(0 – Tutto ha un inizio)
A partire dal titolo, che è un suo suggerimento, questo articolo deve molto a Salvatore Proietti. È lui che mi ha invitato a ripercorrere i sentieri della memoria, spiegando i retroscena di Cenere alla cenere, di recente ristampato sul numero 69 di Robot. I suoi stimoli si sono trasformati nell’occasione per ricostruire nello specifico il background alla base del racconto, e più in generale per articolare una riflessione sulla fantascienza (o almeno una sua particolare declinazione, e certe sue caratteristiche).
Questo articolo è quindi una raccolta di considerazioni personali che spero il lettore possa trovare di qualche interesse o utilità. Particolarmente delicato è stato il lavoro di ricostruzione di un’epoca ormai sempre più distante: prima che internet e smartphone ci dessero la sensazione di essere compiutamente integrati nella storia, e la certezza illusoria di una inesorabile persistenza dei dettagli contro lo scorrere del tempo.
Il riepilogo del processo di scrittura vuole anche rendere omaggio ai numerosi lettori e colleghi che si sono prodigati per assistermi in questo compito. Senza i loro supporto, Cenere alla cenere non sarebbe stato scritto. A tutti gli effetti sono stati i miei co-autori.
(1 – Noi temponauti)
Nell’estate del 2010 decisi di mettermi al lavoro su un progetto che covavo da qualche anno.
Per l’esattezza era almeno dal 2007 che accarezzavo l’idea di un racconto di fantascienza che parlasse della storia del nostro Paese, adottando il meccanismo narrativo del viaggio nel tempo. Quell’anno ero infatti riuscito a mettere le mani – con la complicità della prima storica NextCon organizzata da Alex Tonelli a Vimercate e del Bazaar del Fantastico di Andrea Jarok – su una copia del numero 15 di Robot. Anno di grazia: 1977. Ricordo di aver passato buona parte del viaggio di ritorno a Roma immerso nella lettura di quelle pagine ingiallite, mentre Sandro Battisti sfidava a velocità di curvatura la sensibilità di calibrazione degli autovelox disseminati sulla A1.
Tra le tante perle raccolte da Vittorio Curtoni in quel meraviglioso scrigno letterario avevo potuto leggere Noi temponauti, il racconto di Philip K. Dick del 1974 (“A Little Something for Us Temponauts”) che poi era il principale motivo che mi aveva spinto a dare la caccia, perlustrando le bancarelle e le librerie dell’usato, a quel numero magico. Il racconto è fulminante: intriso di nostalgia, pervaso da quel senso di sconfitta inesorabile che contraddistingue una gran parte della produzione dello scrittore americano, narra di tre temponauti che si ritrovano bloccati in un loop temporale e devono soccombere al determinismo delle leggi del viaggio nel tempo, malgrado i loro sforzi di porre rimedio alla situazione.
Ma è anche una storia sul senso di perdita vissuto dall’America e dal mondo intero il 22 novembre 1963 a Dallas, quando i proiettili esplosi dal fucile di Lee Harvey Oswald spezzarono la carriera presidenziale di John Fitzgerald Kennedy, da allora il più amato – a torto o a ragione – degli inquilini della Casa Bianca.
La lettura del racconto di Dick mi spinse a domandarmi questo: potevo riprodurre quello schema in una storia italiana, con l’ambizione di suscitare lo stesso gioco di riverberi ed echi nell’animo del lettore italiano di fantascienza?
(2 – Cicatrici)
Nel 2007 un altro evento mi aveva fornito uno stimolo inatteso a proseguire su questa traiettoria un po’ folle. Nell’estate di quell’anno i colloqui lavorativi che da un paio d’anni andavo sostenendo in giro per l’Italia mi portarono a Bologna. Arrivando in stazione, mi ritrovai a pensare alla strage che aveva sventrato l’edificio ventisette anni prima, che entrava in risonanza con le altre tragedie di quell’anno soffocato dalla cronaca. Tra le altre, il Terremoto dell’Irpinia aveva colpito direttamente tante persone a me care.
Il Terremoto, senza un’indicazione geografica precisa, era stato fin dall’infanzia un’ombra terribile sospesa nei racconti che sentivo svolgersi intorno a me: il ricordo sconfinava a volte nel mito, in una celebrazione espressionista dalle ambizioni catartiche. La luna che si tinge di porpora, i cani che impazziscono, il fuoco che erutta dalla terra. Il peso della memoria e del dolore era stato distillato in quell’unica parola, che sentivo rimbombare con tutta la gravità di quella maiuscola nelle rievocazioni dei miei familiari. Il Terremoto aveva spazzato via intere famiglie, raso al suolo interi paesi, lasciando nel tessuto sociale cicatrici che posso ancora toccare con mano nel paese in cui sono cresciuto, così come in tutto il territorio circostante.
Forse proprio per questo sono sempre stato un’antenna così sensibile al segnale diffuso dalla stazione radio del 1980.
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