Era importante che qualcuno si decidesse prima o poi a rimettere in distribuzione Cyberworld, il romanzo di esordio di Alessandro Vietti che si aggiudicò l’ultima edizione del Premio Cosmo, indetto dall’eroica, rimpianta Editrice Nord di Gianfranco Viviani. Quando il libro apparve nel 1996, nel mondo anglosassone l’epopea cyberpunk sembrava essere ormai giunta al capolinea e già cominciava il fermento della stagione post-cyberpunk da cui sarebbe scaturita una parte consistente della fantascienza contemporanea.
Ma nel nostro paese rappresentava in effetti una fresca novità: soprattutto per merito della Nord erano usciti i romanzi fondamentali del movimento, Neuromante di William Gibson e La matrice spezzata di Bruce Sterling, oltre a una manciata di altri titoli riconducibili alla stessa sensibilità (a firma di Michael Swanwick, George Alec Effinger, Greg Bear, Greg Egan e Iain M. Banks), ma eravamo ancora in territori di frontiera. Il 1994 aveva salutato l’uscita italiana per Bompiani dell’antologia manifesto Mirrorshades curata da Sterling, dell’agile raccolta Cuori elettrici assemblata da Daniele Brolli per Theoria e della ricchissima, autorevole antologia Cyberpunk curata da Piergiorgio Nicolazzini per le Grandi Opere Nord. Ed eccoci al 1995: ancora Brolli, già protagonista all’inizio del decennio di un primo tentativo di lanciare il movimento degli anni ’80 anche in Italia con la rivista Cyborg, sta cercando di far decollare il suo progetto di una collana cyberpunk con l’evanescente casa editrice Phoenix; la Shake Edizioni mette a punto Cyberpunkline, la collana che si sarebbe attestata negli anni seguenti come un termine di riferimento per il genere… e un giovanissimo autore genovese, poco più che esordiente, si mette in testa di partecipare al Premio Cosmo.
Vietti ha 26 anni e io me lo immagino come un cowboy su questa nuova frontiera ancora tutta da esplorare. Per poter rispettare i termini del bando, appena concluso con la laurea il percorso di studi in ingegneria elettrotecnica si mette davanti alla macchina da scrivere e sviluppa questo romanzo in quattro mesi, chiudendo la prima stesura nel giugno del ‘95 con quella velocità che è uno dei tratti caratteristici del cyberpunk e che si apprezza anche nella lettura delle sue pagine. Ma l’attinenza ai canoni della corrente di Gibson, Sterling e soci è l’ultima delle sue preoccupazioni. Vietti ha qualcosa da dire su un mondo che già allora stava accelerando sulla curva del progresso, tradendo i prodromi di un cambiamento che avrebbe investito senza scampo ogni cosa: mestieri, stili di vita, abitudini. Nel romanzo riversa quasi d’istinto la sua percezione degli effetti che questo mutamento avrebbe prodotto sulle tematiche care alla letteratura di fantascienza, inscenando su un piano quasi metaforico la contrapposizione tra l’immaginario spaziale, proteso verso la frontiera esterna dell’esplorazione di altri mondi (le colonie lunari, la prima missione umana in partenza alla volta di Marte), e l’immaginario virtuale, sedotto dalle potenzialità sconfinate del cyberspazio.
Come insegna la letteratura supereroistica, da un grande potere derivano grandi responsabilità, ma la lezione di Peter Parker non è ancora stata assimilata dagli umani che si sono d’un tratto ritrovati poteri da superuomini nei mondi simulati. Le prerogative del cyberspazio riaccendono ossessioni e aspirazioni antiche come la civiltà: gli operatori del suo Cyberworld presto confondono gli attributi della divinità con le nuove potenzialità concesse dalla tecnologia, che così assurge a un ruolo quasi divinizzante. Ma dalla confusione dei ruoli alla disillusone il passo è breve. E il rischio che molti di loro si trovano a sfidare, correndo a rotta di collo sulla lama del rasoio, è di finire vittime dei propri impulsi, prigionieri in un labirinto senza via d’uscita, solo apparentemente diverso dalla prigione della realtà.
