Uno dei due uomini mostrò alla camera un tesserino. L'oled brillò troppo velocemente perché potessi leggere alcunché. Disse: – Siamo del POLISIR, e con noi c'è un tecnico della EDEN. Lei è il signor Claudio Martini? – – Sì. Che c'è?
– Signore, l'onorevole Venturi è in casa?– Vi sembra questa l'ora?
– Signore, ci dispiace. Ci segnalano la disconnessione di outronet dell'onorevole da quasi un'ora. Non è stato dato alcun giustificativo. L'EDEN ha registrato un consumo di corrente fuori quota.
– Sì, mia moglie è nel sarcofago, ma non c'è niente che non vada.
– Signore, possiamo entrare? È solo un controllo. Ci spiace per l'orario. È il nostro lavoro.
– Ci penso io, a mia moglie. Grazie.
– Signore, con il dovuto rispetto, dobbiamo entrare.
– Cos'è? Se non apro la porta, la buttate giù?
– Siamo autorizzati a farlo, sì. Ci apre, per favore?
Dissi no, spensi lo spioncino, e tutto accadde troppo in fretta.
I due sfondarono davvero la porta, con tre calci. Io indietreggiai già al primo. Al secondo, sentii la porta del bagno aprirsi, e al terzo un tintinnio alle mie spalle che mi fu familiare. Mentre i due sfondavano, urlavano e la serratura rimbalzava sul pavimento, il risonatore del corridoio scattò e il buio risucchiò l'ingresso. La luce del pianerottolo allungò le ombre dei due uomini. Il tecnico era rimasto contro il muro, sotto la lampada. I due avanzarono, gridarono qualcosa superando il trapezio luminoso sul pavimento. Finirono nell'oscurità insieme a me, guardinghi. Poi ci fu il suono dei piedi nudi di Bonnie Moon in corsa e di nuovo quel tintinnio. Era la mia cassetta degli attrezzi.
Bonnie Moon strozzò un grido che mi fece venire i brividi mentre mi passava di fianco. Vidi il suo piccolo braccio in controluce fare compiere un arco alla cassetta tenendola per il manico. Si abbatté sulla faccia del primo uomo. Il rumore fu terrificante. Saltò addosso al secondo. Dalla figura nera disegnata dal contrasto con la lampada, capii che gli si era avvinghiata con le gambe come aveva fatto con me. Vidi la cassetta sollevata sopra le loro teste. Finì su quella dell'uomo. Crollarono entrambi al suolo.
Il tecnico della EDEN rimase appiccicato al muro per qualche secondo, poi schizzò via. Suole di gomma in corsa nel corridoio del palazzo.
Mi sembrò di essere rimasto solo. La sagoma scura di Bonnie Moon si alzò lentamente, incorniciandosi tra gli stipiti della porta divelta.– Dio santo! Cos'hai fatto?
Lei respirò, poi inghiottì. Sentii di nuovo il gorgoglio.
– Ho fatto altra pipì, Claudio. Devo avere qualcosa che non va.
Il furgone ronzava morbido tra le strade vuote. Avrei voluto fosse ancora più silenzioso e che ci fossero meno lampioni. Le vie del centro non avevano quote rionali temporizzate. La luce m'inseguiva. Era ovunque.
– Dove stiamo andando? – chiese Bonnie Moon dalla grata che dava sul vano di carico.
– Ti porto in un posto.
– E poi?
– Ti lascio lì, poi aspetti una persona. Io vado, ma poi ritorno.
– No...
– Sì.
– Non mi lasci da sola. Voglio stare con te.
– Ti rendi conto di quello che hai fatto?
– Sì...
– Ci sono due uomini svenuti in casa mia. Due del POLISIR. Lo sai cos'è la polizia di partito?
Dallo specchietto retrovisore la vidi scuotere il capo. Il bianco degli occhi brillò quando passai sotto un lampione. Mi chiesi cosa sapesse davvero.
– Ti ho sentito mentre parlavi di tua moglie, lì, dal bagno. Io... io... mi sono arrabbiata. Cosa significa, Claudio? Dimmelo!
– Ma tu davvero non ti chiedi dove sei o chi sei? O perché... che so... perché io sono così vecchio? Non ci pensi a queste cose? Che c'è nella tua testa?
