Anche se molto è stato preso, molto aspetta; e anche se
Noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi
Mosse terra e cieli, ciò che siamo, siamo;
Un’eguale indole di eroici cuori,
Fiaccati dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà
Di combattere, cercare, trovare, e di non cedere.
Terza tappa nella rigenerazione del franchise più cool nella storia del cinema, terzo turno alla regia, per il primo film della nuova serie che rinuncia alla penna di Paul Haggis, sostituito da John Logan ad affiancare la coppia ormai fissa Neal Purvis & Robert Wade. E dopo Martin Campbell e Marc Forster, dietro la macchina da presa arriva l’acclamato Sam Mendes, che si muove con autorevolezza, competenza e convinzione, perfettamente a suo agio in un ruolo che farebbe tremare i polsi a molti colleghi. Torna Stuart Baird al montaggio, mentre per il comparto musicale David Arnold cede il testimone a Thomas Newman, compositore di fiducia del regista britannico fin dai tempi di American Beauty. Anche alla fotografia Mendes si porta dietro un collaboratore collaudato come Roger Deakins, mentre lo scenografo Dennis Gassner torna in squadra con lui dopo Era mio padre e forte dell’esperienza bondiana di Quantum of Solace (2008).
È il James Bond più nero e crepuscolare mai visto al cinema, quello che si ritrova a gestire Mendes nel capitolo delle celebrazioni: ricorre infatti il cinquantesimo anniversario di Licenza di uccidere (Dr. No, 1962, esordio cinematografico di 007 nelle iconiche fattezze di Sean Connery), nonché il giubileo di diamante di Elisabetta II (giustamente omaggiata da Daniel Craig e Danny Boyle durante la cerimonia di apertura dei XXX Giochi Olimpici di Londra), mentre il prossimo anno cadrà il sessantesimo della prima edizione di Casino Royale, e sembra quasi che il team produttivo, solidamente gestito da Barbara Broccoli e Michael G. Wilson, abbia voluto a tutti i costi evitare d’incorrere nel rischio di un tripudio di autoincensamenti. Così, se si eccettua il suo inesauribile ascendente sulle donne (e non solo), ritroviamo un Bond che non è più la garanzia che abbiamo imparato a conoscere nella sua incarnazione “classica”. Non solo arriva tardi all’appuntamento che costa all’MI6 la perdita di un hard disk con le identità degli agenti NATO coinvolti in missioni sotto copertura, insieme alla vita di tre agenti, ma si lascia gabbare dal sicario in un inseguimento panoramico sui tetti di Istanbul, e quando la corsa prosegue su un convoglio ferroviario si ritrova addirittura a essere un bersaglio facile per la sua preda, in un ribaltamento di ruoli che già preannuncia il gioco del gatto col topo che verrà scrupolosamente sviluppato dalla pellicola, per scoprirsi infine suo malgrado pedina sacrificabile, retrocesso a pezzo più umile della scacchiera.
Dopo essere risorto miracolosamente (al termine di una sequenza dei titoli che dopo la parentesi del collettivo MK12 in Quantum of Solace vede il ritorno in plancia di Daniel Kleinman, capace di trasferire Bond senza soluzione di continuità dall’azione filmata a una sequenza animata dal gusto surreale, che da tradizione compie un’efficace evocazione del mood del film, anche grazie alla complicità della voce di Adele), 007 si concede una lunga pausa di riflessione tra spiagge, ragazze discinte e compiacenti e alcol: qui ancora una volta Skyfall sembra quasi voler prendere le distanze dal copione classico dei capitoli che hanno stabilito il canone, strizzando piuttosto l’occhio alla concorrenza (e qui penso prima di tutto all’action spy Bourne). A stanarlo dal tunnel dell’autolesionismo provvede la notizia di un attentato terroristico sferrato al cuore dell’Impero. Obiettivo: la sede dell’MI6, colpita in pieno giorno. M, che ha assistito in diretta alla deflagrazione del suo ufficio dalla visuale privilegiata di Vauxhall Bridge, è ancora tramortita per la gravissima crisi in cui il servizio segreto sta precipitando, quando si trova davanti il suo ex agente numero 1, con una barba di tre giorni impietosamente brizzolata e gli occhi arrossati dalla fatica e dai liquori (la Heineken che tanto ha fatto discutere viene inquadrata per il breve volgere di un’inquadratura, per il resto Bond ci dà dentro di distillati ad alta gradazione).