Prima ancora delle chat e delle e-mail, dei forum e dei gruppi di discussione, per non parlare di blog e social network, il Cyberworld è un crocevia di esperienze comuni e di desideri segreti, un mondo di esistenze che s’incontrano ma che risultano inesorabilmente condannate a un contatto superficiale. Nessuno conosce davvero nessun altro, tutti si adeguano alle regole implicite di questo spazio di destini che si sfiorano, prestandosi al ballo degli inganni reciproci ed esponendosi al pericolo costante del tradimento. Ma mentre gli operatori del cyberspazio portano avanti i rispettivi progetti, qualcosa prende forma ai margini della dimensione soggetta al controllo degli uomini. A determinare se possa essere una minaccia o un’opportunità per il genere umano saranno le azioni dei protagonisti, coinvolti in una partita che presto si rivelerà più grande delle attese. Ma quale che sia l’esito, una cosa appare scontata fin dal primo momento: prima ancora di cominciare a esercitare le tanto agognate prerogative divine, ironicamente l’uomo si trova a essere spodestato dalle “divinità native” del Cyberworld, provviste di tutte le qualità richieste per manipolare tutto ciò che è connesso nel cyberspazio – e soprattutto, con particolarità facilità, tutto ciò che è naturalmente estraneo ad esso e solo “artificialmente” integrato. Non ci sono velleità da neofita in questo romanzo: piuttosto, già il distaccato disincanto di una fase crepuscolare nell’epopea della rete.
Il cyberspazio di Vietti arriva in un’epoca in cui Internet come oggi la conosciamo non esiste ancora. Per certi versi, il suo lavoro nell’immaginarne forma e dinamiche è un’impresa pionieristica, non meno di quanto lo sia stata l’opera di Gibson nel plasmare un immaginario in cui molti oggi si riconoscono. In virtù di questa caratteristica, Vietti concepisce una vera e propria geografia del cyberspazio e immagina un protocollo che ne regoli l’utilizzo secondo una sorta di giurisdizione sovranazionale: la sua è una rete ancora ad accesso elitario (non proprio esclusivo, ma limitato a una minoranza della popolazione, ben lungi dalla vocazione quasi ecumenica che già oggi le riconosciamo), i cui nodi riflettono gli equilibri geopolitici internazionali. Almeno per buona parte del romanzo lo spazio simulato è inoltre uno strato sovrapposto alla realtà fisica, in una fulminante anticipazione delle caratteristiche della cosiddetta augmented reality. L’inevitabile disaccoppiamento che gli eventi inscenati producono tra le due entità porta alla definizione di un universo parallelo, alternativo alla realtà materiale da cui tutti i personaggi cercano, ciascuno a suo modo, di sottrarsi.
Vietti sfrutta al massimo le premesse insite nello scenario e opera una piena smaterializzazione dello spazio del romanzo, che è interamente ambientato nella realtà virtuale del Cyberworld. Di contro, il tempo subisce una deformazione analoga: la trama si dipana su un intervallo di pochi giorni, in una corsa contro il tempo per sventare una macchinazione che rischia di sconvolgere i due mondi, quello reale e quello virtuale. Gli eventi si susseguono a ritmo serrato e grazie al gioco dei punti di vista congegnato dall’autore li vediamo svolgersi da angolazioni diverse, in una sorta di ralenti cinematografico, mentre il tempo collassa in un fermo immagine sull’alba di una nuova epoca, che già si annuncia “aliena” alle ingerenze degli uomini e forse anche indifferente alle sorti dell’umanità.
Senza far torto a Vietti, potremmo individuare nelle istanze di questo romanzo un’attitudine pre-connettivista. Il suo è un tentativo coraggioso di aprire una strada italiana alla nuova fantascienza che stava prendendo forma nel mondo anglosassone già a partire dal decennio precedente. Per questo Cyberworld rappresenta un romanzo-chiave per interpretare la sua epoca: nato da una stagione di transizione, ricca di potenzialità, è un’opera capace di anticipare con efficacia tematiche che in alcuni casi sarebbero state riprese solo a distanza di anni. Un romanzo – su un mondo senza ombre – la cui ombra si allunga fino a noi.
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