva ovviamente previsto calzature di ricambio, quindi avrebbe dovuto proseguire in quelle condizioni fino a destinazione.
Arrivò a Rue du Palais dopo altri cinque minuti di cammino. Al numero 21, meta del suo peregrinare, corrispondeva una porta in legno scuro di ottima fattura, con una targhetta di bronzo, su cui erano incise due iniziali in caratteri maiuscoli: L.M.
Aveva avuto quell'indirizzo da Maurice, un collega del centro ricerche universitario, dove lavorava da cinque anni.
Maurice le aveva passato anche un numero di telefono al quale poter prendere appuntamento. Il numero era chiaramente riservato e lei non avrebbe dovuto darlo a nessun altro. Perlomeno non prima di aver provato i servizi che le sarebbero stati offerti e, comunque, non prima dell'esplicito consenso del Professore.
Alla destra di Betel, di fianco alla porta in legno, c'era un unico pulsante. La donna attese qualche secondo, guardandosi intorno, quasi come se le cose, i palazzi e le strade che le erano accanto potessero di colpo scomparire quando avesse deciso di utilizzare quel pulsante.
Giusto qualche secondo.
Appoggiò il dito e premette con decisione.
Non si udì alcun suono provenire dall'interno e il paesaggio circostante non scomparve.
Il rumore metallico della serratura, che veniva sganciata da una bobina magnetica, si fece largo tra tutti gli altri della via e cancellò per un attimo anche quello incessante della pioggia.
La porta si aprì, scostandosi di pochi centimetri dai battenti.
Betel mise una mano sulla piccola maniglia tonda, anch’essa in ottone, e spinse lievemente verso l'interno, entrando nell'abitazione di Rue du Palais 21.
Appena si fu richiusa la porta alle spalle si rese conto che, in modo automatico, una luce aveva illuminato il piccolo atrio in cui ora si trovava, mettendo in evidenza un color bruno alle pareti e pavimenti di marmo quasi completamente bianco. Di fronte alla porta d'ingresso ce n’era un'altra semiaperta, che dava la vista su un paio di sedie in legno vicine a un tavolo o a una scrivania, della quale si aveva solo una visione parziale. Alla sinistra di Betel vi era una parete completamente spoglia mentre, alla sua destra, il muro color marrone accoglieva un attaccapanni in metallo a forma di onda, con quattro posti disponibili.
- Prego, signorina Mercer – La voce stentorea proveniva dalla sala cui dava accesso la porta semichiusa.
Betel fece due passi in avanti e, anche questa volta, spinse la porta nella direzione del proprio movimento. La aprì completamente per ritrovarsi al cospetto di un uomo sulla cinquantina, seduto su una poltrona in pelle nera che, a confronto delle dimensioni del suo occupante, sembrava insufficiente a sostenerne il peso.
Di fronte all'uomo e all’eroica poltrona, si trovava un piccolo tavolo basso su cui erano appoggiati due libri chiusi. All’altro lato del tavolino c’era un divanetto, anch’esso nero. La scrivania, tale era risultata una volta palesatasi completamente, era posta al lato sinistro della stanza e le sedie che le orbitavano intorno, si sarebbe detto in modo casuale, erano cinque, non due soltanto.
La stanza era abbastanza grande, con pavimenti in legno molto chiaro, nascosti in parte da tre grandi tappeti multicolore. Uno dei tappeti accoglieva nella propria area la poltrona e il divano neri, il tavolino basso e ciò che vi era appoggiato.
- Entri, la prego – ripeté l’uomo, indicando con una mano i posti a sedere di fronte a sé.
- Buonasera professor Masinsky – disse Betel, camminando in direzione di quella che doveva sicuramente divenire l'area deputata ad accogliere il loro incontro. Non vi erano particolari profumi che aleggiassero all'interno del locale, ma questo non faceva della stanza uno spazio asettico, anzi.
Probabilmente la luce calda profusa dalle due lampade da terra, poste agli angoli contrapposti della sala, era sufficiente a creare una sorta di plasticità ambientale, in grado di indurre nei presenti una sensazione, quasi tattile, di tranquillità.
Anche qui le pareti erano di un colore bruno, ma decisamente più chiare di quelle all'ingresso.
Alle spalle dell’uomo c'era un quadro di circa un metro di lunghezza per settanta centimetri di altezza.
