Si può sottostimare l'importanza di Star Wars per l'immaginario pop contemporaneo? Probabilmente no. La saga creata da George Lucas è, oggi, letteralmente ovunque, tanto più dopo l'acquisizione da parte della Walt Disney Company; e ciò in cui quest'ultima sta riuscendo molto bene è il (ri)posizionamento sul mercato dei giovani e giovanissimi, contribuendo a tenere viva anche tra le nuove generazioni la fede nella Forza. Il rischio, piuttosto, è quello di attribuire all'esalogia – e al suo universo narrativo – meriti non esattamente suoi. Perché l'operazione fatta nel 1977 da George Lucas fu soprattutto quella di creare qualcosa di originale, e all'epoca senza precedenti su grande schermo, a partire da un vasto calderone di materiale già presente sotto forma di fumetti, racconti pulp, romanzi di fantascienza e cinema di genere.
Si è scritto e detto ampiamente come la figura del Jedi tragga origine da quella del samurai, in assonanza con quella del giustiziere solitario dell'immaginario western americano (e non solo); si è fatto riferimento in più occasioni ai legami con il ciclo di Dune di Frank Herbert, per pianeta e mitologia, con il film Metropolis di Fritz Lang, per il design dei droidi, e con il cinema bellico nel trasformare, in sala montaggio, i “dogfight” aerei della seconda guerra mondiale in sfide nello spazio tra caccia maneggevoli quanto letali. Al netto di queste influenze, però, l'Esalogia rimane un oggetto unico nella storia del cinema mondiale: un universo narrativo coerente, con caratteristiche narrative, visuali, sonore e di design inconfondibili, persino con una propria terminologia specifica di sorprendente immediatezza. Un boccone ghiottissimo per quella Hollywood che ormai vive e si autoalimenta di saghe, spontanee o coatte, di culto oppure bistrattate; e delle quali, presumibilmente, Star Wars è l'iniziatrice quantomeno da un punto di vista commerciale. Eppure, a un fiorire di franchise, fantastici o meno, non è corrisposto la comparsa sul mercato di degni eredi delle gesta della famiglia Skywalker. Forse anche perché, al netto come si diceva di influenze e linguaggi contigui, la creatura lucasiana rimane ineguagliabile da un punto di vista narrativo, immaginifico e persino politico. Ma andiamo per ordine.
Più storie per più personaggi
Chissà se, a monte, c'è la personalità di George Lucas, schivo stakanovista che (almeno in base alle biografie ufficiali) ha a lungo anteposto i suoi sogni di narratore ai più terreni desideri di frequentazione dell'altro sesso; oppure se sia stata, con il tempo, una scelta scaltra nei confronti dei gusti del pubblico, che era arrivato ad amare Han Solo quanto e forse più di Luke Skywalker. Certo è che Star Wars è l'unico ciclo cinematografico celebre in cui l'eroe, al termine delle avventure, non solo non conquista la “bella”, ma la cede al suo migliore amico, per poi ritrovarsi unito allo stesso nucleo famigliare tramite una provvidenziale agnizione (“Hai una sorella!”). Unica possibile analogia, la saga di Harry Potter, in cui è la spalla Ron al termine a mettersi con Hermione; a fronte, però, di un corpus narrativo di 7 romanzi, anziché soli 3 film. Il sistema dei personaggi del Guerre Stellari del 1977 è anomalo sotto molti punti di vista, ciò è evidente proprio perché, nella sua forma lineare di esempio (quasi) standard di “viaggio dell'eroe” – la più celebre teorizzazione del mito applicato al cinema di Hollywood – i ruoli dei singoli personaggi sono ben definiti fin dalle prime scene. Luke Skywalker è il giovane eroe al principio del suo viaggio; la principessa Leia il “love interest” che fa da motore, e in parte destinazione, del viaggio; Ben Kenobi il mentore che accompagna il protagonista lungo i suoi primi passi in un mondo più vasto; R2-D2 e C-3PO le spalle comiche; Han Solo la spalla guerriera, con migliori facoltà di lotta rispetto al giovane eroe, nonché il contraltare ideale per un potenziale “buddy movie” a due protagonisti maschili.
