Capolavoro oppure opera sopravvalutata? Gravity non è nessuna delle due cose. L'errore di valutazione a due polarità opposte è indotto dal formalismo della pellicola di Alfonso Cuarón: ottima regia, così come il montaggio e la fotografia, struttura semplice e pochi ma “quadrati” personaggi. Un blockbuster d'autore, si direbbe, visto che nel climax dell'azione il regista e sceneggiatore messicano racconta una rinascita che si tinge di una specie di evoluzionismo morale: non preoccupatevi, gente, siamo umani e siamo capaci di resistere a qualsiasi cataclisma, sia esso naturale, economico o esistenziale, dobbiamo solo rimboccarci le maniche e ricominciare il nostro cammino evolutivo.
Il film con Sandra Bullock e George Clooney ha per protagonista la brillante dottoressa Ryan Stone che è alla sua prima missione spaziale, mentre l'astronauta Matt Kovalsky è all'ultimo volo prima della pensione. Quella che per loro doveva essere una passeggiata spaziale di routine si trasforma in una catastrofe. Lo shuttle viene distrutto e loro si ritrovano soli nell'assordante silenzio dell'universo. Fluttuanti nell'oscurità e privi di qualunque contatto con la Terra non hanno apparentemente alcuna chance di sopravvivere anche per via dell'ossigeno che va esaurendosi. Forse l'unico modo per sperare di tornare a casa è quello di addentrarsi nello spazio infinito.
L'assenza di gravità di cui si fa esperienza con il 3D fa il paio con la leggerezza del canone hollywoodiano. Nella prima delle Lezioni Americane (La leggerezza, appunto) Italo Calvino, portando il ragionamento da Ovidio a Swift e da Newton a Cyrano, indaga “la letteratura come funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso del vivere” facendo riferimento all'antropologia e all'etnologia: “Alla precarietà dell'esistenza della tribù, – siccità, malattie, influssi maligni – lo sciamano rispondeva annullando il peso del suo corpo, trasportandosi in volo in un altro mondo, in un altro livello di percezione, dove poteva trovare le forze per modificare la realtà. In secoli e civiltà più vicini a noi, nei villaggi dove la donna sopportava il peso più grave d'una vita di costrizioni, le streghe volavano di notte sui manici delle scope e anche su veicoli più leggeri come spighe o fili di paglia. Prima di essere codificate dagli inquisitori queste visioni hanno fatto parte dell'immaginario popolare, o diciamo pure del vissuto. Credo sia una costante antropologica questo nesso tra lievitazione desiderata e privazione sofferta. È questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua”.
Una costante della letteratura applicabile al cinema americano degli effetti speciali e dei super budget? Certo, potrebbe valere anche per Gravity, ammesso che lo si voglia considerare un'opera di narrativa e non solo un ottovolante cinematografico. Anche se l'efficace uso del 3D lascia un dubbio amletico: dovendo avvicinare all'ultimo Cuarón l'aggettivo “esperienziale”, lo si farebbe nell'accezione comune – relativa all'esperienza in sé – o nel senso psicologico del termine, legato cioè all'elaborazione che un individuo ne fa con la riflessione? Più semplicemente: prevale il contenuto o il contenitore?
In definitiva, il dubbio si scioglie soffermandosi sul peso specifico del contenuto: riflessioni e suggestioni leggere come gas, facili da respirare ma che difficilmente sedimenteranno nella memoria dello spettatore, disposte come sono alla facile deriva nello spazio interno delle coscienze sedute in platea, pronte a tornare alle rispettive vite a due dimensioni subito dopo aver consegnato gli occhialetti magici a una maschera.
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