Era solo questione di tempo. Il classico della letteratura fantasy per ragazzi Lo Hobbit, scritto da J.R.R. Tolkien nel 1937, arriva sul grande schermo sulla scia del successo mondiale della trilogia del Signore degli Anelli. Ad occuparsi del progetto ancora Peter Jackson e il suo eccellente team produttivo, che hanno ormai indelebilmente associato il nome della Nuova Zelanda a quello della Terra di Mezzo.
Dopo un prologo che ci introduce a quello che sarà lo sviluppo della vicenda la storia vera e propria prende avvio con lo scombussolamento della tranquillissima vita di Bilbo Baggins, l’hobbit del titolo. Una sera a casa sua piomba inaspettatamente un gruppo di vocianti nani capeggiati da Thorin Scudodiquercia, che non solo gli svuota completamente la dispensa ma finisce anche per coinvolgerlo in un’imprevista avventura. A muovere le fila di tutto c’è Gandalf Il Grigio, il mago che ritiene molto importante che anche l’hobbit si aggreghi alla compagnia che si prefigge nientemeno di restituire ai nani Erebor, la Montagna Solitaria, loro vecchia dimora adesso diventata un forziere vigilato dal drago Smaug. Naturalmente imprevisti e pericoli non mancheranno…
Ritornare cinematograficamente nella Terra di Mezzo jacksoniana è per moltissimi versi una bella cosa. Lo è per i tanti spettatori che ne hanno decretato il successo al box office nel corso delle festività natalizie e lo è per il recensore, che un decennio fa (Dicembre 2001) scrisse dalla Nuova Zelanda proprio per Fantascienza.com una delle prime recensioni di Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell'anello www.fantascienza.com/magazine/film/2051/il-signore-degli-anelli-la-compagnia-dell-anello/ apparse in Italia. Peter Jackson & C. con Lo Hobbit ci riportano piacevolmente nel fantasioso regno popolato di nani, elfi e troll che ben conosciamo e nel quale è divertente addentrarsi, lasciandoci coinvolgere in un’altra rutilante avventura. C’erano dei dubbi sul fatto che il libro di Tolkien fosse stato troppo stiracchiato per trasformarlo prima in due poi addirittura in tre film ma da questo punto di vista il pericolo, almeno a giudicare da questa prima parte, sembra essere stato evitato. La sceneggiatura attinge non solo dal romanzo originale ma anche dalle corpose appendici che lo scrittore inglese aveva posto in coda al Signore degli Anelli e visto che si tratta di storie che si richiamano a vicenda l’integrazione dei vari testi non intralcia lo sviluppo narrativo, che risulta sì episodico ma non più di quanto non lo fosse nel SdA stesso.
È un piacere ritrovare personaggi noti come Gandalf, ancora splendidamente interpretato da Ian McKellen (X-Men) ma lo è anche fare la conoscenza di quelli nuovi a partire dall’eroe riluttante Bilbo che trova in Martin Freeman (Guida galattica per autostoppisti) l’interprete ideale. Ottimamente caratterizzati anche tutti i dodici comprimari, a cominciare dal Thorin impersonato da un convincente Richard Armitage (Spooks in tv, Capitan America al cinema), ed è la squadra dei nani a regalare i dei momenti più divertenti. Oltre a Gandalf si rivedono anche molti dei personaggi che erano apparsi nella trilogia del SdA e su tutti svetta indubbiamente Gollum, il possessore (per poco) dell’Anello, ancora interpretato via motion-capture da un intenso Andy Serkis (King Kong). Tra i nuovi citiamo perlomeno il ributtante Grande Goblin interpretato dall’australiano Barry Humphries, attore molto noto in tutto il mondo anglosassone e che soprende chi lo conosce in drag nei panni della deliziosamente perfida ‘Dama’ Edna Average.
In questi anni lo sviluppo delle tecnologie ha fatto passi da gigante e sul versante degli effetti visivi la Weta dimostra ancora una volta di essere al top. Lo Hobbit da questo punto di vista è una sorta di banchetto con una serie lunghissima di portate, tutte gustose (questa recensione si riferisce ad una proiezione Imax 3D a 48fps*).
Tutto bene, tutto perfetto dunque? Non esattamente. Il problema principale consiste nel trovarsi di fronte ad un’opera sin troppo vicina alla precedente, oltretutto ingabbiata in una struttura narrativa estremamente simile – per non dire identica – a quella già vista nel decennio scorso. E se il primo film del SdA aveva sorpreso tutti, catapultando l’outsider Jackson nell’olimpo dei registi di serie A più valutati dall’industria cinematografica statunitense, qui inevitabilmente manca del tutto tale impatto innovatore. Questo rischio effettivamente lo si sapeva in partenza, tant’è che Jackson nel progetto iniziale aveva oculatamente deciso di limitarsi al ruolo di co-sceneggiatore e produttore, affidando la regia all’ottimo Guillermo del Toro. Purtroppo le difficoltà finanziare della Metro Goldwyn Mayer hanno ritardato enormemente il varo della produzione. Del Toro ha passato ben due anni in Nuova Zealanda collaborando alla stesura della sceneggiatura ed essendo coinvolto molto attivamente in tutta la pre-produzione. Poi, nel maggio del 2010, ha gettato la spugna, non potendo rimanere più a lungo in un limbo professionale che tra l’altro, vista la mole del progetto, gli impediva di poter prendere impegni anche per altri film. Solo sei mesi dopo l’empasse produttivo sarebbe stato superato e la produzione vera e propria sarebbe potuta cominciare, ma a quel punto il regista messicano aveva già firmato altri contratti (tra pochi mesi vedremo il suo attesissimo Pacific Rim). Jackson a quel punto non ha potuto far altro che tornare a sedersi in prima persona sulla sedia da regista ma per quanto bravo e di talento egli sia la sua visione del mondo fantastico immaginato da Tolkien l’aveva già sviscerata a fondo facendo diventare la trilogia del SdA il classico istantaneo che meritatamente è. Del Toro avrebbe certamente portato una positiva ventata di novità, ci avrebbe dato la possibilità di tornare nella Terra di Mezzo con altri occhi e diversa sensibilità e basta aver visto anche solo qualcuno dei suoi film per sapere che il suo approccio da regista a questo tipo di materiale sarebbe stato folgorante. Così com’è Lo Hobbit è certamente un film godibilissimo e riuscito ma, vedendolo, non si riesce del tutto ad evitare quella sensazione non esattamente esaltante che potremmo poco giornalisticamente definire di ‘minestra riscaldata’. Il che spiega le tre stellette, e non di più, della valutazione.
* Nota tecnica finale riguardante la versione a 48fps. Il film è stato girato con macchine da presa che operano a 48 fotogrammi al secondo invece dei 24 standard. Vi sono dei chiari vantaggi in termini di definizione, apprezzabili soprattutto nelle scene fortemente dinamiche. Inoltre questo permette anche di compensare il fatto che nel formato 3D le immagini appaiono un po’ più scure di quanto non lo siano in 2D. I risultati migliori sono raggiunti nelle eccellenti scene notturne o sotterranee, mentre quelle in pieno sole appaiono sbiancate, come se fossero sovresposte. Si tratta dunque di una innovazione tecnica certamente promettente ma che al momento richiede ancora qualche miglioramento.
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