Vi erano ritratte tre persone vestite in abiti chiari, ma non bianchi, mentre risalivano un fiume a bordo di una piccola imbarcazione della quale non si vedevano vele o motori.
Una delle tre persone ritratte era una donna ed era l'unica a guardare verso la stanza, o forse sarebbe meglio dire verso l’artista che stava rappresentando la scena. Il viso della donna sembrava sorpreso e, nello stesso tempo, incapace di essere abbastanza spaventato per far divenire quest'ultima emozione quella dominante. Al vedere il dipinto, Betel s'irrigidì lievemente, ma percorse gli ultimi metri che la separavano dalla posizione indicata per lei dal professore, cercando di mascherare il lieve disagio.
- Bene signorina Betel, posso chiamarla così, vero? – disse Leopold Masinsky, mentre la donna si sedeva sul lato destro del divano.
- Certo professore, va benissimo – rispose la donna, che solo adesso ricominciava a notare l’umidità che stava filtrando dai vestiti e che era evidente già da un po' sulla punta del piede sinistro.
- Quindi, mi diceva al telefono che ha avuto il mio numero da Maurice – proseguì Masinsky, guardando la donna di corporatura decisamente esile.
- Sì, Maurice Mesher è un mio collega e mi ha raccomandato più volte di non passare questo numero a nessuno che non sia della massima fiducia e non prima di… – Betel sospese la frase, come a cercare la parola giusta per non creare imbarazzi.
-… di aver provato i servizi offerti – terminò il professore, con un leggero sorriso.
- Direi che possiamo passare subito a parlare della sua richiesta – continuò Masinsky, spostandosi leggermente sulla poltrona.
- Sì. Io sarei interessata ad una Extra-Lusso. Maurice mi ha già informato sui costi e quindi ho con me la cifra da versare alla fine del nostro incontro – Betel si sentiva adesso più a proprio agio e questa condizione le fece notare che in sottofondo, ad un volume veramente basso, la stanza era percorsa dalle note di un'opera lirica, di cui al momento non ricordava il titolo.
- Una Crociera Extra-Lusso le costerà 2000 crediti, ma questo mi ha appena detto di saperlo già. Non sono sicuro, però, che Maurice le abbia detto che sarò io a decidere se e quando interrompere la Crociera, a discrezione della mia esperienza – il professor Masinsky parlava in modo pacato e deciso allo stesso tempo e sembrava ci tenesse in modo particolare a che i propri turisti non avessero sorprese che potessero mettere a repentaglio l'intera l'esperienza.
- In effetti, Maurice mi ha soltanto detto che lei è, per così dire, uno tra i più affidabili e mi ha consigliato di seguire semplicemente le sue istruzioni -
- Allora, signorina Mercer, possiamo spostarci nell'altra sala per il check-in, non prima però di averle mostrato il bagno, dove potrà asciugarsi e cambiarsi d'abito, indossando direttamente l'abbigliamento da viaggio – Rivelando appieno la propria mole, il professore si alzò dalla poltrona. – La parete dietro di lei è scorrevole. Mi segua e decideremo insieme rotta e coordinate –
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Dilatati istanti di memoria ripercorsi in modo lucido, come mai è lucido il momento in cui le cellule cristallizzano l’informazione.
Laurea, la prima.
Il gioco di noi bambini di fronte alla scuola.
Sam. Il grande Sam.
Candeline. Quattro. Soffia. In macchina, a vomitare quanto alcol è ancora nello stomaco.
Incoerente. Digitale.
La mente è disarticolata in assenza di radici.
Tommy e il suo pallone da basket.Tirare pallonate a un canestro, quella la sua missione.
Annie, che cosa hai fatto dopo gli studi?
Cosa vuoi fare da grande?
Tommy lascia stare. Non fidarti.
Domande. Sempre più domande.
Divise e uniformi.
Mio fratello è uscito, perché lo cercate?
Annie, non credevo.
So che non hai fatto niente Tommy, lo sappiamo tutti.
Non volevo dirlo.
Annie lo sapeva.
Non io.
Sam, Tommy sa che lo aiuterai.
Candeline. Quattro. Soffia.
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La preparazione al viaggio era qualcosa che sapeva sempre di nuovo, anche dopo tutti gli anni passati a svolgere l’attività extra legale di traghettatore.
