Quando giri un film su robot che funzionano seguendo leggi precise e – in teoria – inviolabili, non è che puoi esimerti dal confronto con le creature positroniche di Isaac Asimov.
Le sue storie sulle Tre Leggi della Robotica hanno un peso e una statura talmente ingombranti nella fantascienza, che parlare di Automata senza citarle è inevitabile.
Fortunatamente per Gabe Ibáñez, esistono pochissimi precedenti di trasposizione cinematografica delle storie di Asimov, il più dichiarato dei quali è il mediocre I, Robot di Alex Proyas, dal successo talmente tiepido che in dieci anni dalla sua uscita nessuno si è azzardato a parlare di sequel… e quindi, tutto sommato, il suo Automata non ne esce neanche troppo male, ma è un po’ come arrivare secondi in una gara con due partecipanti (o anche primi, se deciderete che Ibáñez si è avvicinato all’obiettivo più di quanto non fece Proyas e il suo Will Smith che si pappava tre quarti delle inquadrature del film).
Il secondo debito, stavolta più stilistico che altro, Automata ce l’ha col “solito” Blade Runner, per quanto concerne la visione livida e priva di ottimismo che Ibáñez ci fornisce della società futura, e – naturalmente – per la figura di Jacq Vaucan, investigatore di una compagnia d'assicurazioni ritagliato sul profilo del Rick Deckard cacciatore d’androidi… ma diciamo che queste non sono neanche critiche, ma richiami inevitabili a taluni stilemi cinematografici, questo poi più proprio del classico noir che non della sci-fi (non è che in Blade Runner fosse tutto assolutamente inedito, eh).
In breve, il film racconta (senza fare troppi spoiler, che in un film del genere più o meno sai dove si andrà a parare) della presa di “coscienza” di un manipolo di robot e della nascita di un nuovo ordine di intelligenza (artificiale) che, alla faccia di Skynet e dei suoi epigoni, non è troppo interessato alla razza umana e al suo sterminio, cosa di cui peraltro, giusto all’inizio del film, ci viene raccontato che è già quasi completamente avvenuta per cause naturali.
Quindi abbiamo da una parte l’umanità decimata e confinata nelle solite piovose metropoli e la gente che se ne va in giro in impermeabili trasparenti a comprare cene precotte da scaldare al microonde e dall’altra i Pilgrim, robot solo vagamente antropomorfi costruiti per fare da servi.
Le famose Tre Leggi della Robotica, non si sa bene se per semplificare o per questioni di diritti (non viene neanche mai usato il termine "leggi", ma "protocolli") Ibáñez le riduce a due: la prima, è che un robot non può nuocere ad alcuna forma di vita, la seconda è che non deve manomettere se stesso o un altro robot.
Il tema attorno cui ruota (o dovrebbe ruotare) tutta la pellicola è uno di quelli sempre stimolanti (macchine intelligenti, libero arbitrio, evoluzione e via filosofeggiando), ma ci si gira sempre troppo intorno e niente viene mai approfondito… anche se va detto che non si indulge neanche nell'altro senso (I, Robot) con scene d'azione esasperate e robot che compiono tripli salti carpiati e mosse da ninja. Al contrario, i Pilgrim di Automata si muovono poco e lentamente, e seppur graziati da un discreto mecha design, mancano di caratterizzazione, rendendo difficile empatizzare con qualcuno di loro.
A tamponare queste mancanze, accorrono una bella fotografia (verdastra e livida nella prima parte, quella nella metropoli, e bianca e abbagliante nella seconda, nel deserto), un cast di comprimari molto ben scelto (tra i quali emerge un grande Robert Forster e una sempre deliziosa Melanie Griffith) e un impianto scenografico che denuncia sì i pesanti limiti di budget, ma che spreme anche l'ultimo dollaro e rende credibile e decorosa la messinscena della società futuribile (c’è pochissima CGI in tutto il film, e quella che vedrete negli ultimi dieci minuti è tirata su con due spiccioli e ve la sareste risparmiata volentieri).
Certo, la prima parte è decisamente più riuscita della seconda (lenta e poco incisiva) e con lo spunto iniziale che si perde in un finale debole (con una deriva quasi western)… ma Ibáñez mantiene un certo decoro, si concede tutta una serie di citazioni (tra tutte, quella della testuggine) che comunque non mi sono particolarmente dispiaciute.
Buona la prova d'attore di Banderas (ma raramente l'attore si esprime male), restando protagonista senza straripare dallo schermo come avviene in parecchie produzioni con un unico grosso nome in cartellone.
Basta tutto questo a far conquistare la sufficienza ad Automata? A mio avviso, sì, se poi lo vogliamo confrontare a porcherie come Trascendence, trainate fino al grande schermo solo dal nome di Johnny Depp, Automata diventa all'istante il nuovo Blade Runner.
Ho trovato fantastici i titoli di testa, in bianco e nero e sulla Musica per i Reali Fuochi d'artificio di Haendel. Peccato che siano gli splendidi preliminari di un amplesso non all'altezza.
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