Iniziò a piangere. Ricordo che pensai immediatamente che i singhiozzi si sarebbero potuti sentire all'esterno del furgone. Me ne vergognai.
– Sei tu, Claudio. I tuoi capelli grigi. Le basette sempre disordinate... – singhiozzò e proseguì: – Siamo a Bologna. Dove dovremmo essere?
Non sapevo cosa si fosse riversato nel suo cervello, né da dove venisse il corpo di quella ragazza che sembrava avere i ricordi della mia Bonnie Moon e parte della consapevolezza di Betta. Provai pena.
Mi fermai davanti al salone. Lasciai acceso il motore.
– Ti lascio qui.
– No...– Tra qualche ora verrà ad aprire una signora anziana. Non conosco il suo nome. Chiedile se puoi aspettare per un po' da lei. Dille... ecco, sì. Dille delle ventimila lire di resto che mi deve. Si ricorderà.
– Ti prego.
Scesi e aprii le portiere posteriori. Bonnie Moon cominciò a frignare sbattendo i piedi sul piano di carico, rannicchiata in un angolo, dentro la penombra.
– Zitta! Ho detto che torno!
– No! – urlò. – Se mi lasci qui, mi metto a gridare a tutti il tuo nome fino a mattina.
– Non puoi venire con me.
– Perché?
– Perché sei pericolosa.
– Non mi puoi lasciare... – Riprese a piangere.
Dovevo pensare in fretta, avrebbe fatto troppo chiasso. Imprecai e chiusi le portiere. Sentii il suo grazie attraverso il metallo.
Non avevo bisogno della tavoletta. Nemmeno di ricordare l'indirizzo matriciale di De Solla-Price. Avevo percorso tante di quelle volte quel tragitto, anche di notte, che la scarsa illuminazione di Pieve di Cento mi fu perfino d'aiuto per concentrarmi sugli interventi da fare al pannello elettrico del palazzo. Un vero tecnico, uno della vecchia scuola, non aveva certo bisogno di un codice 200 per entrare nell'abitazione di una mummia. Non era una cosa che potevano fare tutti. Io sì. Una porta è un meccanismo. Se si bypassa il software che lo controlla, tutto ciò che resta è metallo e cemento. Cose che si possono toccare, che si possono svitare, sulle quali si può fare leva, cose che io posso fare scattare.
La serratura di De Solla-Price emise un tac! e la porta si aprì. Mi voltai a guardare Bonnie Moon alla luce dei led del pianerottolo. Rannicchiati in quella bava luminosa dovevamo sembrare esseri diversi da quelli che eravamo. Io, di certo, non ero più solo un tecnico da quella notte e lei era ancora più estranea di quanto non fosse con gli abiti di Betta presi al volo mentre scappavamo di casa. Bonnie Moon mi dava una sensazione strana con quella camicetta troppo grande e le maniche arrotolate, e i leggings che a Betta avrebbero fasciato le cosce, mentre le caviglie di Bonnie Moon ballavano intorno all'orlo anche se era accosciata; col tessuto che si tirava sulle ginocchia. Eppure, quando mi fece un cenno con la testa come se fosse lei a dovermi autorizzare, mi accorsi di quanto quel gesto fosse familiare. Stava condizionando la mia vita ancora una volta. La lasciai fare.
Chiusi la cassetta senza produrre suoni ed entrammo. Nell'appartamento c'era pochissima luce. Una greca parzialmente accesa, ma conoscevo anche quell'ambiente. Sapevo dove avrei trovato De Solla-Price.
Provai disgusto per quel corpo scheletrico. L'incavatura del costato tagliata dalle ombre nette dei led che però si deformavano nel nanolattice traslucido; le ginocchia sporgenti tra le cosce e gli stinchi privi di muscoli; il pene minuscolo infossato nello scroto. Mi avvicinai. Bonnie Moon mi teneva per il gomito. Non le sentivo il respiro. Le palpebre di De Solla-Price vibravano. Uno spasmo di qualche tipo. Un sorriso sghembo sulle labbra sottili.