Ogni persona rivelava caratteristiche talmente personali e private, quando si trovava seduta su una DSC; ti parlava in pochi minuti di tutto quanto gli sembrava potesse essere importante riguardo alla propria vita.
Forse era il timore inconscio di potersi perdere e di volere che qualcuno avesse la possibilità di riportarti lì, da dove eri partito e nelle stesse condizioni in cui eri partito.
Perdersi. La maggioranza aveva paura di perdersi.
Una paura ben più articolata di quella che si prova nel buio o davanti a qualcuno con cui stai per batterti.
Quando la paura di non ritrovarsi fa capo ad un viaggio al proprio interno, dove nessuno oltre te può riconoscere la strada del ritorno, complica la propria natura e ti fa sentire realmente solo.
Nessuno a cui chiedere, nessuno fermo a un angolo della tua mente a indicarti la direzione, nessuno che possa in qualche modo entrare a far parte del mondo che percorrerai di lì a poco.
Betel faceva sicuramente parte di quella categoria che è spinta a provare per poter dire di conoscere. Nei minuti trascorsi aspettando che la donna si cambiasse d’abito e fosse pronta per la fase esecutiva, il professor Masinsky si era ritrovato, come sempre, a costruirsi un’immagine della persona con cui avrebbe lavorato nelle ore seguenti.
Troppo giovane, troppo timidamente decisa per scappare semplicemente da una realtà che non riusciva più ad indossare.
Occhi più curiosi di quanto non volevano far intravedere.
Il flusso dei pensieri del professore fu interrotto dalla donna che rientrava nella stanza posta dietro la parete scorrevole, dopo la sosta in bagno.
- Betel, le farò alcune domande mentre rileveremo la sua impronta neuronale di base -
- D’accordo, professore –
- Le chiedo di sedersi direttamente sulla DSC, appoggiandosi delicatamente al poggiatesta. I rilevatori sono inseriti lì, ma credo che le sue competenze tecniche rendano inutile la mia informazione, vero? – Masinsky si esibì in uno dei suoi più abili sorrisi, per permettere a Betel di rilasciare ancora un po’ della tensione che sicuramente aveva accumulato nei giorni passati, attendendo questo momento.
- Diciamo che l’informazione non sconvolge la mia preparazione accademica – A sua volta, la donna accompagnò la risposta con un sorriso che fu, per il professore, la conferma delle sue buone capacità di comunicatore.
Accomodatasi, non rimaneva che rispondere alle domande di Masinsky.
- Per mia conoscenza personale. No, solo disturbi gastrici da stress. Tutti ancora viventi. Sono nata a Bordeaux il 23 aprile 2031. Fisica teorica e filosofia. Docente e ricercatrice universitaria. Mai assunto sostanze psicotrope…tutto qui?- Betel si aspettava probabilmente qualcosa di più articolato.
- Sì, ciò che realmente è necessario per la crociera è il suo tracciato neuronale di base, che deve essere conforme a uno standard minimo, così da poter supportare la graduale inibizione frequenziale. E di questa cosa abbiamo già la risposta – Il professore, sorridendo nuovamente, invitò la donna a guardare una fila di piccole luci verdi comparse su uno dei due terminali che elaboravano i dati della DSC.
- Adesso direi che può appoggiarsi ancora più comodamente e lasciarsi condurre nel viaggio. A dopo, Betel – Il sorriso di Masinsky era ormai diventato una gradevole costante.
- Bene. Grazie professore. A dopo – La donna chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi ulteriormente, incominciando a sentire il suono leggero, morbido e atonale dei processori della DSC che incominciavano a entrare nel vivo del loro lavoro.
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Buio.
E sudore. Forse.
Battito accelerato.
Ma il battito non esisteva più.
Il sudore non esisteva più.
La pelle stessa su cui sentiva scorrere quel sudore non esisteva più.
Erano semplici conserve di memoria. Era stata avvisata.
La mente non rinuncia alle proprie periferiche, ne costruisce una rappresentazione virtuale per un tempo variabile da persona a persona.
Niente mani, niente occhi, niente orecchie.
Virtuale, appunto.
Sapeva benissimo che tutto ciò che era percezione, adesso trovava posto nella definizione di conserva di memoria.
Nulla era espressione corporea. Tutto era memoria di quell’espressione. Tutto era particolarmente permeabile, così come la materia di cui sono costruiti i pensieri.