L'anomalia del sistema dei personaggi di Star Wars salta all'occhio nel momento stesso in cui si indicano nomi e parti: intanto perché già abbiamo detto che ci sono due, anziché una sola, spalle comiche; ciascuna con un ruolo indipendente e, nel caso del piccolo R2, ben più risolutivo di quanto ci si accorga a una visione superficiale. Inoltre perché la spalla guerriera Han Solo ha a sua volta una spalla combattente, e a tratti umoristica: l'imponente Chewbacca, che arricchisce dal punto di vista etnico (in senso galattico) la compagine delle forze del bene, ponendo le basi per un altro sottotesto narrativo di uguaglianza su cui torneremo più avanti. L'Impero colpisce ancora, alias Episodio V, e Il ritorno dello Jedi, Episodio VI, ampliano e danno compimento a questo anomalo sistema dei personaggi, fino al ricongiungimento finale della famiglia Skywalker. Se questo tipo di evoluzione nei rapporti interni tra i main character fosse nelle intenzioni di Lucas fin dalla scrittura del primo capitolo, non è dato saperlo. Ma in quanto all'anomalia stilistica rispetto alle aspettative del genere, un esempio vale per tutti: Alan Dean Foster, ghost writer della prima novelization del Guerre Stellari del 1977, nel primissimo romanzo sequel della saga, edito pochi mesi dopo l'uscita in sala (“La gemma di Kaiburr”), si lascia andare a vistosi accenni a una crescente attrazione, anche fisica, tra Luke e Leia.
In pochissimi, in effetti, avrebbero potuto prevedere che la vicenda sarebbe andata in tutt'altra direzione. La scelta è efficace soprattutto da un punto di vista narrativo, perché permette a L'Impero colpisce ancora di rilanciare e, da solo, trasformare completamente l'universo narrativo presentato nel capitolo d'esordio, inserendovi due sottotrame che si intrecciano. La compagine di protagonisti è riunita, al principio, nella base ribelle di Hoth. L'attacco dell'Impero e la necessità di sopravvivere, insieme alla visione del giovane Skywalker in mezzo all'inferno di ghiaccio, separa Luke e Han nel momento esatto in cui la loro rivalità amorosa nei confronti di Leia sta per deflagrare, incrinando l'altrimenti solida amicizia. Il primo eroe affronta i sentieri mistici dell'apprendistato Jedi, con un nuovo mentore (Yoda) e una delle due spalle comiche, R2; il secondo eroe fugge per la galassia accompagnato dalla spalla guerriera (Chewbacca), l'altra spalla comica (C-3PO) e il “love interest”, Leia, con cui dà vita a schermaglie amorose che rimangono irrisolte a causa del tradimento di Lando Calrissian (ulteriore spalla/eroe al suo riscatto in Il ritorno dello Jedi) e del congelamento (ovvero: morte temporanea) di Han nella carbonite. Il sistema dei personaggi più ricco del consueto è una delle chiavi della vastità narrativa di Star Wars, rispetto a qualsiasi altro franchise cinematografico. Sarebbe curioso scoprire se simili, ardite variazioni dal viaggio dell'eroe, nei blockbuster fantastici, non si siano più viste per timore di deludere le aspettative dello spettatore medio – che, almeno sulla carta, desidera il compimento romantico dell'avventura almeno quanto desidera essere spaventato guardando un horror – o se, a mancare, sia stata quell'ampiezza della narrazione in grado di contenere gli archi di trasformazione di più di un personaggio.
Vedi alla voce “senso del meraviglioso”
La trilogia classica di Star Wars, e in parte anche i prequel, abbondano di “sense of wonder”. L'associazione tra la saga e il concetto è tanto inevitabile che, oggi, è quasi più probabile che la prima sia utilizzata per definire il secondo, anziché viceversa. Eppure il senso del meraviglioso esiste, nella letteratura di fantascienza, ben prima di Guerre Stellari. C'è in Robert Howard e negli scenari affrontati dai suoi avventurieri, Conan in testa, c'è nella space opera di Leigh Brackett e nella sua versione moderna a firma Dan Simmons, c'è nelle storie classiche di Jules Verne, E.R. Burroughs ed Emilio Salgari.
