Una mattina senza caffè è una giornata che inizia male.

La caffettiera era sul fornello acceso da almeno un quarto d'ora, ma l'acqua non bolliva. Non c'era niente da fare. Non si poteva contare su un'eccezione, o su una distrazione.

— Niente più caffè. Punto — aveva detto il dottore una settimana prima.

— Ma scherza? Io sen…

— No.

— Ma almeno la matt…

— No.

— Decaff…

— Quello sì.

— Meta e metà?

— No.

— Un terzo e due terzi?

— No. Anzi, per evitare problemi, facciamo che lei il caffè non lo prende proprio. Né normale, né decaffeinato. Né di nessun altro tipo.

Alzai il coperchio della caffettiera. Dai buchini non usciva un filo di aroma.

— Lei del caffè non deve più nemmeno sentire l'odore — aveva concluso il dottore.

Spensi il fornello. I primi giorni ripulivo la caffettiera ogni volta, ma ormai la lasciavo semplicemente lì, così era pronta per provarci la sera o la mattina dopo. Non che avessi qualche speranza.

— Caffè traditore — dissi. — Con tutto quello che ho fatto per te.

Tornai in camera, mi sedetti sul letto e sfilai le pantofole.

Allungai la mano per prendere le scarpe che mi ero tolto la notte prima, ma vedendole mi ricordai. Erano così infangate che si sarebbe piuttosto potuto dire che il fango era inscarpato.

Le presi e le rigirai, valutando la possibilità di ripulirle al volo. Gli inseguimenti tendono a rovinarle, specie quando passano per cortili sterrati e piove molto. "Le concrezioni di fango dimostrano l'attraversamento di un terreno bagnato", avrei scritto nel rapporto se le avessi trovate ai piedi di una vittima. Ma io non ero la vittima, quindi le mie scarpe non contavano. Ed ero già in ritardo.

Andai alla scarpiera e guardai dentro. A parte gli stivali di gomma verdi, mi restavano solo un paio scamosciate che non mettevo da almeno due anni. Già allora erano ai limiti della decenza, sia come consumo che come disegno, con tutte quelle vistose cuciture.

I lacci erano stretti, serrati. Sembrava che qualcuno si fosse messo a fare il tiro alla fune con le mie scarpe, al punto che i due bordi di pelle si erano accartocciati.

— No — gemetti. — Non può essere. No…

Provai a tirare le stringhe, ma già sapevo il risultato.

— Le scarpe scamosciate con le cuciture a vista sono out! — aveva tuonato all'autoradio una anziana voce femminile il giorno prima, quando stavo andando al commissariato. — Assolutamente out! Chiaro? O-u-t! Roba vecchia. Archeologia!

Tirai più che potevo, ma i lacci non si allentarono. Avrei potuto provare con le forbici, ma non sarebbe cambiato niente. Anche se fossi riuscito a tagliarli, non si sarebbero aperte.

Guardai i due blocchi di fango dentro cui c'erano le scarpe della sera prima, e poi di nuovo quelle scamosciate. Sporche contro impossibili da mettere.

"Art. 21 del codice di servizio: l'agente, il suo abbigliamento, e la sua dotazione di servizio dovranno essere sempre in perfette condizioni di pulizia, fatta eccezione per i casi di servizio."

Mi vidi entrare al commissariato: le scarpe infangate si sfilavano da sole, oppure si aprivano come un fiore lasciandomi scalzo, o mi strizzavano i piedi finché non mi fossi arreso e le avessi tolte.

Presi gli stivali di gomma e li osservai. Il avrei infilati sotto i pantaloni, certo, ma il colore verde non sarebbe passato inosservato.

Sospirai. Non c'era alternativa.

Feci per sedermi sul letto per metterli, ma non riuscii a completare il movimento. Il pavimento si era inclinato, sollevandosi dalla parte opposta alla porta.

— Non sono così in ritardo! — urlai. — Posso prendere un'ora di permesso!

I piedi non facevano più presa sulle mattonelle diventate scivolose. Alzando le braccia per mantenere l'equilibrio, slittai verso la porta, il cui vano si era nel frattempo allargato per impedirmi di afferrare uno stipite. In posizione da surfista, con gli stivali ancora in mano, attraversai il corridoio e uscii dalla porta d'ingresso, che si era aperta da sola.

