- Gran figlio di puttana -, Talib ridacchiò; si arrese all’entusiasmo, - Godiamoci la gara. - I nomi degli atleti finalisti, dei club di appartenenza e gli sponsor, apparvero sul video in ordine di salto. La raffica dei pronostici crepitò fra i tifosi. Si spalancarono i portelloni Barilla, le navicelle targate Sony, Wolkswagen, McDonald’s e Ikea: gli atleti si affacciarono nel vuoto, salutarono con i pollici levati; i cronisti ne tradussero l’araldica, ne elencarono le vittorie e ne discussero le prestazioni. Yael Ophanim, la campionessa israeliana, si sporse in tuta verde trasparente dalla capsula smeraldo della Teva Pharmaceutical: sorrise nel plexiglas di un essenziale boccaglio, sparse i riccioli d’oro nella gelida oscurità: particole di ghiaccio ne riflessero la luce propria.
La sala mugolò d’orgasmo ed estasi; gli anchormen, infoiati, strogolarono la gloria agonistica dell’invincibile saltatrice di Haifa.
- Non c’è gara, come accade ogni anno -, Gebre ripeté, - gli altri, contro di lei, non hanno possibilità. Scommetto cinque morti prima che arrivino alla tropopausa; di più: mi gioco un mese di paga che sulla Terra ci arriva sola. -
- Toccherà questo suolo -, Bandele balbettò, - e vedremo l’Ophanim dal vero… Voglio stringerle la mano; potremo toccarla! -
Talib annuì senza stornare dall’oloschermo, fissava le immagini con le lacrime agli occhi. Con la quasi totalità della popolazione terrestre, dei coloni lunari, i residenti nelle stazioni orbitali, era conscio di seguire il Salto in Orbita non solo da appassionato di sport: bensì nutriva un’illusione dell’umanità che le canzoni bastassero al silenzio; di non essere inadeguata alla distanza fra i mondi, al tempo incalcolabile e la vertigine dell’universo. Guardare quegli uomini che si tuffavano nel buio, scivolavano per chilometri nell’azzurro, cadevano rannicchiati nel grembo della Terra, era assistere a un esorcismo di nullità collettiva. Valeva per quegli atleti, scampati alla morte, che al suolo, doloranti, si toglievano lo scafandro, si rialzavano con difficoltà, tremavano sulle ginocchia, salutavano il pubblico paonazzi e provati: Yael Ophanim era piuttosto una redenzione, partecipare al suo salto era ricevere l’eucarestia.
L’olocamera zoomò sulla capsula della Teva: la navicella e la campionessa, a grandezza naturale, galleggiarono nella stanza sulle teste del pubblico. Le dita virtuali della dea luminosa accarezzarono i volti degli astanti innamorati, di nove miliardi di spettatori sedotti. Talib sorrise di Bandele adorante che protese le labbra a baciare quel nulla; sorrise di Gebre: che strinse fra le mani, madide di emozione, quelle mani inconsistenti di laser e pixel. Ma sudò di sudore freddo quando lei lo sfiorò.
L’oloquadro si allargò alla panoramica, mostrò le navicelle dei dodici concorrenti. Il timer del countdown sostituì il contatore del pubblico, segnò quattro zeri. I cronisti ruggirono saltano!; gli atleti si lanciarono nel vuoto.
Gli Icaro della Microsoft, Coca-Cola, Wolkswagen, usciti dalle capsule con le braccia strette ai fianchi, fendettero l’ozono con i caschi aerodinamici, tremarono di convulsioni: le splendide, composte, potenti figure; uomini-dardo che trafiggevano il cielo, si spezzarono e caddero, con gli arti afflosciati, come orridi burattini in un teatrino di oscurità, il sangue ed il catarro insozzarono i boccagli. Gli atleti della Virgin, l’Apple e la Nike rotolarono sul ghiaccio cerulo stratosferico la grottesca capriola della morte, con le visiere degli scafandri appannate dall’asfissia.
Yael Ophanim zigzagò fra i cadaveri, ad altitudine trentanove chilometri superò i campioni Amazon e Ikea. Mille metri più sotto si avvitò in una picchiata fra Barilla, McDonald’s e Sony, che persero l’assetto, rallentarono la caduta, si azzuffarono frenati capovolti nell’abisso. I fiori bianco-porpora, giallo-rosso, bianco-nero dei paracadute sbocciarono dai loro zaini e li inchiodarono al vuoto.
Gli atleti israeliana, statunitense e svedese attraversarono la tropopausa a spalla a spalla e fischiarono nel primo tratto di troposfera.
La brina luccicò sul giallo-blu dell’Ikea, sul logo dell’Amazon apostrofato d’arancio. I lacerti delle nubi imbrigliarono i campioni; Yael Ophanim staccò i due rivali di sette decimi di secondo. Le esplose attorno l’aureola conica bianca del muro infranto di mach 1.24.
Le olocamere staccarono sullo svedese e l’americano, li inquadrarono in primo piano, penetrarono il plexiglas. La parete della sala diventò un immenso volto, la medesima espressione pervicace e sconfitta; belluina di una lotta ancora viva per il secondo e terzo posto sul podio Baumgartner.
L’Ophanim splendette di luce bianca sulle sabbie tenebrose del Laâyoune-Boujdour, luccicò sulle foglie, sulle pozze dell’oasi, sugli ettari di pannelli della centrale fotovoltaica. I cronisti ruggirono campionessa del mondo! campionessa del mondo!
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