Una Extra-Lusso, portava la mente a spingersi fino allo svuotamento delle conserve di memoria, per ritrovarsi di fronte al Puro Impalpabile, al Grande Nulla, al Vuoto Divino.
La Nuova Mistica.
Sua madre.
Suo fratello.
Colpevole chi?
Rosso, troppo rosso.
Chiudi gli occhi.
Niente occhi, niente palpebre.
Li vorresti adesso, gli occhi.
Il bosco.
Non è stato lui.
Non sei stata tu.
Pesa anche se non ha spalle su cui poggiare, la colpa.
Maurice.
Voce e un urlo che non se ne serve.
Maurice.
Buio.
Non nero.
Vuoto.
Non mancante.
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Di tutti i turisti che si erano rivolti a lui, Betel si era mostrata la meno propensa a parlare di se stessa. Lo incuriosiva immaginare quanta sicurezza o, al contrario, quanta paura potesse esserci dietro i modi di quella giovane donna.
Leopold Masinsky aveva i lineamenti spigolosi, nonostante il viso rispettasse le proporzioni della propria intera massa corporea. Era una caratteristica resa evidente da un naso troppo appuntito che faceva da linea di confine tra due occhi chiari, tendenti al verde e non troppo rotondi. I capelli corti e brizzolati, appoggiati sulla mole che ne caratterizzava la struttura, gli facevano assumere un'aria sufficientemente informale, capace di conquistare velocemente la fiducia e la simpatia del prossimo.
Da quasi quindici anni operava in quel settore extra legale, avendone acquisito conoscenze tali da vedersi considerare come uno dei più affidabili traghettatori del mercato francese.
"Extra legale" era una definizione che lo faceva sentire più tranquillo nei confronti della propria coscienza.
Sete di conoscenza.
Forse era partito con questo intento.
Era impressionante quanto spesso si accorgeva che assistere i propri turisti diventava anche per lui un viaggio all’interno dei propri paesaggi mentali.
Il silenzio delle ore che passavano nella stanza, la presenza del turista in un preciso stato di coscienza che riusciva a contaminare il proprio, una naturale predisposizione all’introspezione amplificata da tutte queste evenienze; qualsiasi cosa fosse, non c’era stata una volta che Leopold era uscito dalla crociera di un proprio turista senza aver vissuto una sorta di esperienza parallela, all’insaputa di quest’ultimo.
Sete di conoscenza.
Lui personalmente si era seduto su una DSC solo due volte.
Una Standard e una Extra-Lusso, erano state sufficienti.
La tua mente diventa l’oggetto più acuminato con cui sezionare e interpellare se stessa, tra le crepe formate dal tempo e dalle tue credenze.
Sottile, più sottile di un ago che penetra nella carne, capace di creare intorno a sé spazi immensi in cui ti accorgi di poter navigare lontano.
Forse troppo lontano.
Vuoi credere, forse sperare, che lì tutto si svolga e dia il senso ultimo alle cose. Lì dove nulla esiste più per distrarti, dove i sensi non spingono più e rinunciano a chiamare il mondo con i nomi che conoscono da sempre.
Lo vuoi credere, lo vuoi sperare.
È lì che potrai trovare le risposte.
È lì che finalmente potrai sapere chi sei veramente.
Anche se ti dicono "no", lo stesso "no" riciclato dagli anni in cui era il colloidale a molecola d’argento a rappresentare la fuga verso paradisi artificiali mascherati da esperienza trascendente; lo stesso "no" che da sempre esiste per essere eluso.
Aveva voluto provare a traghettare altri verso i luoghi più nascosti della loro mente, dove andavano a chiedere asilo le più grandi paure e le più inafferrabili gioie.
E aveva capito che, per lui, era di gran lunga più interessante stare all’esterno del morbido abbraccio della DSC.
Non avrebbe cambiato per nulla al mondo alcuni stati di coscienza sperimentati nelle ore passate a fare da controllore e navigatore per i propri turisti.
Il commercio extra legale delle DSC non avrebbe mai concordato su questa visione del professor Masinsky, ovviamente.
Ancora quest’anno. Poi, forse, si sarebbe ritirato dal mercato.
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Ferma.
Non puoi.
Avanti.
Non vuoi.
Buio.
Non nero.
Vuoto.
Non mancante.
L’inutile.
Altro andava considerato.
L’inutile giudizio di chi non conosce.
Neppure io conosco.