— No! — urlai. — Le scale no!

Il pavimento era diventato una pista per biglie, di quelle con la spirale in discesa, che nello specifico erano le rampe del palazzo. Riuscii a restare in piedi fino al primo pianerottolo, poi la velocità e la curvatura del percorso mi fecero perdere l'equilibrio. Da lì fu un confuso e doloroso rotolare fino al marciapiede, dove venni raggiunto dagli stivali.

— Tutto bene, dotto'? — mi chiese il portiere, affacciato dalla guardiola.

Lo ignorai. Seduto sull'asfalto, raccolsi gli stivali. Mentre infilavo il primo, mormorai a me stesso: — Avevo finito le ore di permesso, ecco cosa.

* * *

— Ispettore, va a pesca?

Non avevo neanche fatto un passo all'interno del commissariato che già un gruppetto di agenti mi guardava i piedi.

— Motivi di servizio — replicai. — Anzi, mi servono giusto tre volontari…Stivali + motivi di servizio + volontari = una missione in cui si finisce nel fango. L'impiccione e i suoi due amici bofonchiarono qualcosa a proposito di turni e di assegnamenti mentre guadagnavano l'uscita.

Il problema non erano gli agenti, ma la gente di rango uguale o superiore. Per quel giorno, meglio limitarmi ai lavori d'ufficio. Tenendo sempre i piedi sotto la sedia. A fine turno avrei raggiunto un negozio di calzature e risolto il problema una volta per tutte. Cioè, almeno finché qualche cariatide radiofonica non avesse deciso che anche le nuove scarpe erano out-robavecchia-archeologia.

— Se scopro chi è, la arresto — mormorai, mentre entravo in ufficio.

Il commissario era seduto sulla mia sedia. La donna davanti alla scrivania mi guardò con aria interrogativa. — Io? Io sono… — Pensava stessi parlando con lei.

— La signora è una dirigente della ripartizione strade del comune — chiarì il commissario.

— Non ce l'avevo con lei — dissi alla dirigente. — Parlavo della madre del commissario.

Il mio diretto superiore scoppiò a ridere. Guardò la donna e disse: — È una forza, questo ragazzo!

La dirigente fece un sorrisetto di circostanza. Aveva l'aspetto un po' sciatto tipico dei dipendenti pubblici, ma non la loro aria sempre rilassata. La tensione sembrava fuori posto su quel viso tondo e pacioso.

Il commissario scosse la testa e smise di ridere. Si passò le dita magre sui baffi e ai lati della bocca, come faceva sempre per dire "adesso basta scherzare". — Dunque, signora. Questo è l'ispettore Vitini. Si occuperà del suo caso.

La donna si alzò e mi strinse la mano, dimenticando di dire come si chiamava. Sembrava piuttosto confusa. Si girò subito verso il commissario e si risedette. — Lei capisce, si tratta di una cosa della massima urgenza. Con quel foglio lì… Lui…

Guardai il commissario. — È una questione amministrativa? Di solito non possiamo garantire un servizio in tempi brevi per casi del genere.

— Omicidio.

— Eh?

Il commissario allargò le braccia. Quando lo fa, specie se indossa una delle sue polo a strisce orizzontali, si nota quanto è stretto di torace. Non mi sono mai spiegato come sia riuscito a entrare in polizia. — Omicidio. Ha ucciso la cognata.

— La cognata? Di solito si uccide la moglie.

— Sì, ma ha un senso, se uno ci pensa. La moglie la scegli, la cognata te la ritrovi. E dalla moglie si può chiedere il divorzio, dalla cognata no.

— Però si può chiedere il divorzio dalla moglie per liberarsi della cognata.

— Sì, ma in questo caso si trattava della moglie del fratello, quindi era il fratello che casomai avrebbe dovuto…

— Scusate — lo interruppe la dirigente senza nome. — Capisco che abbiate i vostri metodi, ma io sono molto in ansia. C'è di mezzo una mia autorizzazione, e già il ministero ha avviato un'indagine nei miei confronti. Quella donna è morta e non ci si può fare niente, ma il pazzo è ancora in giro con la mia firma.

