Non gli risposi, perché l'avevo già fatto decine di volte e in quei giorni non ero dell'umore adatto. A stento gli buttai un'occhiata. Se ne stava ingobbito sul bordo del sarcofago, sprezzante della propria nudità con gli occhi grandi ed eccitati. Impossibile stabilirne l'età. Il corpo era esile, senza peli, né sopracciglia, né capelli. Si era sottoposto a un intervento di epigenetica per sopportare meglio la permanenza per lunghi periodi nel sarcofago. Doveva aver fatto qualcosa anche alle ghiandole, perché De Solla-Price non aveva odore.

– Insomma – continuò. – Tu ripari queste cose e non le hai mai usate.

– Sì – mi limitai a dire, mentre sulla tavoletta lampeggiava il risultato del test.

– Sei davvero outro! Dico davvero! Non te l'ho mai detto, ma sei il più bravo nel tuo lavoro e non so come puoi riuscirci.

– I sarcofagi sono apparecchi. Viti, risonatori, resistenze, fili elettrici. Sono cose. Basta sapere come funzionano. Non c'è bisogno di usarle.

– Hai abilità che si stanno perdendo. Il tuo cervello dovrebbe essere conservato.

– Lo dico anch'io. – Sorrisi. – Mia moglie non è d'accordo.– Problemi? – Lo vidi ancora più attento. Si sporse in avanti.

Parlare di questioni sentimentali con De Solla-Price sarebbe stato come spiegare la desertificazione del Mediterraneo al mio cacciavite, eppure l'ultima discussione con la Betta mi era rimasta dentro. Guardai quell'essere così strano e gli dissi: – Vorrei solo tornare indietro.

– Devi essere più specifico.

– Non è mica solo un algoritmo, la vita! – sbottai. – Così, per dire... Mi piacerebbe riavere mia moglie, così come l'ho conosciuta. Quando tutto era più... semplice. E voi... voi non esistevate.

– Posso aiutarti. – Saltò giù dal sarcofago e per poco non si spezzò qualcosa, tanto era secco.

Non gli diedi retta. – Il timing era a posto – dissi.

– Ho detto che posso aiutarti.

– Ho capito. Ma tu non sai come funzionano queste cose, insomma...

– Se dico che posso, posso. – Gli occhi gli brillavano acquosi.

– Hai mica una macchina del tempo? – dissi mentre richiudevo la cassetta degli attrezzi.

– Naaa. Quella è roba per teorici. Io posso ridarti tua moglie, come quando l'hai conosciuta, con un buon margine di approssimazione. Il corpo, quello no. Questo è ovvio. Cioè, potrei. Ma le complicazioni sociali sarebbero noiose. – Sbuffò, sollevando una mano scheletrica. – E poi la clonazione accelerata di un intero organismo non è ancora un processo stabile. A meno che tu non voglia aspettare venti anni di crescita a parametri neurali azzerati...

– De Solla, fermati! Non ci sto capendo niente.

– Vuoi che ti aiuti?

– Non so nemmeno di cosa stai parlando!

– Non è una cosa... come dite? Ortodossa. Lo faccio solo perché ti stimo. Mi piaci.

– È illegale?– Lo faccio già da un po'. Non c'è nessun rischio. Ovvio, è in fase sperimentale. Tu aiuti me con una prova extralaboratorio e io aiuto te con una nuova moglie.

– È illegale? – insistetti.

– Certo.

A quel punto avrei dovuto prendere la cassetta e andare via, invece ricordo distintamente che mi avvicinai con una certa repulsione e dissi a un De Solla-Price inodore: – Ma di cosa si tratta?

 

Matteo Aguilar si fece riconoscere mostrandomi le coordinate camerali sulla sua tavoletta. Nella foto i capelli erano più corti, ma era lui. Un italico-peruviano, a giudicare dai lineamenti. Mi fece cenno di entrare.

