La risposta era chiara: la specie umana grazie alla sua intelligenza e adattabilità era riuscita a espandersi in ogni angolo del pianeta, a moltiplicarsi fino a milioni e miliardi di individui, ma la socialità dell'uomo rimaneva quella di un antropoide adatto a vivere in tribù di non più di una ventina di individui strettamente imparentati. La civiltà, l'educazione, la cultura, che non erano altro che forme di addestramento prolungato e protratto attraverso le generazioni, era riuscite a imporre precariamente una convivenza fra masse umane ben più numerose, cozzando sempre con gli istinti profondi, ma ora questo non era più sufficiente.Vi sono animali che riescono a convivere e cooperare pacificamente con milioni di loro simili, gli animali cosiddetti eusociali: alcuni insetti, le api, le formiche, le termiti (ed è interessante che mentre api e formiche sono relativamente affini, le termiti appartengono a un gruppo del tutto diverso, sono imparentate con le blatte), ma anche un mammifero, un roditore africano, l'eterocefalo glabro, e una certa tendenza si ritrova nei canidi.“Il segreto” dell'eusocialità sembra essere che le funzioni riproduttive sono concentrate in una sola coppia, mentre la maggior parte degli individui sono asessuati o sterili. Un branco di lupi è formato da una coppia e dai loro figli; se un giovane lupo vuole una compagna, deve abbandonare il branco: c'è almeno un embrione di eusocialità. Tra i licaoni africani, che hanno branchi più vasti di quelli dei lupi, se una femmina non alfa ha dei cuccioli, la femmina alfa li rapisce e li porta nella sua tana dove subiscono una sorta di imprinting.
Fra gli esseri umani di un tempo non succedeva nulla del genere. I nostri antenati non si erano spinti nella direzione della eusocialità perché tutti erano riproduttivamente attivi: ogni individuo era una bomba genetica in conflitto con tutti gli altri per diffondere i propri geni a scapito del prossimo, e l'educazione formava solo una lieve patina sopra l'egoismo dei geni.
Quegli scienziati pensarono di creare un’umanità eusociale. Non so come fecero, se trapiantarono nel nostro genoma geni di ape, di termite, di eterocefalo glabro o in qualche altro modo.
Io non sono riuscito a capire il perché, ma il fatto è chiaro: eterocefali e termiti sono animali sotterranei. Le formiche si avventurano agevolmente all'aperto per esplorare e procurarsi cibo, ma il loro ambiente è il formicaio scavato nel terreno. Api e vespe vivono in modo molto simile alle formiche anche se i loro nidi, i loro alveari non sono sottoterra ma fra i rami di qualche albero. Perfino le femmine alfa dei licaoni allevano i piccoli in tane sotterranee mentre il resto del branco esplora e caccia. Sempre che api, vespe e licaoni esistano ancora. In qualche modo, sembra che una creatura eusociale sia più adatta alla vita in un ambiente chiuso.
Nascemmo come un esperimento, una bizzarria sulla quale nessuno avrebbe scommesso, e prosperammo, ci moltiplicammo mentre gli umani del vecchio tipo si estinguevano.
Mi presentai alle selezioni convinto di uscirne quasi subito in ragione dell’età, ma mi sbagliavo. La prima fase era una serie di esami medici e, a quanto pare, i miei parametri vitali erano ottimi.
- Non c’è una regola precisa per queste cose -, mi disse il Custode-medico che mi esaminò. - C’è molta variabilità individuale.
Poi fu la volta delle prove di forza e di resistenza e, a quanto pare, me la cavai egregiamente.
Una prima selezione consisteva in prove abbastanza semplici: correre, saltare, sollevare oggetti di peso crescente. Chi non otteneva risultati soddisfacenti era rimandato al suo cubicolo e alle sue occupazioni. Sono stato sciocco; avrei potuto farmi scartare e tornare alle mie incombenze già in quella fase, ma avevo pensato che se non mi fossi impegnato a sufficienza, i Custodi se ne sarebbero accorti e mi avrebbero punito in qualche modo, e soprattutto avrei perso la possibilità di entrare a far parte di lì a qualche anno di quella classe ambita.
Superai quella fase con relativa facilità ma non me ne preoccupai, pensando che sarei uscito di scena appena fossero iniziati gli scontri diretti; in fondo la maggior parte dei miei avversari era più giovane di me.
Poi passammo ai confronti diretti ancora senza scontro fisico: gare di corsa, di lancio, di resistenza e vidi con sorpresa che non ero io quello che rimaneva più indietro o scagliava il peso meno lontano.
Con mia grande sorpresa, passai anche quella selezione.
Nel frattempo scoprii una cosa che non avrei mai immaginato. Di solito non ci si rende conto di quanto in ogni momento della vita della comunità, ci siano persone in pausa, o per il turno di riposo o per il pasto. Io ebbi l'impressione che fossero tutti lì a osservare le nostre gare, sempre pronti a indirizzare grida di approvazione e di incoraggiamento a chi ottenesse un risultato brillante, e urli di spregio e insulti a chi facesse una prova scadente. Era, me ne resi conto, una cosa che movimentava un po' la vita tranquilla e ordinata della comunità, un piacevole diversivo per coloro che assistevano.
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