Il tempo potrà sciogliere i perché.
Motivi che rincorrono domande.
Il sorriso, il mio finalmente.
Buio.
Non nero.
Vuoto.
Non mancante.
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Come sempre accadeva, anche adesso, mentre guardava quella donna seduta sulla poltrona di deprivazione sensoriale centralizzata – DSC, i pensieri gli vorticavano attorno a un centro invisibile nel cervello. Una giostra che incominciava a girare in modo incostante e incoerente, per stabilizzarsi con il passare del tempo.
La donna, sulla poltrona inclinata a 45°, indossava una tuta attillata bianca in materiale semi organico siliceo, necessario per amplificare la connessione dei vari centri corporei ai trasmettitori frequenziali inseriti nella DSC.
Due ore era il tempo previsto per una Crociera Standard.
L'Extra Lusso poteva durare dalle quattro alle sei ore, a seconda del tipo di parametri neuronali registrati dal sistema di rilevazione e controllo.
Mancavano notizie di qualcuno che fosse mai andato oltre.
A quel livello le onde cerebrali theta tendevano a non essere più coerenti e, più semplicemente, a disgregarsi.
Diventava troppo rischioso per il cervello.
Sete di conoscenza.
Ma, perché no, sete di denaro.
Sete di potere.
Il potere conferitogli da una macchina capace di portare un essere umano a vivere se stesso dall'interno, senza nulla che lo colleghi più in alcun modo alla realtà fisica.
Il potere che ti faceva sentire un Dio, al pari di tanti altri Dei nelle tue stesse condizioni, incarnati in quel ruolo per merito di un insieme di inibitori frequenziali.
La gente ti guarda dal basso in alto, ti stima, forse ti adora.
O, forse, il vero unico Dio nella stanza era quella poltrona immobile e apparentemente inerte.
La stessa inerzia apparente che mostrava Betel, nello stato di sospensione sensoriale indotta in cui si trovava in questo momento, a pochi metri da lui.
Esile, con capelli neri non lunghissimi e un viso che pareva ancora più giovane di quello che era.
Trentadue anni, diceva la scheda che aveva compilato prima dell'inizio della Crociera.
Due lauree. Fisica teorica e filosofia. Un bel mix. Uno di quelli che ti spinge a sederti su una DSC.
Tutto appena oltre il confine dalla legge.
Forse è appena al di là di quel confine che tutto accade.
In questa forma di extra legalità e di potere, però, ti ci senti pulito.
Sono pulsanti, luci, chip, nanotrasmettitori, eptaprocessori; niente aghi, siringhe, acidi, sostanze colloidali di sintesi.
Qui tu assisti, regoli, controlli, dirigi e decidi ciò che quel Dio, in forma di microprocessori e inibitori frequenziali, può o non può continuare a fare.
Sì, anche tu puoi considerarti un vero Dio che presiede agli eventi.
Fino a che gli eventi non dimostrino il contrario.
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Sì.
No.
Solo un sistema binario.
Aperto.
Chiuso.
On.
Off.
Struttura.
Non più pensiero.
Non più il tempo necessario ai miei perché.
Solo struttura.
Totale assenza periferiche.
Luce.
Non chiaro.
Pieno.
Non presente.
Conserve di memoria.
Reset d’immagine.
Solo contenitore.
Solo struttura.
Struttura.
Struttura.
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Sei ore.
In quanto Dio, dovresti poter decidere se continuare a tenere attiva la DSC o se il rischio è troppo alto.
I parametri sono normali, in modo stupefacente.
Prima volta che capita.
Anche Dio passa per le "prime volte".
Betel appare serena, le palpebre abbassate a coprire due occhi di un nero che aveva notato abbagliante.
Dorme, ma non è proprio che dorma.
La necessità di rientro alla stimolazione sensoriale esterna avrebbe già dovuto presentarsi nei parametri dei due piccoli terminali del pannello di controllo della DSC.
Avrebbe.
Dieci minuti ancora.
E poi, forse, altri cinque.
La scienza lo esigeva.
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Puntiforme.
Irradiante.
Gelo.
Non freddo.
Fermo.
Non immobile.
Vibra.
Disgrega.
Disgrega.
Disgrega.
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Sei ore e venti minuti.
Valori onde theta in improvvisa forte oscillazione.
Troppo forte. Troppo veloce. Dovevo fermare prima.
Inizio procedura disconnessione.