— Si calmi, signora — disse il commissario con il suo tono condiscendente che farebbe innervosire un bradipo.

Pensavo che la donna sarebbe esplosa, invece giunse le mani come se pregasse. — Commissario, conto su di lei. Lo fermi. Potrebbe fare una strage, se volesse. — Si girò verso di me. — Anche lei, ispettore Vagini. Mi raccomando.

Stavo per correggerla dicendo che mi chiamo Vitini, ma preferii rispondere al fuoco con il fuoco. — Signora Innominata, non capisco cosa c'entri la ripartizione strade con l'omicidio. Anzi, non capisco proprio come questo tizio sia riuscito a commettere un omicidio nel nostro universo, visto che è vietato. La pistola avrebbe dovuto rifiutarsi di sparare, le mani di strangolare, la corda di stringere e via dicendo. — La bocca mi si allargò in un sorriso. — Non è che…

— No — disse il commissario. — Non ci contare.

— Ma l'ha uccisa! Non può averlo fatto in questo universo. Deve averla indotta a passare di là, come fanno tutte le persone normali per ammazzare la moglie.

Il commissario batté la mano sul tavolo, il sorriso sotto i baffi di chi ha colto qualcuno in castagna. — E invece no, l'ha ammazzata proprio qui! Ha rubato una pistola in un negozio di articoli sportivi, che poi era dove lavorava la cognata, e l'ha freddata. In questo universo.

— Ma… ma…

Il commissario e la dirigente facevano sì con la testa.

— Non può essere!

Si erano incantati ad annuire.

— Come ha fatto? Aspettate, qui c'è una dirigente del settore strade. C'era stato un tizio che aveva demolito un palazzo con un suo rivale dentro… prima però aveva preso delle pasticche per dimenticare.

— No — disse il commissario. — Le ha proprio sparato. E c'entra il settore strade.

— Insomma, basta con gli indovinelli! Mi dite come ha fatto?

Il commissario ridacchiò. — Ti arrendi, eh?

— Sì, mi arrendo. Spiegatemi il trucco, perché ho giusto in mente una persona da ammazzare.— È stata colpa mia — disse la dirigente. — Non avrei dovuto lasciarlo solo, ma mi avevano chiamato per una questione urgente. Non pensavo potesse succedere una cosa del genere. La prego, ispettore, faccia il possibile per fermarlo.

— Fermarlo? Vuole dire che potrebbe ammazzare ancora? — Guardai il commissario, perché l'anonima non mi risultava molto chiara.

— La signora è una dirigente del settore strade. Ha il compito di autorizzare l'esecuzione di certi lavori pubblici. Nel caso specifico, si trattava di demolire e ricostruire dei marciapiedi in una zona che ora non ricordo ma che non ha importanza.

Iniziavo a intuire. — Autorizzare, eh?

— Bene, vedo che ci stai arrivando. Ora, mentre il caposquadra era in ufficio da lei, è dovuta uscire per un'altra questione, su cui stiamo indagando ma che credo non c'entri niente.

— Quindi, mentre lei non c'era…

Il commissario annuì. — Bravo. Ha fatto il giro della scrivania e ha cancellato alcune parole sul documento al computer. È stato anche molto astuto, devo dire. Dove diceva "e tutto quanto ritenga necessario per il completamento dell'opera", ha lasciato solo "e tutto quanto ritenga necessario".

La dirigente allargò le braccia. — Lo giuro, avevo riletto il documento, prima di firmarlo. Ma le parole erano le stesse. Se le avesse cambiate, me ne sarei accorta.

— È più facile notare una sostituzione che una rimozione — disse il commissario; mi sembrò strano questo suo giustificarla: se avessi fatto un errore del genere, me lo avrebbe rinfacciato per anni.

— D'accordo — dissi. — A quanto pare il tizio riteneva necessario eliminare la cognata, ed era autorizzato a farlo. Però ormai è stato scoperto, quindi si può annullare il documento.

La donna scosse la testa. Sembrava sul punto di mettersi a piangere. — Non posso farlo io. Io sono autorizzata ad autorizzare, ma non a sospendere le autorizzazioni. Ho chiesto ai miei superiori, ma prima che la pratica faccia tutto il giro del ministero ci vorranno ore, se non giorni.