In senso cinematografico, grazie alle magie digitali e ai realistici ma mozzafiato scenari della Nuova Zelanda, c'è nella trilogia del Signore degli Anelli di Peter Jackson, che guarda al testo originario di Tolkien ma anche ai film di Lucas. La saga di Star Wars, in questo, ha fatto scuola nella maniera più appariscente: nel costruire un mondo altro, visivamente coerente, impossibile eppure tangibile, futuribile a tratti eppure anche sapientemente sporco e impolverato, ad alludere a un ambiente di realistica profondità narrativa. I luoghi sono protagonisti quasi quanto i personaggi. E lasciano nella memoria del fruitore altrettanta traccia tangibile.
La storia del cinema è costellata di utilizzi emotivi di ambienti e scenografie, dai tempi di Méliès da un lato e dell'espressionismo tedesco dall'altro. Luoghi complessi e ostili, perfetti per articolati scontri finali, ci sono in senso narrativo nei film di James Bond e in molte pellicole di avventura. Star Wars non fa eccezione e perciò i suoi pianeti sono di volta in volta virati in colore diverso, variamente minacciosi, destinati a tinteggiare di una sfumatura a sé ciascun atto di ogni capitolo della serie. Verrebbe persino da dire che alcuni luoghi, e alcuni momenti, sono cresciuti di importanza al di là dell'intento dello stesso regista barbuto: su tutte, la scena che introduce Luke Skywalker, mentre guarda l'orizzonte di Tatooine segnato dai due soli, viene ripresa nella stessa grammatica visiva per concludere Episodio III, alla consegna del neonato gemello Skywalker agli zii adottivi. La suggestione dei luoghi è un cavallo di battaglia, già dal trailer, di ogni nuovo kolossal fantastico o storico. Più rara, ma esiste, la tendenza a dare vita ad ambienti suggestivi, teatro di un'azione spesso frenetica, e magari innesco della stessa.
Come in Le Cronache di Riddick, secondo film con protagonista l'antieroe galattico con i muscoli di Vin Diesel, in cui i personaggi fuggono da una prigione su un pianeta rovente, a rischio di essere inceneriti dalla stessa luce del vicinissimo sole. Da cui riescono a mettersi in salvo, neanche a dirlo, nell'ultimo istante disponibile. Oppure in misura diversa ne I Guardiani della Galassia, vivace e coloratissimo pastiche spaziale targato Marvel e forse l'unico film contemporaneo ad aver saputo in parte ricreare lo spirito giocoso del primo Star Wars del 1977.
La parte giusta: l'inclusione e il rifiuto della lotta
Il primo Star Wars del 1977 giunge al termine dell'utopia degli anni '60 e della contestazione giovanile. I fuochi si sono spenti, i sogni di “peace and love” stanno sfumando, eppure qualcosa, forse come mentalità, rimane radicato nelle storie narrate dai registi americani di quella generazione. C'è da dire, inoltre, che George Lucas faceva parte, a modo suo, della squadra dei registi della cosiddetta “New Hollywood”, che avrebbero dato uno scossone all'industria del cinema a stelle e strisce: oltre al sodale, e altrettanto campione d'incassi, Steven Spielberg, citiamo Francis Ford Coppola, Brian De Palma, Martin Scorsese; tutti autori oggi riconosciuti, con cui Lucas intratteneva rapporti di amicizia.
C'è persino un ironico, forse vero, parallelismo tra l'Alleanza Ribelle raccontata nella saga e la ribellione, nei confronti della Hollywood tradizionale, di un manipolo di giovani registi. Rispetto a loro, Lucas rimane un outsider in molti sensi: il successo commerciale della saga lo porta a rendersi indipendente rispetto alle grandi case di produzione, a dare vita autonomamente alla Lucasfilm, con il quartier generale a San Francisco anziché a Los Angeles. Un'anomalia produttiva risoltasi solo di recente, con l'acquisizione dei diritti da parte di Walt Disney Company.
