Strogatz, esperto di teoria del caso e sistemi complessi, ricorda il problema dei quattro colori, una celebre congettura matematica che sostiene che su una superficie piana divisa in aree, per quanto numerose siano queste aree e per quanto complessi siano i loro confini, bastano quattro colori per distinguerle, senza che le aree dello stesso colore si tocchino (l’esempio classico è quello del planisfero politico: per distinguere tutti gli Stati sul planisfero bastano 4 colori). Congettura dimostrata ogni giorno praticamente, ma per dimostrarla matematicamente fu necessario, nel 1977, usare potenti computer per migliaia di ore, manipolando lunghissimi calcoli estremamente complessi, al punto che la dimostrazione finale consisteva in circa 500 pagine. Nessun essere umano, in una sola vita, poteva riuscirci. Questo approccio sta diventando sempre più comune: avanzare in settori come la teoria delle stringhe richiede sforzi immensi in termini di calcolo matematico, e la semplice intuizione, che da sempre ha permesso agli scienziati teorici di effettuare nuove scoperte, non basta più.Un articolo sulla rivista americana Wired nel 2013 ha affrontato la questione delle resistenze dei matematici all’utilizzo intensivo dei computer nel proprio lavoro. Resistenze che provengono da una convinzione di fondo: che la teoria, in certi casi, sia più affascinante della sua dimostrazione. E per congetturare qualcosa, non c’è bisogno di un computer: basta un po’ di fantasia. Proprio quella che manca ai computer. «La matematica pura non riguarda solo la conoscenza della risposta, ma la sua comprensione», sostiene Constantin Teleman dell’Università di Berkeley. Avere computer che sono in grado di ottenere la risposta con la mera forza bruta, provando e riprovando milioni di soluzioni finché non trovano quella corretta, vorrebbe dire, per il professor Teleman, «un fallimento della nostra capacità di comprensione».Nell’ambiente cresce il dibattito, di fronte a risultati come quelli conseguiti da Shalosh B. Ekhad, co-autore di numerose pubblicazioni su riviste scientifiche, noto per la sua capacità di dimostrare alcune dei più complessi teoremi matematici in circolazione, che però non è altro che un programma informatico, scritto dal suo creatore, Doron Zeilberger. Secondo uno scienziato che si occupa di questi problemi, Samuel Arbesman, è molto probabile che tra pochi anni alcune delle più importanti nuove scoperte che saranno realizzate porteranno la firma di un computer. Nel 2040, o anche meno, il premio Nobel per la fisica potrebbe andare a un’intelligenza artificiale. Quello che più preoccupa non è tanto quest’eventualità, quanto l’idea davvero inquietante per cui potremmo rivelarci incapaci di capire la scoperta realizzata dal computer. Per riuscirci, potrebbero essere necessari anni e anni di studio.«Ci sono concetti comprensibili da una persona su cento, e altri concetti che sono chiari soli per uno su un milione», sostiene Arbesman. «Il problema comincia quando arriviamo a idee che posso essere comprese solo da una persona su un miliardo». E quando queste idee riguardano questioni che possono mettere a repentaglio la vita di altri, possiamo fidarci di mettere le nostre vite nelle mani di una manciata di individui? È il problema alla base della “società del rischio”, una società in cui sempre più persone si ritrovano a dipendere da un gruppo sempre più ristretto di esperti, detentori di conoscenze difficilmente trasmissibili ad altri in poco tempo, dal chirurgo al pilota d’aereo.
Ma c’è anche un altro problema connesso al ruolo crescente dei computer nello sviluppo della nostra civiltà. È un problema che deriva dal fatto che i computer, dopotutto, sono costruiti dagli uomini, e così anche i programmi e gli algoritmi usati per risolvere i problemi. Come tali, possono essere sbagliati. Constantin Teleman ricorda un caso del genere negli anni ’90, quando alcuni matematici scrissero un programma per verificare una congettura riguardo la teoria delle stringhe, che i teorici ritenevano vera. Il programma, alla fine dei suoi calcoli, sostenne invece che la congettura fosse falsa. Si scoprì poi che i programmatori avevano compiuto un errore, e che ad avere ragione erano i fisici teorici. Qualcuno sostiene che tra non troppi anni avremo a che fare con computer in grado di auto-analizzarsi per individuare la presenza di bug nei codici dei propri programmi, così da risolvere anche questo problema. Simili intelligenze artificiali sarebbero certo in grado di sviluppare autonomamente gli algoritmi necessari per risolvere problemi estremamente complessi. Sarebbero pressoché autonome da noi, dunque dotate di consapevolezza. E chi ci assicura che, arrivati a questo punto, tali intelligenze artificiali non inizino a ragionare su problemi che non immaginiamo nemmeno e che non saremo mai in grado di capire?
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