Guardai Betta istintivamente. Era partita per la sua due giorni in outronet quel pomeriggio. Sembrava tranquilla. Avevo aspettato che la notte scendesse tra i portici di Via Saragozza, prima di portare su il corpo nel sacco. Ero stato attento, anche se dopo il tramonto Bologna diventava un deserto di ombre e calcestruzzo.
Seguii le istruzioni di De Solla-Price. Accoppiai la nuova maschera al risonatore elettrico di casa e attraverso il plug di manutenzione la collegai a quella di Betta. Ci misi dieci secondi per sostituirla. La connessione mi permise di non far scattare le routine di emergenza che il partito inseriva in tutti i sarcofagi dei suoi rappresentanti. In outronet, Betta doveva aver provato solo una momentanea perdita di sensibilità al viso. La nuova maschera era molto diversa, con un'estensione di nanolattice grigio che in pochi istanti aveva ripiegato quello trasparente del sarcofago e ora abbracciava il cranio di mia moglie. Aspettai qualche secondo per essere sicuro che le misure di sicurezza del sarcofago fossero state davvero aggirate, poi accesi la maschera.
I led di casa si abbassarono, prosciugati dal consumo dell'apparecchiatura. Non era così che doveva andare. Stavo superando la soglia della mia quota. Corsi a spegnere ogni cosa, le luci, anche il frigo, ma ci misi qualche minuto. Mi mossi al buio, sfiorai le pareti e i mobili alla cieca per tornare nello studio. Dentro, si vedeva solo il brillio del led di stato del sarcofago e il lattice attorno alla testa del corpo della ragazza che pulsava rapido e asincrono gettando flash viola nella stanza.
Poi sentii scattare il risonatore in corridoio e tutto finì. Il buio mi avvolse completamente. Ascoltavo il mio respiro e pensavo al led spento sul sarcofago di Betta. Non riuscivo a fare niente. Me ne stavo nell'oscurità, forse con le mani alla bocca. Non ricordo. De Solla-Price mi aveva detto che l'apparecchiatura avrebbe preso un centinaio di watt. E noi avevamo una quota abbastanza alta; mi aveva detto che non ci sarebbero stati problemi. Dovevo tornare in corridoio a riattaccare la corrente. Sapevo di doverlo fare, ma restavo nel buio. Pensavo a quel led di stato che rimaneva spento e a Betta che non si muoveva. Avrebbe dovuto saltare fuori come un pesce, proprio come la settimana scorsa, e invece niente. Poi mi rilassai, sentii il risucchio tipico del nanolattice che si ritrae, uno schioccare di lingua, forse, il picchiettio di piedi nudi.
Dissi nel buio: – Betta?
Mi si buttò contro. Una mano sul collo, una in fronte. Erano bagnate. Due gambe mi avvinghiarono i fianchi. Il respiro era affannoso, c'era puzza di sudore acido. Arretrai urlando con quel corpo addosso, provai a staccarlo. Le mie mani scivolavano su una schiena piccola e fradicia, glutei duri. Cercai di spingerlo via. Le dita finirono su una clavicola appuntita, su un seno minuscolo. Le sue mani invece mi esploravano il volto, sudate, appiccicose, ghiacciate. Finii contro lo stipite. Battei la testa. Una voce roca parlò, gettandomi contro un fiato caldo che puzzava di acetone: – Claudio! Sei tu?
Non dissi niente. Rimasi immobile con quel corpo addosso, con quelle mani che continuavano a sondare i miei lineamenti al buio, che mi bagnavano i capelli passando tra le ciocche.La voce continuò, questa volta accanto all'orecchio. Percepii un lieve tepore.
– Oh, Claudio... Sei tu... sei tu! Sono io. – Una pausa. Inghiottì. – Sono Bonnie Moon!