Presi il cacciavite dalla tasca bassa del pantalone e usai la punta per incidere il nanolattice partendo dai piedi per arrivare alla testa. Il materiale colloso si richiudeva immediatamente al passaggio, ma la sensazione provata da De Solla-Price, in outronet, doveva essere simile a quella di un corpo che si spacca a metà. Dietro la maschera di carbonglass gli occhi si aprirono di scatto. I fotoni pressori schiacciarono la sclera. Altra sensazione fastidiosa. De Solla-Price tirò su il capo boccheggiando. Il nanolattice, ancora in funzione, provò a seguirlo, ma oltre un certo limite sganciò i propri atomi rivelando la testa spigolosa. Gli strappai la maschera e la buttai a terra.
Aveva il corpo sollecitato da outronet e la testa nell'aria stantia della camera. Si girò a guardarci, tossendo. I suoi lineamenti si tirarono sugli zigomi ossuti.
– Tu! – fece.
– Sì, io.
Provò a spegnere il sarcofago usando l'interruttore sul bordo interno, ma glielo avevo disabilitato. Rimase così, mezzo fuori e mezzo dentro. Forse aveva troppa paura. Forse i suoi muscoli flaccidi non riuscivano nemmeno a contrastare la resistenza minima del nanolattice.– Non ho fatto niente. Ti ho dato lei! Non è quello che volevi?
Non gli avevo chiesto nulla, ma aveva avuto fretta di parlare con quel suo caratteristico modo di sbattere i denti.
– Sapevi cosa sarebbe successo a Betta. Non è così? Dimmi che è così – dissi.
– Che? Senti, ho mantenuto la promessa. Hai una nuova moglie. Eccola. – Allungò il mento verso Bonnie Moon. Sentii le piccole dita di lei stringermi il gomito più forte.
– Perché continuate a parlare di moglie? Claudio, hai detto che mi avresti spiegato... – La voce di Bonnie Moon era leggerissima, alle mie spalle.
– Il tuo bel Claudio, qui, aveva voglia di una nuova mogliettina da sbattersi.
– Zitto.
– È vero, Claudio?
– Non è così.
– Sei un prodotto, piccolina. Sei un ibrido. Sei un qualcosa! Ma non ti rendi conto che non funziona niente in quello che sta succedendo? Prova a usare la nuove rotelline del tuo cervello. È con lui che devi prendertela.
– Non capisco, Claudio.
– Non starlo a sentire.
– Ti sei già pisciata addosso, piccolina?
Bonnie Moon fece un passo in avanti, gli afferrò l'orecchio e tirò così forte verso il basso che quasi non vidi il movimento del braccio. La testa finì sul bordo del sarcofago e il padiglione si strappò sulla parte superiore. De Solla-Price gettò un urlò. Dall'attaccatura dell'orecchio colava sangue che alla luce dei led sembrava nero. Provò a muovere le gambe ma gliele bloccai con una mano. Bonnie Moon lo afferrò alla gola e disse: – Sì, mi sono pisciata addosso.
– Siete pazzi? – gridò De Solla-Price.
– Ora dimmi – continuò Bonnie Moon, – perché hai voluto fare del male al mio Claudio?– Io non ho voluto fare proprio un bel cazzo di niente!
Bonnie Moon strinse più forte. Aveva il polso così sottile.
– Va bene... va bene. Sua moglie, insomma tu. Quella politicante di merda. Lei e la sua legge anticreatività. Cosa significa mettere un freno alla creatività? Regolare i consumi. Ma ti rendi conto delle stronzate che hai pensato e messo in legge, stupida troia?
Bonnie Moon mi guardava e non capiva. Io sì.
– Noi siamo outronet. Outronet è creare. È esistere. Nessuno può impedire la creatività! Non capite un cazzo, stupidi vecchi. Pure tu. Appena nata è già troia. E io che ti ho dato la vita...
– Sapevi cosa sarebbe successo a mia moglie?
De Solla-Price non rispose. Guardava il bordo del sarcofago.
– Lo sapevi? – Bonnie Moon lo colpì con le nocche sulla tempia.
– Ahia! Cazzo! Sì, sì, lo sapevo. Lei è andata. È fritta! S'è fritta il cervello, va bene?
Inghiottii. Sentivo la mano tremare dentro il lattice. Gli stinchi di De Solla-Price mi sembravano viscidi e piccoli. Da spezzare.
– Io sono lei. Sono una parte di lei, è vero? – chiese Bonnie Moon con un filo di voce.
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