La scelta finale di Paul al termine di Messia di Dune, quella di abbandonare l’Impero ed esiliarsi nel deserto in cerca di una morte che egli vede come liberazione, è l’unica via di salvezza dal determinismo del Sentiero. Alia è l’unica a rendersene conto, consapevole che il fratello ha fatto ciò che ella non è riuscita ancora a fare e non riuscirà negli anni a venire: liberarsi con un gesto estremo dal guscio che l’umanità ha costruito su di lei. «L’intera vita di Paul è stata una lotta per sfuggire alla Jihad e alla trasformazione in dio», spiega Alia a Duncan. «Finalmente si è liberato. Lui stesso l’ha scelto!». Alia sottolinea quest’ultima frase (che Herbert enfatizza con l’esclamativo) perché in essa c’è il senso della scelta di Paul. Una scelta appunto, che egli forse per la prima e ultima volta nella sua vita ha compiuto da solo, in un silenzioso grido di sfida contro il fato che – come nel mito greco degli Atridi – ha colpito la dinastia degli Atreides. Come riflette il figlio di Paul, Leto, ne I figli di Dune: «…Un profeta può sfuggire alla sua visione soltanto procurandosi una morte in disaccordo con essa». Tuttavia, Paul non muore, nonostante abbia cercato la morte tra le sabbie del deserto. Ancora una volta, il destino che egli ben conosce sa che non è ancora arrivato il suo momento. Paul diventa il Predicatore, e cerca di tornare sui propri passi per liberare l’universo dalle briglie con cui lo ha legato. Tornato ad Arakeen, la capitale di Dune, il Predicatore si lancia in violente invettive contro la teocrazia imposta dalla sorella Alia, sostenendo che il vero Muad’dib non avrebbe mai voluto nulla di tutto quello. Nelle vesti di Predicatore, Paul tenta di redimere se stesso. «Soltanto una volta ho mancato di combattere per i miei principi. Soltanto una volta. Accettai il Mahdinato. Lo feci per Chani, ma fui un cattivo capo», riassume brevemente Paul al figlio. Il Mahdinato, ossia l’imposizione da parte dei Fremen di un ruolo-guida, quello del profeta, che Paul non vuole essere ma che sa di non poter rifiutare. Sarà un cattivo capo non per sua volontà, ma perché il destino così ha voluto.
Alia Atreides
Alia è, al pari del fratello Paul, prigioniera del destino che l’ha messa al mondo. Abominio per definizione, in quanto esposta all’orgia della spezia mentre era ancora nell’utero materno, ella ha acquisito così tutte le voci interiori delle Bene Gesserit, le coscienze di tutti gli esseri umani che l’hanno preceduta. A soli tre anni è una bambina fatta e finita, capace di uccidere il barone Harkonnen e facilitare al fratello Paul il compito di assurgere al potere. In Messia di Dune, il legame che unisce i destini di Paul e della sorella Alia si fanno evidenti. Entrambi cercano di sfuggire a quel Sentiero che li ha trasformati in mostri: «Avrei voluto essere capace di ridere», afferma tra le lacrime Alia a Duncan in un momento di sincerità. «Ma io sono la sorella dell’Imperatore che è venerato come un dio. La gente ha paura di me. Mai avrei voluto questo». Ritorna l’irriducibile contrasto tra volontà e necessità che lega i destini dei due fratelli, dove la volontà necessariamente è subordinata. Se ne rende conto Paul quanto sente la sorella esclamare che la bandiera degli Atreides ha ormai sventolato su troppe carneficine. «Era strano come entrambi provassero questa schiacciante responsabilità nei confronti di quell’universo rissoso, idolatra, sempre diviso», riflette Paul tra sé. Dopo la scomparsa del fratello, Alia è schiacciata dalle responsabilità della sua posizione e cede a quell’insopportabile peso. In un momento di confusione e ottenebramento mentale, mentre le sue voci interiori le impediscono di dare libero sfogo al suo io, la coscienza del vecchio barone Harkonnen emerge nella sua mente e stringe con Alia un patto per riportare la serenità nella sua anima turbata. È l’inizio, per Alia, di una discesa negli abissi del male: il barone giunge lentamente a possederla e, così, a tentare di usare il potere di Alia come strumento per distruggere gli Atreides e compiere – pur da morto – la sua vendetta su quella casata. Alia si trasforma così, ben più del fratello Paul, in un tiranno senza scrupoli: non volta più le spalle al cerimoniale che l’ha trasformata in Santa Alia, ma se ne serve per eliminare i tanti rivali e imporre il completo dominio su Dune. È in questo momento che, ne I figli di Dune, fa la comparsa il Predicatore. Questa figura, subito riconoscibile e riconosciuta come quella di Muad’dib tornato dalle sabbie del deserto dopo il percorso di redenzione spirituale intrapreso, si pone in diretta contrapposizione al giogo dispotico di Alia e del Quizarato (la teocrazia al governo su Dune e nell’Impero). Egli sfida Alia, che nel Predicatore vede il primo segno della sua sconfitta, di cui in qualche modo nei profondi meandri della coscienza è consapevole. Ma Alia, pur spinta dalla coscienza del barone Harkonnen che desidera la morte del Predicatore, riesce a mantenere ancora un barlume di sentimento filiale e non cede alla tentazione di farlo uccidere. Paul, ormai riconosciuto dalla sorella e dalla madre, riesce infine a sconfiggere la possessione di Alia, che si suicida in un atto di estrema liberazione. Anch’ella riconosce l’ineluttabilità della morte come via di fuga dalla tirannia che ha soggiogato lei stessa prima dell’universo intero, ma solo dopo aver tentato di resistere disperatamente a tale soluzione ed aver ceduto al fascino del potere assoluto offerto dal barone Harkonnen, che simboleggia il dispotismo più cieco da cui gli Atreides hanno sempre rifuggito.
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