Betta aveva cinquant'anni. Era più giovane di me. Ci eravamo sposati una vita fa perché credevamo ancora nel matrimonio. Lei era entrata in politica cinque anni dopo, aveva smesso di farsi chiamare Bonnie Moon, e il matrimonio era stato messo da parte, in qualche borsa piena di documenti, poi in un sarcofago di outronet e, quella notte, in uno stato di coma.Se pensi di essere innamorato, non lo sei, scrisse un tempo Sergej Darcek nella prima edizione del suo Regno di cuori, nel 2012. Ce l'avevo quel libro, era sullo scaffale alle mie spalle. Ero innamorato di Betta, ecco perché non avevo pensato quando avevo detto di sì a De Solla-Price. Darcek scrisse anche: se l'amore fosse un segreto da svelare, milioni di poeti, dopo il primo, hanno solo perso tempo. Lo avevo rincorso per trent'anni quel segreto che Betta aveva nascosto con indifferenza. Mi ero fatto mettere da parte. Quella notte avrei voluto riprendere ciò che mi era stato impedito, e avevo ottenuto una ragazza nuda che diceva di essere la mia Bonnie Moon e una Betta viva, ma immobile, in un sarcofago inattivo.
Avevo riacceso le luci, avevo controllato il pannello del sarcofago di Betta e mi ero appoggiato alla libreria, confuso. La ragazza mi aveva seguito in silenzio in tutte le mie azioni e ora se ne stava accoccolata, stretta alla mia gamba. Non sapevo cosa fare. Non riuscivo a pensare a niente. Strusciava il viso sul mio ginocchio e masticava parole incomprensibili. Sentii un gorgoglio e poi puzza di urina. La chiazza si allargò sul pavimento, bagnandomi la punta della scarpa.
– Che fai? – urlai inorridito, strappando la gamba alla sua presa.
– Oh, scusa, scusa... Non so che mi succede. Amore, non mi sento bene.
– Non chiamarmi così.
– Io...– Zitta!
Rimase accucciata a guardarmi con una ciocca nera appiccicata alla fronte, gocciolando pipì. Strinse la mascella e i confini di quel piccolo volto sconosciuto divennero più spigolosi. Le labbra troppo sottili. Non c'era niente di Betta, in lei. Gli occhi erano due bottoni scuri.
– Dio santo! Cosa ho fatto? Chi sei tu?
– Sono Bonnie...
– Non lo devi dire! Non devi dire quel nome!
– Cosa c'è, Claudio?
– Non devi chiamarmi, va bene? Non devi dire niente! Vai... va' a lavarti. In bagno. Di là... Vai via, ti prego. E mettiti qualcosa addosso, per l'amore di dio.
Si alzò, obbediente. Lo sguardo implorava qualcosa. Girai la testa finché non sentii i piedi nudi picchiettare il pavimento. Non volevo guardarla.
Tornai da Betta. Respirava dentro il nanolattice. Il sarcofago era un giocattolone. Non poteva friggere il cervello della gente. La due giorni di Betta era una prassi comune, soprattutto in politica. I nutrienti erano poco più che integratori assorbiti per via epidermica. Eppure, il nanolattice non si era ritirato e lei sembrava in coma. Avevo provato a toccarla, a scuoterla. Non c'erano state reazioni.
Uscii dallo studio e tornai con la mia cassetta. Mi inginocchiai, aprii tutti gli sportellini di manutenzione, svitai la placca di rivestimento arrivando fino ai dieci core principali. Tutto era in ordine. Il tester mi dava anche il giusto passaggio di corrente. Non c'era niente di elettrico che non andasse. Il blocco doveva essere software.
La maschera di De Solla-Price.
Mi aveva detto che era solo una sorgente, poco più di un complesso proiettore. Il vero mistero era il nanolattice nero che aveva avvolto la ragazza e che De Solla-Price aveva battezzato scalpello quantistico. Era un replicatore di quanti proiettati. Scriveva le zone di un cervello vergine con le particelle di quello sorgente, replicando le connessioni elettriche e intervenendo in minima parte su neuroni e sinapsi per bilanciare la massa grigia del cervello ospite affinché potesse ospitare con sufficiente precisione la nuova coscienza. O qualcosa del genere. Organica quantistica, l'aveva chiamata. Fantascienza, aveva detto, guardandomi con quei suoi occhi folli.