Presto.
Trema.
Il corpo di Betel trema.
Lieve, poi più marcato.
Frequenza inerziale interrotta.
Non passa, trema ancora.
Di più.
Dio, aiutami.
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Scioglie.
Cancella.
Inesistere.
Qualcosa.
Ancora qualcosa.
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Non toccarla, Leopold.
Mai toccare durante la disconnessione.
Riportala qua, Leopold.
Non toccarla.
Riportala qua, Leopold.
Non toccarla.
La mano del professor Masinsky scattò, come se avesse consapevolezza propria, verso il corpo della donna che ancora stava tremando; un movimento che sembrava partire da qualcosa di molto profondo, come se a tremare fossero le stesse sequenze proteiche su cui il corpo forma la propria struttura.
Leopold sentì il contatto della propria mano con il dorso di quella di Betel.
Stringi.
Stringi.
Betel arpionò le dita del professor Masinsky e con le unghie riuscì a fargli sanguinare la mano.
Il professore urlò senza spostarsi da dove si trovava.
I parametri di controllo stavano segnalando un crash sulle onde theta.
Mentivano.
Dovevano mentire.
Non potevano che mentire.
Betel staccò anche l'altra mano dalla DSC e cercò, cercò, cercò.
Trovò la pelle, i capelli, il naso, il viso, il professore.
Percezione. Memoria. Realtà. Vita.
Tutto ricollassò velocemente nel conosciuto, che adesso aveva smesso di essere banale abitudine. Aprì gli occhi, poi si sentì sollevare dal mondo.
In piedi. No. Per terra. Il corpo riverso sul pavimento.
Masinsky l'aveva strappata dall'abbraccio della DSC appena gli occhi erano tornati a mostrare il nero delle pupille, coscienti forse. Sicuramente. Doveva.
Terra.
La radice della mente.
Peso necessario, mai meschino nel suo manifestarsi.
Il professore si chinò sulla ragazza.
Viva.
Il respiro ancora veloce, a cercare di placare la propria fame d'aria.
Allungò la mano scavata dai graffi e toccò i capelli della ragazza.
Ne scostò una ciocca mentre vedeva quegli occhi che, a pochi centimetri dal pavimento, sembravano non desiderare totalmente di rivedere il mondo.
Masinsky tenne la mano sui capelli di Betel che lentamente rallentava il ritmo del proprio respiro.
Adesso lei lo vedeva. Ne era certo.
La ragazza lo fissava come si fissa il sole nella speranza che questo ti spieghi perché te ne stai lì a guardarlo.
I due piccoli terminali collegati alla DSC continuavano a segnalare parametri fuori controllo, oltre i limiti, troppo oltre i limiti.
Fall out.
Rosso.
Buio.
Spento.
Silenzio.
La realtà, però, si muoveva a pochi metri dal Fall Out.
Si dimenava nell'immobilità di quel silenzio, di quei due sguardi che ricominciavano a vedersi, che forse si guardavano per la prima volta e che parlavano senza sosta di sé, dell'altro e del noi necessario per chiamarsi vita.
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La notte avrebbe avuto ragione del giorno per almeno un’altra ora.
La pioggia era cessata.
I rumori delle vie sembravano essersi dissolti, come se l’acqua li avesse trascinati con sé, dentro ai tombini ormai quasi saturi.
Le pozzanghere sulla strada potevano finalmente riflettere il mondo che si specchiava entro i loro instabili confini.
Un piede troppo frettoloso, o forse semplicemente incurante, calpestò una pozza d’acqua abbastanza profonda.
Le luci e le forme che appartenevano a quello spicchio di mondo rovesciato nella pozza presero improvvisamente a mescolarsi e a rincorrersi in modo incoerente, seguendo il moto delle creste d’onda sollevate da quell’impatto frettoloso o, forse, incurante.
Nulla pareva più potersi ricomporre, come se tutto dovesse andare perso, dissolto in un informe muoversi sconnesso.
Invece alcuni secondi furono sufficienti per poter nuovamente ammirare sulla superficie dell’acqua un’immagine calma, definita, con le luci dei lampioni rese instabili dal correre lento dell’aria mattutina.
Tra non molto il buio avrebbe lasciato spazio ad un palpito frenetico di ombre, proiettate contro i muri dall’incessante traffico parigino.
Un altro giorno, grazie al cielo.
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