Descrivendo la scomparsa di un suo amico qualche anno prima, nella sua biografia, Asimov tracciava il quadro ideale di quello che avrebbe voluto essere il suo modo di accomiatarsi dal mondo: una giornata spesa come al solito, trascorsa lavorando, per poi addormentarsi per sempre nel proprio letto, scivolando dal sonno alla morte senza sofferenza. È la fine che Asimov, a più riprese, ammette di desiderare. Sembra di sentire, in queste pagine sincere della sua biografia, la voce di Napoleone nel Guerra e pace di Tolstoj quando, contemplando quello che crede essere il cadavere del principe Andrej Bolkonskij sul campo di Austerlitz con in pugno la bandiera del proprio paese, parla in realtà a se stesso sussurrando Voilà une belle mort! (Ecco un bel modo di morire); a se stesso perché – Tolstoj sa – quella morte cercò disperatamente il Napoleone storico nella tragica campagna di Francia del 1813, quando tutto gli sembrò perduto, per non essere costretto agli anni del triste esilio di Sant’Elena. Nel 1991 le condizioni di salute di Isaac Asimov si aggravano. Passa le giornate quasi sempre a letto, a dormire: cerca di proseguire il lavoro, ma scrive pochissimo, perlopiù detta a Janet che non lo perde un attimo di vista. Il ricovero ospedaliero segue qualche mese più tardi, ma Asimov sa che sarà l’ultimo: si sente sempre più stanco, spossato. Scivola lentamente nella morte il 6 aprile 1992, non nella sua casa dopo una qualsiasi giornata di lavoro, ma nella sua stanza privata del New York General Hospital. Al capezzale ci sono Janet e Robyn; è a loro che Asimov dedica le ultime parole: “Vi amo”, sussurra.Presentando al grande pubblico nel 2005 l’ultimo romanzo inedito di Alexandre Dumas padre, Il cavaliere di Saint-Hermine, il più grande studioso dumasiano al mondo, Claude Schopp, scriveva: “L’ultima opera di un artista prende di fatto il valore di un testamento. Che poi si tratti di una sinfonia, di un quadro o di un romanzo, che sia compiuta, incompiuta o, come talvolta accade, appena abbozzata, non fa differenza: si tratta in ogni caso di ultima verba”. È stato così per Dumas, che in Saint-Hermine tratteggia se stesso come mai aveva fatto nei suoi tanti romanzi, come è stato per Asimov, che in comune con Dumas ha avuto senz’altro l’immensa prolificità. Nell’Epilogo di Fondazione Anno Zero, Asimov accompagna Seldon nei suoi ultimi istanti di vita. È la morte cui Asimov aspirava: Seldon parla del suo lungo percorso di vita, delle persone che lo accompagnato nel lungo viaggio, del futuro che ha contribuito a forgiare, delle speranze che lo rinfrancano. Intorno a sé si srotolano le luccicanti equazioni della Psicostoria. Un infarto lo stronca all’improvviso, ma la sua ultima parola è “Dors!”: il ricordo della moglie amatissima è il suo ultimo pensiero. (Un’interpretazione criptica ma non priva di fondamento di quest’ultima parola sta nel fatto che essa viene preceduta dal ragionamento di Seldon sul piano dei mille anni da lui tracciato: “E niente può…”, sta dicendo Seldon prima di morire. Sta dicendo in realtà che niente può far deviare il Piano dal suo sicuro tracciato; una certezza che verrà tradita da quanto emerge in Fondazione e Terra, ossia dal fatto che la galassia non è abitata solo da esseri umani. In effetti è possibile che Asimov volesse suggerire che nel cervello di Seldon fosse balenata l’idea che persone come Dors o Eto Demerzel, robot, potessero sfuggire al controllo della Psicostoria e comprometterla inesorabilmente. Da qui l’infarto che lo stronca).
Le ultimissime parole di Fondazione Anno Zero, quella della voce dell’Enciclopedia Galattica, sembra siano state scritte dalla moglie Janet Jeppson: “Qualcuno disse che Hari Seldon lasciò questa vita proprio come l’aveva vissute, perché morì con il futuro che aveva creato completamente schiusa intorno a sé…”. Gli erano state suggerite comunque dal marito, che aveva tratteggiato con accuratezza la morte di Seldon, di quel personaggio che aveva assunto le fattezza di un suo ego ideale. Chiudendo l’autobiografia del marito, Janet riportava le parole chiare e precise di Asimov sull’argomento: “Non mi sento di auto-commiserarmi perché non potrò vedere nessuno dei possibili futuri. Come Hari Seldon, posso guardare al mio lavoro tutto intorno a me e ne sono confortato. So di aver studiato, immaginato e scritto molti possibili futuri… è come se li avessi vissuti”.
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