— E lui nel frattempo è autorizzato a fare…

— Qualsiasi cosa! La prego, ispettore… commissario…

Il commissario si alzò dalla mia sedia, e sottolineo mia, e andò accanto a lei. — Stia tranquilla, ho assegnato a questo caso i miei uomini migliori, e in più anche Vitini.

La donna non sembrò nemmeno accorgersi della battuta. — Ma come può trovarlo? Potrebbe essere ovunque.

Il commissario mi guardò, gli occhi cattivi che dicevano: dai una risposta intelligente o te la faccio pagare.

Alzai le spalle. — L'uccisione della cognata dimostra una certa pianificazione. Vuol dire che non sta agendo a caso. Molte persone si fanno una lista delle cose da fare se potessero. Interrogheremo le sue conoscenze e vedremo di arrivarci.

La dirigente mi guardò un momento, poi si voltò verso il commissario.

— Visto? — disse questi. — È in buone mani. Venga, che le offro un caffè.

Mentre uscivano dall'ufficio, notai che le aveva apposto una mano alla base della schiena.

* * *

Quando vidi la pozza di fango mi venne da ridere. Questa volta almeno avevo le calzature adatte. Non rallentai nemmeno, come fecero d'istinto i due agenti accanto a me.

— Forza! — urlai. — Se si infila fra quei capannoni non lo troviamo più!

Sentii lo sciaff-sciaff dei piedi alle mie spalle.

L'uomo, il caposquadra con autorizzazione a fare tutto ciò che riteneva necessario, senza fermarsi si voltò e sparò ancora. Non mi piegai nemmeno: era chiaro che non aveva idea di come si usasse una pistola o del concetto di prendere la mira, e a cinquanta metri le probabilità di colpirci sparando a caso erano nulle. I proiettili passarono parecchio sopra la mia testa, e anche un po' di lato.

— Non vi fermate! È troppo lontano per colpirci!

Sperai che l'uomo, sentendomi, si fermasse per sparare: avrei potuto fare lo stesso, solo che con la mia mira non l'avrei mancato. Invece continuò a correre, senza provare di nuovo a usare la pistola.

Girai la testa, e vidi che gli agenti avevano perso terreno. Pivelli. Dovevano aver rallentato per paura degli spari.

Guardai ancora avanti. Il caposquadra non stava correndo a caso, perché aveva leggermente girato. La sua destinazione sembrava lo spazio fra due dei capannoni in lamiera arrugginita di quel complesso industriale abbandonato. Ci stavamo arrivando in diagonale, quindi non vedevo cosa ci fosse lì in mezzo. Forse una macchina.

Davanti a lui c'era una pozza di fango. Tirai fuori la pistola e aspettai che ci fosse sopra. Solo allora sparai un colpo, verso terra. Speravo che sentendolo, si sarebbe istintivamente voltato e forse scivolato. Ma non ci fu nessuno sparo, e l'uomo continuò a correre.

"Nell'ambito delle politiche di attuazione dei decreti relativi alla riduzione degli sprechi nei contesti di pubblico servizio, si fa divieto agli agenti di usare munizioni per colpi a vuoto, siano esse dirette in aria o al terreno" diceva la circolare.Sarebbe stato interessante scoprire se il cane si era fermato prima di colpire il bossolo o se la polvere da sparo aveva deciso di non scoppiare oppure se la sicura era tornata da sola in posizione di blocco, ma non ora. Tenendo la pistola in mano, continuai a correre.

L'uomo aveva raggiunto la sua destinazione. Si era infilato nello spazio fra i due capannoni, sparendo dalla mia vista.

Accelerai. Ora che non lo vedevo più, poteva fare qualsiasi cosa. In pochi secondi raggiunsi l'angolo, fermandomi subito prima.

Presi fiato, poi puntai la pistola e feci uno scatto di lato.

Il corridoio di terra battuta fra i due capannoni era deserto.

Valutai il tempo che era stato fuori dalla vista, e calcolai la distanza che poteva aver percorso. L'unica possibilità era che fosse entrato nella porta che vedevo sulla destra.

