L’icona dell’astronave generazionale ha una lunga storia fantascientifica, a partire dagli anni 40 di Universo di Heinlein, passando per Rito di passaggio di Panshin (che prova a riscriverlo al femminile) e tante storie scritte da Brian Aldiss, Harry Harrison, Gene Wolfe, o a episodi di Star Trek, Spazio 1999, perfino del Doctor Who. Centrale per la generation starship (con il suo viaggio realistico nella sua durata secolare, senza la bacchetta magica della propulsione ultraveloce) di Paradises Lost, scrive l’autrice nell’introduzione a The Birthday of the World, è il poema narrativo Aniara (1956) dello svedese Harry Martinson (che nel 1974 vinse il Premio Nobel per la letteratura anche grazie alla fama ottenuta con questa opera fantascientifica), che legava avventura della conoscenza e nascita di nuove esperienze esistenziali e religiose. Di altrettanta ispirazione, aggiunge Le Guin, è The Dazzle of Day di Molly Gloss (1998), altra autrice dell’Oregon, che (ci scrive in una email) forse ha respinto i lettori più “puristi” non disdegnando di prendere sul serio sia la hard science sia la sottigliezza emotiva della delineazione dei personaggi. Ci sembra abbastanza per impegnarci a reperirlo e a leggerlo.
Difficile non collegare magari indirettamente la durezza (dirt-y?) di questa storia agli anni in cui viene scritta, che sono senz’altro i vertici della SF televisiva, quelli di Deep Space Nine e Babylon 5 – e magari, nella SF letteraria, di una serie televisiva “segreta” come quella dei romanzi degli Starfarers di Vonda N. McIntyre (a cui forse si allude in uno degli inintelligibili messaggi finali ricevuti dalla Terra, in cui si parla dello sviluppo di una faring technology, che qui – dopo consulto con l’autrice – si è tradotto, con una strizzata d’occhio alla “curvatura” di Star Trek, come “tecnologia di distorsione”).
A dare forma alla scrittura di Paradises Lost, dice Le Guin nella stessa introduzione, è l’inclusione del tema “religioso”, la nascita di un movimento fondamentalista che è decisamente un’allusione alla contemporaneità statunitense. Però con una satirica inversione che ha molto di swiftiano. Invece di un’interpretazione letteralista della Bibbia, gli “angeli” del “mondonave” si presentano come interpreti “metaforici” della missione della Discovery. L’illusione di proseguire per sempre on the road fa perdere loro di vista il contatto con la realtà della destinazione del viaggio. Per la comunità, è una perdita dell’innocenza. Ma l’ambiguità intrinseca dell’universo dell’astronave è proprio nell’inevitabile autosufficienza di un sistema ermeticamente chiuso. Come in una gated community del mondo reale (forse la fonte di alcune delle più feroci distopie degli anni 90: quella fantascientifica della Parabola del seminatore di Octavia Butler, quelle di confine del Gioco da bambini e Super-Cannes di J.G. Ballard, fino alla satira realistica di The Tortilla Curtain di T. Coraghessan Boyle), la società della nave vuole controllare troppo.
Come sempre in Le Guin, ci sono gli intrecci parentali. È senz’altro la sua firma, mettere al centro le convenzioni antropologiche, sociologiche: un modo per dare dimensione collettiva, corale, ai rapporti interpersonali. Questo legame letterario è l’unico, indiretto collegamento con l’universo dell’Ecumene in cui è ambientata gran parte della sua SF. Ci sembrerebbe assurdo ripercorrere qui la carriera di Ursula K. Le Guin, e ci limitiamo ad auspicare un ritorno di attenzione dell’editoria italiana. Ci teniamo, almeno, a ricordare una produzione che negli anni 80 porta al coraggioso esperimento di Always Coming Home, romanzo ben poco lineare su una sincretica comunità nativa del futuro (forse, pacifista anche perché ha fatto suo un beffardo uso del computer), negli anni 90 all’affresco su schiavitù e liberazione di Four Ways to Forgiveness, e nel 2000 all’intensissima distopia di The Telling; e ci sono almeno due importanti antologie (A Fisherman of the Inland Sea e, appunto, The Birthday of the World). Nel frattempo, prosegue la produzione di fantasy, con altri tre volumi sul mondo di Earthsea, e la nuova trilogia degli Annals of the Western Shore, di cui è stato tradotto solo il primo volume. Al confine fra i generi, poi, ci sono Changing Planes, il cui modello più diretto sono le Città invisibili di Calvino, e la riscrittura al femminile dell’Eneide di Lavinia, in cui il personaggio virgiliano si incontra con un’arcana ombra, quella dell’autore che non ha saputo raccontare, non conosce, la sua storia. E poi poesie, saggi… Una fioritura di scritture multiformi, che prosegue.
Nel 2012, di Paradises Lost (come negli anni 50 era successo ad Aniara: l’unico altro esempio, ci dice l’autrice, letteralmente di “space opera”) è stata ricavata un’“opera in due atti”, musica di Stephen Andrew Taylor, libretto di Marcia Johnson. Dai frammenti reperibili in rete, possiamo solo sperare di poterla vedere dal vivo. Si tratta senz’altro del migliore fra tutti gli adattamenti ricavati dai suoi romanzi. Sembra particolarmente efficace e straniante l’idea di trasformare la folla dell’equipaggio della Discovery in un coro: forse, era stato da sempre quello il suo ruolo.
Lasciamo a chi legge il piacere di addentrarsi in discussioni e dilemmi su storia, ecologia, scienza, tecnologia, bioetica, rapporto fra sogni e realtà (entrambi necessari, nessuno a spese dell’altro), sulla ricchezza e sulla fragilità del mondonave. In un centinaio di pagine, il respiro è epico. Ed è la loro imperfezione a rendere indimenticabili i personaggi, a partire dal costante, conflittuale dialogo fra Hsing e Luis, yin e yang, complementari e spesso produttivamente impenetrabili – e che proprio per questo si sforzano di comunicare. Per Le Guin, l’avventura fantascientifica è sempre un’avventura fatta di parole, e il finale ci lascia innanzitutto con l’arrivo di un mondo in cui parole, significati definizioni, sono tutti da creare.
Una fantascienza da realizzare. A renderla reale sono coloro per cui una parola come “eva”, i sogni della scienza, della fantascienza, sono parte dell’esperienza quotidiana. Speriamo, noi lettori di SF, di saper sempre sognare come Hsing.
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