Archiviato il necrologio, per 007 è tempo di tornare in pista. Accolto nella «Nuova Tana» ricavata nei sotterranei di Londra, deve però prima sottoporsi ad accertamenti sul suo stato psicofisico. E con le spalle al muro davanti al nuovo presidente della commissione sui servizi di intelligence, il veterano Gareth Mallory, M si scopre incapace di rinunciare ai suoi servigi – malgrado una forma appannata, sia sotto il profilo fisico che sotto quello psicologico – per tirare fuori il Regno Unito dalla più grave minaccia mai sferrata alla sicurezza sua e dei suoi agenti in tempo di pace, con ripercussioni che potrebbero incrinare la credibilità stessa del paese nell’ambito della NATO. Pur sapendo che il suo agente è ormai un’ombra dell’operativo che si è meritato sul campo la licenza 00, servendo la patria in lungo e in largo per il mondo.
D’altro canto, è M stessa ad ammettere che il gioco è cambiato. È un gioco di ombre, e la regia di Mendes esalta il concetto nel duello che contrappone ancora una volta Bond e il sicario francese, questa volta su un grattacielo di Shanghai. Mentre fuori scorre la notte olografica della megalopoli (immortalata da Deakins con una fotografia sontuosa che non ha nulla da invidiare alla Los Angeles di Blade Runner), i due si affrontano in un corpo a corpo in controluce, profili stilizzati sul dorso del drago cinese. Da Shanghai Bond segue una labile pista che lo conduce a Macao, sulle tracce dell’hard disk con le identità degli agenti infiltrati, e ancora una volta finisce in un casinò, anche se questa volta è una graziosa donna di malaffare a sfidarlo sulla lama del rasoio al posto di un sanguinolento LeChiffre, e la partita vera si gioca lontano dal tavolo verde. Di citazione in citazione, da Casino Royale (2006) balziamo a Vivi e lascia morire (1973, ottava avventura della saga, la prima interpretata da Roger Moore), per ritrovarci sulla prua di uno yacht diretto a un’isola senza nome. A fare da location, nella realtà è l’isola-alveare di Hashima: anche detta Gunkanjima, «l’isola-nave-da-guerra» usata dalla Mitsubishi a partire dal 1887 come base per l’estrazione del carbone, interamente cementificata da quasi un secolo di sfruttamento e infine abbandonata nel 1974. L’isola è il covo di Raoul Silva (vero nome: Thiago Rodriguez), un ex agente britannico che ha un conto in sospeso con M ed è deciso a riscuoterlo fino all’ultimo centesimo di interesse, magari partendo proprio da Bond.
L’ingresso in scena del terrorista richiama alla mente il Joker cinematografico, specie nella sua più recente e oscura interpretazione fornita da Heath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan. Una storia cruenta e perversa è il suo biglietto da visita, recapitato con efficacia da Javier Bardem, acrobatico fuoriclasse del disadattamento schizoide, che dopo l’implacabile Chigurh di Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen accetta questa volta una sfida ancora più difficile: conservare il precario equilibrio della credibilità sul baratro dell’autoreferenzialità caricaturale, anche quando la sceneggiatura e la regia lo costringono nei panni di un novello Hannibal Lecter. Autentico genio del male, ancora più freddo, calcolatore e spietato di LeChiffre, il suo Silva supera la prova non senza una dose di giustificato compiacimento.
L’antidoto alla malattia che incarna Silva, l’ultima risorsa a disposizione di M per tirare fuori la Corona da questo brutto pasticcio di cui è responsabile diretta, è ovviamente Bond. Che le prende di santa ragione, deve inoltre difendersi dalle avances del folle assetato di vendetta, e come da tradizione assiste impotente all’uccisione dell’ultima fiamma dopo aver appena assaporato il frutto della sua opera di seduzione; ma che messo alle strette, sa anche lavorare d’ingegno, portando la cavalleria a segno sul bersaglio. Così, con un Bond più ammaccato ma anche più tattico di quanto ci abbia abituati il cinema, capace di declinare la propria ironia in una molteplicità di registri e provvisto di ricche sfumature melancoliche, Skyfall entra perfettamente in sintonia con la parabola dell’eroe tracciata dal suo nuovo, efficacissimo interprete Daniel Craig: a partire da Casino Royale, passando per Quantum of Solace, dal 2006 stiamo davvero assistendo alla rifondazione del mito, in un’operazione di rilancio che farà scuola. Judi Dench assurge qui a una statura tragica nel ruolo titanico di M, la madre-tutrice incapace di sottrarsi ai giochi di potere, e trova un contraltare alla sua altezza in Ralph Fiennes, scelta azzeccatissima della produzione per il ruolo di Mallory (il cognome, ovviamente, è un indizio importante). E finalmente entra in scena anche Q, finora tenuto fuori dal reboot forse in attesa di trovare una figura capace di non far rimpiangere il volto storico di Desmond Llewlyn, che con 17 partecipazioni all’attivo tra il 1963 e il 1999 vanta il record assoluto di presenze nella saga: a Ben Whishaw è assegnato il compito di svecchiare il personaggio, rimettendolo al passo coi tempi, particolarmente veloci sotto il profilo dell’informatica. E Naomi Harris è irresistibile nell’ambiguità di Eve, un’agente che si manterrà ambigua fino allo scontro a fuoco scatenato da Silva nel bel mezzo di un’udienza con il ministro degli Interni, così come Mallory, del quale il suo personaggio è l’ombra. Ai più attenti tra i fan della serie non saranno sfuggiti i numerosi tasselli di un mosaico che si va progressivamente componendo sotto i nostri occhi, già da due film a questa parte, e che Mendes si cura di rendere scrupolosamente dettagliato.