I poliziotti mi avevano quasi raggiunto.

— Seguitemi! — urlai.

Arrivai alla porta, a lato della quale mi fermai. Sentivo i passi del caposquadra, dentro il capannone. Entrai, appena in tempo per vederlo correre verso l'unico angolo del locale che non fosse sgombro, dove erano ammassati pezzi di legno e di macchinari.

L'uomo si infilò dietro delle assi appoggiate alla parete.

Un momento dopo, si sentì un risucchio.

Mi fermai e rimisi la pistola nella fondina.

— Cos'è stato? — chiese uno dei due agenti, ora dietro di me.

Senza voltarmi, risposi: — Avete l'autorizzazione per andare di là?

— Di là? Nell'altro…

— Sì. Non siete autorizzati, vero?

Un momento di silenzio, in cui li immaginai guardarsi, poi la risposta: — No.

Sorrisi.

* * *

Auto in doppia fila. Motorini sul marciapiedi, negli spazi lasciati dalle bancarelle dei venditori abusivi. Clacson.

Nel mio universo lo specchio, il portale fra i due mondi, stava in un capannone abbandonato, ma qui ero finito nel camerino di un negozio di abbigliamento del centro. Le commesse erano troppo distratte a farsi le unghie per notare che un paio di uomini ne erano usciti senza mai essere entrati. O forse non conoscevano il principio di conservazione del numero di persone.

Nella strada affollata ritrovare il caposquadra era impossibile.

Alzai le spalle. Presto, molto presto, avrebbe fatto qualcosa di eccessivo anche per quel mondo. Mi sarebbe bastato aspettarlo all'uscita del commissariato di zona.

Avevo qualche ora di tempo.

Feci una telefonata, poi presi il 2 e scesi al capolinea. Da lì passai al 201, che attraversò tutta la periferia fino alla campagna. Un paio di fermate dello 022, e infine una bella passeggiata su una strada bianca in mezzo a campi e scheletri di palazzine in cemento armato. Rispetto all'ultima volta, alcune avevano già le mura del piano terra.

Riconobbi la macchina del geometra, parcheggiata davanti a un largo scavo.

Mi avvicinai.

Seduto al posto di guida, stava leggendo delle carte. Quando mi vide, scese e mi tese la mano. — Buongiorno. Sono venuto subito.

Gliela strinsi. — La ringrazio. Sa, purtroppo ho dei tempi molto limitati. Posso venire solo sporadicamente.

— Certo. — Il geometra guardò lo scavo. — Senta, a proposito del villino…

— Vedo che i lavori procedono. Bene.

— Ecco, appunto. — Aprì il foglio a fisarmonica che aveva in mano, che si rivelò essere i disegni del villino. Me li aveva già fatti vedere diverse volte. — Ho riguardato il progetto, e le assicuro che non ci sarebbe nessun problema a ottenere la concessione edilizia. È tutto in regola. Dobbiamo solo fare la domanda.

— No.

Il geometra guardò lo scavo, poi di nuovo il progetto. — Siamo ancora in tempo, eh. Possiamo anche dire che lo scavo lo abbiamo fatto per ragioni nostre, se mai venissero a controllare.

— No.

— Va bene, va bene. Allora procediamo così. Vede, lo scavo è ultimato. La settimana prossima partiamo con le fondamenta.

— Ottimo. Ha già avuto l'assegno?

— Sì, certo. Non c'è problema. — Mi guardò fisso. — Però, scusi. Io non capisco. Perché costruire abusivamente quando potremmo facilmente ottenere il permesso? Che senso ha?

Alzai le spalle. — Mah, diciamo che mi piace l'idea di fare qualcosa senza autorizzazione.

Il geometra scosse la testa. — Non capisco. Davvero non capisco. — Fissò lo scavo. — Non credo che avremo problemi, ma non capisco. — Sospirò. — Comunque, direi che qui abbiamo visto tutto. Io torno in città. — Si guardò in giro. — Non è venuto in macchina? Ha bisogno di un passaggio?

— Se non la disturba…

— Ma no, cosa dice. Anzi, se non ha fretta le offro anche un caffè.

— Con molto piacere.