L'unicità di Star Wars sta anche nell'essere rimasto, per decenni, un progetto al cui riguardo aveva massimo potere una sola persona, il suo creatore. A questo si devono gli interventi, nel corso degli anni, sui film stessi: come la riedizione digitale della trilogia classica, nonché le continue aggiunte/rimaneggiamenti di scene per le nuove versioni. Ed è a questa totale autonomia in ogni scelta che dobbiamo le molte peculiarità, anche narrative, della serie. La più vistosa rimane presumibilmente la scelta non violenta che guida le azioni di Luke Skywalker e che porta alla risoluzione del climax de Il ritorno dello Jedi. Lungometraggi dalla eccezionale imponenza visiva, che hanno segnato nuove frontiere negli effetti speciali, come Avatar di James Cameron, sono in effetti piuttosto sciatti dal punto di vista narrativo; lì la vittoria è riservata, banalmente, al guerriero più forte o, al limite, più valoroso. Al contrario, Luke non ha la meglio sugli avversari, Darth
Vader e l'Imperatore, in un confronto fisico; né lì supera per via di una qualche non ben precisata superiorità morale. Abbatte in effetti il signore oscuro, travolto dalla rabbia, e all'accorgersi dell'errore getta la spada laser e si abbandona alla furia dei fulmini azzurri di Palpatine. Ha fede nel padre, caduto ma con una estrema possibilità di redenzione; ed è questo abbandonarsi in tutto e per tutto a tale fiducia che gli permette il trionfo. Luke Skywalker si è già dimostrato, nella saga, più abile di chiunque altro: al termine del primo film ha distrutto la Morte Nera con un colpo ben piazzato e il supporto, all'ultimo istante possibile, dell'amico Han Solo. Un'ulteriore vittoria in questo senso sarebbe una ripetizione, in senso narrativo, e non aggiungerebbe nulla a una storia globale lunga tre film. Il fatto l'eroe questa volta superi un conflitto soprattutto interiore, consegna la trilogia di Star Wars allo status di film di culto, dimostrando inoltre che il genere fantastico e le strutture preordinate dell'epica e del viaggio dell'eroe, se nelle mani di un autore anziché di un ufficio marketing, possono raccontare storie in grado di parlare a molte persone, in vari punti del mondo, per svariati decenni.
C'è poi un altro elemento, spesso sottovalutato, tra le righe della saga di Star Wars. È la natura intrinsecamente multietnica della società galattica. Lo spettatore vi imbatte per la prima volta nella celebre sequenza della taverna di Mos Eisley. Certo, è lo stesso Ben Kenobi a definire il locale “il peggior covo di feccia dell'universo”; allo stesso tempo, però, difficile non fare caso a come, pur nelle inevitabili difficoltà, l'apparenza generale è di una pacifica convivenza tra una miriade di specie dalle fattezze (e immaginiamo abitudini e credenze) quanto più diverse e contrastanti tra loro sia possibile concepire. Ci sono, nella “galassia lontana lontana”, ovviamente i razzismi. I droidi, per esempio, non sono benvoluti nella taverna. Più avanti nella saga, a tratteggio dello scenario generale completato, appare evidente come l'Impero sia una dittatura anche nel suo relegare tutte le creature non umane al rango di schiavi oppure esseri inferiori. E se Chewbacca è il primo “ribelle” alieno, ne Il Ritorno dello Jedi è evidente che molte razze non umane sono ormai parte attiva, ed elemento fondamentale, della riscossa contro la tirannide galattica. Si tratta di piccoli segnali, tra le righe della narrazione, eppure portanti per la stessa. E fortemente politici proprio perché il loro messaggio di uguaglianza è inseparabile dalla narrazione stessa. George Lucas, in questo senso, non sembra aver tradito la sua visione originaria nemmeno nei prequel.
Significativa è infatti la tematica di fondo di L'attacco dei cloni e La vendetta del Sith. Quando Anakin Skywalker si innamora di Padmè Amidala, lo fa andando contro a istituzioni millenarie secondo le quali un Jedi non può sposare una senatrice della Repubblica. Si tratta delle stesse istituzioni, narrativamente rappresentate dal marmoreo Mace Windu (alias Samuel Jackson), ormai tanto faraoniche e decadenti da non accorgersi di avere all'interno un cancro intento a sgretolarle (Palpatine). Il piano del futuro imperatore si compie e Anakin ne diventa uno strumento, contribuendo allo sterminio dei Jedi. Saranno, vent'anni dopo, i figli gemelli Luke e Leia a liberare la galassia dal giogo dell'Impero; il frutto dell'amore (libero) tra Anakin e Padmè, portato a compimento a scapito di ogni convenzione sociale che li avrebbe voluti divisi. Insieme al rifiuto della violenza, questo è presumibilmente il più eversivo dei messaggi politici nascosti tra le pieghe della saga più amata di tutti i tempi. E forse uno dei motivi per cui continua a essere tale.
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