Leto II
Nel riprendere quel Sentiero che il padre aveva abbandonato, scegliendo il proprio destino e sottraendosi al morso del fato, Leto II è inevitabilmente colpito dallo stesso sgomento e dalla stessa angoscia che ha attanagliato Muad’dib. Egli sa che il destino ha riservato per lui il più terribile dei ruoli, quello del tiranno millenario, il cui potere non più vincolato né dallo spazio né dal tempo è capace di trasformare l’intero universo in un campo di prigionia. Ma Leto sa che il suo ruolo è fondamentale: soggiogando l’umanità e privandola di ogni impulso vitale, essa capirà che l’epoca di Muad’dib tanto odiata in realtà era un’epoca di libertà. Questo è lo scopo ultimo della lunghissima tirannide di Leto II come Imperatore-Dio. L’alternativa al caos dell’epoca di Muad’dib sembra essere, per l’umanità che si affida al giogo dell’Imperatore-Dio, la sottomissione a un leader assoluto che garantisca la pace e la sicurezza in tutto l’universo. Ma nel corso dei secoli l’aspirazione alla sicurezza cederà il passo all’aspirazione alla libertà, a quel libero arbitrio che il determinismo del Sentiero Dorato sembrava apparentemente soffocare. Paul Muad’dib, pur avendo visto quella stessa strada, aveva deciso di abbandonarla, mentre il figlio Leto decide di percorrerla. Il duro scontro che ne deriva, al termine de I figli di Dune, tra Leto e il padre ormai diventato il Predicatore, riflette la diversa posizione dei due. «Mi credi un codardo perché ho rifiutato quel sentiero», dice Paul a Leto. «Oh, ti capisco bene, figlio. Auguri ed aruspici sono sempre stati il tormento di se stessi. Ma io non mi sono mai smarrito nei possibili futuri perché questo è… inenarrabile!». Il futuro che il Sentiero Dorato riserva all’umanità è un peso troppo gravoso perché Paul possa sopportarlo. Ma Leto è pronto a percorrere quella strada perché accetta la fatalità che il destino gli ha riservato, quella maledizione che affligge la casa Atreides.Ne L’Imperatore-Dio di Dune, dopo tremilacinquecento anni di impero, Leto II è completamente trasformato nel fisico e nella mente. Giunto ormai quasi al termine di quel Sentiero che ha deciso di percorrere, lo assalgono i drammi e i dubbi che avevano condotto alla disperazione il padre e la zia Alia. Ripensando alle folle di cesari, imperatori, zar e faraoni le cui coscienze albergano nella sua mente, Leto prega di essere “l’ultimo della serie”, affinché con lui muoia per sempre l’idea della tirannide di cui è divenuto la più terribile incarnazione. Ormai nauseato dal sistema di potere che ha creato, dalla religione fanatica che ruota intorno alla sua persona ben più di quanto ruotasse intorno a suo padre, Leto tenta di scalfire le convinzioni dei suoi più vicini servitori (Moneo, Nayla) sbeffeggiando i rituali da lui stesso creati. Ma l’esito è sempre uguale, una sorda indifferenza verso quelle che gli altri credono essere prove di fede, così che la frustrazione in Leto aumenta sempre più. «La maledizione del sacro», la chiama l’Imperatore-Dio; la stessa che il padre Paul aveva rifiutato e tentato di distruggere, e che invece il figlio aveva deciso di sopportare per portare a compimento il fato degli Atreides e dell’umanità. Eppure, Leto possiede in sé una profonda debolezza che i suoi nemici riescono infine a scoprire presentandogli Hwi Noree, ambasciatrice di Ix e donna di straordinaria bellezza e profondità d’animo. Leto II, che mai aveva conosciuto nei sui 3500 anni di vita l’amore e la tenerezza, è disperato. In uno dei più tragici monologhi interiori della saga (in realtà un dialogo tra l’es e il super-io di Leto), l’Imperatore-Dio è davanti alla tentazione di abbandonare il Sentiero Dorato, di abbandonare l’umanità al suo destino, di tornare a essere un uomo abbandonando la mostruosa forma che è stato costretto ad assumere. Ma sa di non poterlo fare, poiché la scelta fatta millenni fa è irrevocabile. «In fondo cosa sono io? Il solitario supremo, costretto a vedere quello che avrebbe potuto essere…», riflette Leto.
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