E con buona pace per i nostalgici, Skyfall è un film impregnato dei caratteri migliori della Britishness: poca apparenza, tanta densissima sostanza. La Gran Bretagna gioca nella pellicola un ruolo primario oltre che come sfondo dell’azione anche e soprattutto per i numerosi, precisi riferimenti culturali, che spaziano dal dipinto di William Turner davanti al quale si svolge l’incontro tra Bond e Q alla National Gallery, ai versi dell’Ulysses di Alfred Tennyson recitati da M. Non mancano rimandi al conflitto nordirlandese (durante i Disordini, il tenente colonnello Mallory, in forza allo Special Air Service dell’esercito, è stato prigioniero dell’IRA per sei mesi). E così la Aston Martin DB5 di Goldfinger (1964, terzo film di Bond) diventa qualcosa di più di un pretesto citazionista buono al più per imbastire un paio di arguti e divertenti scambi di battute tra M e 007: parafrasando Bond, è il veicolo per compiere un viaggio “indietro nel tempo”, a ritroso nella storia stessa del personaggio, con la lunga fuga verso la brughiera scozzese che è prima di tutto un recupero della memoria, uno scavo psicologico nella personalità di Bond. Proprio nel momento in cui la sua traiettoria sembra giunta al termine, lo vediamo fare i conti con il proprio passato (inteso anche come un punto di non ritorno, come accenna l’associazione libera tra le parole “Skyfall” e “fine” durante il test psicologico propedeutico al suo ritorno in servizio), nel crocevia esistenziale che presta il titolo alla pellicola.
Dopo la discesa nel sottosuolo londinese in cerca di un rifugio sicuro – che se vogliamo è anche un ritorno alle origini del Regno Unito moderno – nelle gallerie usate da Churchill durante il Blitz della Seconda Guerra Mondiale, capaci di reggere alle bombe tedesche ma vulnerabili alle minacce elettroniche nell’era dell’informatica pervasiva e interstiziale, a Bond non resta che tentare un’ultima sortita, architettando la propria trappola dietro il bluff di una fuga verso le Highland scozzesi che ha a sua volta sul piano personale il forte sapore di un ritorno alle radici. Ad attenderlo altri, familiari cunicoli, praticati da bambino nella tenuta presidiata dal vecchio guardiacaccia Kincade (Albert Finney), a trasfigurare una volta di più quella rete di sentieri – percorsi, canali di comunicazione, connessioni – che s’intrecciano sotto la superficie visibile della realtà.
Di più non sveleremo per non rovinare allo spettatore il piacere della scoperta. E di sorprese, prima dei titoli di coda, il film ne riserverà diverse: alcune più telefonate, altre meno prevedibili, ma comunque organiche al nuovo corso di 007. In sintesi, il 23° Bond è un film che coglie la sfida di Bourne, in un percorso di aggiornamento continuo della spy-story principalmente in chiave action e hi-tech, rimanda esplicitamente alle riflessioni sul ruolo dell’eroe nella società contemporanea sviluppate da Nolan nel suo Dark Knight e, per finire, sembra voler quasi ricondurre a un piano più terrestre il ruolo dei servizi segreti in contrapposizione all’immaginario sempre più fantascientifico promosso dallo S.H.I.E.L.D. della Marvel (a cui il successo di Avengers ha fornito una cassa di risonanza mondiale). Se pensavate di sapere tutto sull’agente segreto più famoso del mondo, forse è arrivata l’ora di ricredervi. Non lasciatevi scappare l’occasione di farlo al cinema.
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