L'appuntamento era in un'abitazione al primo piano con indirizzo matriciale PVC.192.168.1.2. Lo ricordo così bene perché era tanto simile a quello dei vecchi router ai tempi dell'IPv4 e lo considerai come una specie di buon presagio. L'edificio in cui entrai era invece banalmente identico ai mille altri di Pieve di Cento. Bianco, quadrato, di tre piani, col codice matriciale stampato sopra il portone che nessuno di noi tecnici guardava mai. L'aggancio wireless della tavoletta ci diceva dove andare, e noi obbedivamo. Come quella volta.

Salimmo una rampa di scale e ci fermammo davanti alla seconda porta del pianerottolo. Aguilar mosse lo slide sulla sua tavoletta e la porta si aprì.

– Cavolo! Hai un codice 200 per questo appartamento?

Mi guardò, non rispose, ed entrò. Piccoli led si accesero in cima alle pareti del corridoio, formando una greca luminosa che serviva solo ad accennare le dimensioni dei locali.

L'appartamento era vuoto. Ci infilammo nella piccola stanza alla fine del corridoio. Non c'erano finestre, e la greca aveva meno led. Intravidi un lettino nell'angolo più lontano sul quale c'era un grande sacco di plastica nero legato in cima da uno spago forse marrone.

– Dammi il tuo tablet – disse Aguilar. Aveva acceso il suo e la luce dello schermo gli illuminava il mento e gli zigomi pronunciati.

– Perché?

– Dài!

Un tecnico non abbandona mai la tavoletta, eppure gliela allungai. E avrei voluto strappargliela di mano quando vidi che entrava nel menù di sistema delle coordinate camerali. Fu troppo veloce. Slidò qualcosa sulla sua. La mia si spense e si riaccese sulla pagina principale. Me la restituì.

– Ecco.

– Che hai fatto? – Controllai in fretta. Scorsi le impostazioni. Le coordinate erano intatte però mancava la registrazione dell'indirizzo PVC.192.168.1.2.

– Ma non si può fare – dissi a mezza voce.

– Be', l'ho appena fatto. Un bel trucco, no?

– Io...

– Tu non sei mai stato qui. E quando uscirai con quel sacco stai sicuro che mi sarò dimenticato di te prima che la porta si sarà richiusa.– Non mi dai una mano? – Guardai il sacco.

Aguilar rise e i denti brillarono alla luce dello schermo. Poi lo spense e uscì dall'appartamento.

Sollevai il sacco dal letto. La plastica crocchiò. Anche la mia schiena. Mentre scendevo a fatica le scale, Aguilar mi osservava dal pianerottolo. Sentii la porta richiudersi. Sperai di non trovare tecnici fuori dal portone. La luce del giorno mi abbagliò. Passarono due o tre furgoni ronzando silenziosi, ma nessuno sembrò badare a me. Ero un tecnico. Ero uno di loro. Stavo lavorando. Quando misi il sacco nel furgone e chiusi le portiere, pensai invece che quello che avevo caricato era un corpo clonato di chissà chi arrivato da chissà dove.

 

Tagliai il sacco con una forbice perché non ero riuscito a sciogliere lo spago.

Allontanandomi di qualche passo, osservai la figura della ragazza distesa accanto a Betta. Avrei dovuto riflettere e interrompere quell'orrore. Non lo feci.

Avevo adagiato il corpo su tre sedie adiacenti. La ragazza dentro il nanolattice trasparente era magra, con le clavicole sporgenti. Betta era molto più in carne. Il viso era interamente coperto da un nanolattice nero e non riuscii a fare confronti. Forse aveva i capelli corti. I seni erano piccoli, quasi inesistenti. Non poteva avere più di vent'anni, forse anche meno. Mi vergognai e distolsi lo sguardo.

Sul ventre, tenuta ferma dal nastro adesivo, c'era una maschera di carbonglass molto più grande di quelle standard e un foglio scritto a mano. Non ne vedevo uno da dieci anni. Lo staccai e lessi a fatica la calligrafia minuscola e incerta.

Auguri!, diceva. Buona nuova moglie!