Un virus inarrestabile ha distrutto tutta la popolazione umana al di sopra dei quattordici anni. Solo i più giovani, per motivi che nessuno ha avuto il tempo di indagare, sono sopravvissuti, ma anche loro sono destinati a soccombere al virus una volta raggiunta la pubertà. Anna ha tredici anni, e vive in una villa di campagna siciliana, prendendosi cura del fratellino che la madre le ha affidato appena nato, insieme a un quaderno in cui ha scrupolosamente annotato tutte le “Cose Importanti” utili per sopravvivere in assenza di genitori. Per anni è riuscita a preservare il fratello da ogni contatto con la spiacevole realtà del mondo esterno spopolato. Ma la realtà farà irruzione anche in quell’ultimo rifugio.
Niccolò Ammaniti arriva a scrivere un romanzo appartenente a pieno titolo al genere fantascientifico dopo aver firmato vari racconti e romanzi contenenti elementi fantastici e horror, nonché dopo aver partecipato all’antologia fantascientifica Tutti i denti del mostro sono perfetti con il racconto Alba tragica. Ad alcuni fantascientisti “duri e puri” quella storia, in cui un alieno cannibale assume le sembianze di Alba Parietti per mietere vittime in un parco romano, sembrò poco seria, ma a mio avviso invece centrava molto bene quello che è (o dovrebbe essere) uno degli obiettivi principali della fantascienza italiana: ambientare nel nostro Paese in modo convincente atmosfere tipiche di una narrativa nata negli USA.
Il ritorno alla fantascienza
Questa volta Ammaniti ci riprova trasportando in una Sicilia piena di sole le atmosfere post-catastrofiche tipiche di tanto cinema e di tanta letteratura. Anche questa volta gli è stata rivolta l’accusa di aver preso il genere sottogamba; in particolare, di aver utilizzato come spunto narrativo un’idea non originale, quella del virus che uccide gli adulti e risparmia i bambini, che era alla base già di un episodio della serie originale di Star Trek, Miri, trasmesso esattamente 50 anni fa. Tutto vero, così come è vero che Anna sfrutta tematiche già viste in varie opere illustri del passato, da Il signore delle mosche di William Golding (per il modo in cui i bambini, lasciati a se stessi, finiscono per riprodurre dinamiche di potere tipiche degli adulti) a La strada di Cormac McCarthy (per la rappresentazione del viaggio di un bambino attraverso un mondo spopolato, nell’impossibile ricerca di un luogo in cui esista ancora una società). E tuttavia, l’originalità dello spunto non è l’unico parametro che fa il buon romanzo. Molti grandi opere, della fantascienza e non solo, sono rielaborazioni originali create a partire da spunti classici. E in Anna, a mio avviso, Ammaniti riesce a creare una propria versione del romanzo post-apocalittico, interpretandolo da un’angolazione fresca e personale.
L'orrore dagli occhi di un ragazzino
La scommessa riuscita dell’autore è infatti quella di trasfigurare quelle che in altre circostanze sarebbero situazioni assolutamente orrorifiche, filtrandole attraverso uno sguardo che resta nonostante tutto infantile. Un ragazzino, anche se può provare paura e orrore, non ha esperienza sufficiente per comprendere fino in fondo la portata di ciò che gli accade, e pertanto può uscire relativamente illeso da esperienze che distruggerebbero un adulto.
Perciò Anna riesce ad attraversare situazioni oggettivamente morbose (dall’onnipresenza dei cadaveri degli adulti al rischio di morte sempre incombente) rimanendo nonostante tutto piena di voglia di vivere. Ed è questo messaggio vitalistico che all’autore preme trasmettere: anche una vita oggettivamente limitata, come quella di una ragazzina che ha perso padre e madre, è gravata dalla responsabilità del fratellino e sa che con tutta probabilità le rimangono pochi mesi di vita), è comunque degna di essere vissuta.
Non a caso apprenderemo che il cane che le è sempre accanto, prima come antagonista e poi come compagno, ha vissuto ben tre vite con tre nomi diversi nel corso della sua breve esistenza. Insomma, un messaggio opposto rispetto al pessimismo radicale implicito in molta narrativa del genere.
L'abilità del narratore
Penso di fare un’affermazione scontata se dico che Ammaniti è uno degli scrittori italiani contemporanei tecnicamente più dotati. In Anna la sua abilità di narratore di vede tutta: il romanzo non perde mai colpi, mantiene sempre viva la tensione, dedica al passato solo alcuni brevi flashback che diventano quasi storie a sé, e per il resto riesce a dare al lettore tutte le informazioni necessarie senza lungaggini e infodump. Forse la parte centrale, la più immaginifica, con la descrizione del culto della Picciriddona, una ragazza che si dice avere superato senza morire l’età fatidica della pubertà, è leggermente meno riuscita, un po’ caotica nel tentativo di comprimere un gran numero di spunti in poco spazio. Ma poi il libro rientra in carreggiata e, soprattutto, ha un ottimo finale, narrativamente aperto ma con il giusto senso di chiusura, che riesce a sfuggire all’alternativa tra un poco credibile happy ending e un finale tragico che avrebbe contraddetto il senso profondo della storia.
Dovrebbe essere chiaro il mio giudizio su Anna è molto positivo. Dopo un decennio di crisi creativa in cui non aveva prodotto un romanzo davvero valido (Io e te è troppo breve per essere considerato un romanzo, e Che la festa cominci, dopo un inizio folgorante, si perde in una cacofonia di spunti disarmonici), Ammaniti ha di nuovo trovato la vena giusta, dando alle stampe una delle sue opere migliori dai tempi di Io non ho paura, e dimostrando una nuova maturità di scrittore con un personaggio vivo, credibile e sfaccettato ma diverso da quelli che finora gli erano stati più congeniali. Un libro fatto per essere letto da un pubblico generalista, ma che anche l’appassionato di fantascienza più sfegatato dovrebbe avere motivo di apprezzare.
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