Feci anche un controllo software. Driver, codec e kernel erano in ordine. Provai una riscrittura da un backup che avevo in casa, perché l'unica anomalia era la mancanza di connessione a outronet e ai database della cloud.
Non combinai niente. Provai anche a strappare la maschera dalla faccia di mia moglie. Non venne via.La ragazza tornò dal bagno. Sentii lo strusciare delle pantofole di spugna di Betta. Indossava il suo accappatoio, ma le andava largo. Le mani erano dentro le maniche.
– È finita l'acqua – disse.
– Hai finito tutta la quota? Quant'acqua hai usato?
– Quella che ci voleva...
Imprecai. Il suo sguardo era diverso. Accusatorio.
– Mi dici chi è? – chiese.
– Sta' zitta. – Tornai ad armeggiare sul sarcofago.
– E no! Ora mi dici chi è quella in quel coso! Lo pretendo! Sono la tua ragazza!
– Che cosa?
– Hai sentito. – Poi aggiunse: – Nessuno ascolta e basta. Si ascolta distrattamente per avere il diritto di poter parlare.
Era una frase di Sergej Darcek.
– Cosa?
– Me l'hai detto tu, una settimana fa. E dire che mi avevi chiesto scusa.
Impossibile dimenticare. Era stato il nostro primo vero litigio, ma era successo trent'anni prima. Le avevo chiesto perdono per la mia distrazione citando Darcek.
– Non può essere.
– Senti, Claudio. Ammetto di essere confusa. Sarà il principio di un'influenza. Non so. Mi è già capitato da bambina. Con la febbre alta, voglio dire. Ma smettila di fare lo scemo e dimmi chi è quella donna. – Infilzò l'aria con l'indice.
– Dimmi perché abbiamo litigato. Una settimana fa, intendo. Dimmelo. – Mi avvicinai alla ragazza. Gli occhi erano troppo neri. Reggevano il mio sguardo, immobili.– Sicuro di stare bene? Allora... Mi hai fatto parlare a vuoto. Insomma, il mio primo lavoro e tu stavi chinato su quel coso... quel circuito. E io credevo che mi ascoltassi, e invece... Guarda, se ci ripenso mi torna il nervoso.
– E dopo averti detto quella frase?
– Abbiamo fatto subito pace.
– Fammi vedere come.
– Guarda che mica me la fai dimenticare quella donna stesa.
– Fammi vedere!
Fece un passo avanti, mi prese il viso tra le mani, ora più calde. Si alzò sulle punte e mi baciò il mento, poi il naso e la bocca. Non puzzava più. La pelle era fresca. Sapeva di shampoo, e di bagnoschiuma.
– Sei davvero Bonnie Moon?
– Nessun'altra.
Suonarono alla porta. Guardai l'orologio. Erano le 3,32.
Bonnie Moon fece per parlare ma le misi una mano sulla bocca e portai l'indice alla mia.
Attraversai il corridoio con Bonnie Moon al seguito e guardai lo schermo dello spioncino. Due uomini ben vestiti e dietro di loro un tecnico della compagnia elettrica con le palpebre gonfie, forse per il sonno interrotto.
Suonarono ancora.
– Vai in bagno e chiuditi – le sussurrai.
– No! – disse a voce troppo alta.
– Zitta! Va'. Ti giuro che dopo ti spiego tutto.
Sostenni i suoi occhi per un secondo di più, lei li abbassò, si girò e andò via strusciando l'accappatoio sul pavimento. Sentii la porta del bagno chiudersi.
Respirai e risposi allo spioncino.
– Chi è?
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