La sceneggiatura è stata sviluppata a quattro mani da Jon Spaiths e Damon Lindelof: il primo era stato notato da Keanu Reeves per il soggetto di un film fantascientifico con risvolti romantici, Passengers, non ancora giunto al cinema, dopo alterne vicende che avevano dato per certa la regia di Gabriele Muccino con Reeves nei panni del protagonista; ha successivamente firmato la sceneggiatura di L’ora nera, film su un’invasione aliena passato quasi inosservato, e ora è al lavoro per un nuovo reboot, questa volta del franchise della Mummia. Damon Lindelof, noto per essere stato produttore esecutivo della serie Lost e autore di numerosi episodi del telefilm, era stato co-sceneggiatore e co-produttore del reboot di Star Trek nonché autore della sceneggiatura del mediocre Cowboy & Aliens. I due hanno lavorato a stretto contatto soprattutto per evitare il problema principale di ogni prequel, quello per cui il finale del film è già noto (pessimo, per esempio, il modo in cui è stato trattato – o meglio non trattato – il problema nel prequel di La Cosa). Il risultato è appunto un film che funge evidentemente da prequel ma che non termina là dove Alien prende le mosse, lasciando piuttosto ampio spazio per proseguire la storia con nuovi episodi seguendo un intreccio completamente inedito, in cui i terribili xenomorfi non sono che degli elementi secondari. L’idea di Spaiths e Lindelof era quella di coniugare le atmosfere inquietanti e gli intrecci da thriller di Alien con la magniloquenza di un film come Blade Runner: “Blade Runner forse non andò molto bene quando uscì al cinema, ma le persone ne stanno ancora discutendo perché il film era impregnato di grandi idee”, ha spiegato Lindelof. “Ridley Scott parlava appunto dei grandi temi di Prometheus. Doveva essere guidato da persone che volevano trovare le risposte alle grandi domande. Ma pensavo che avremmo potuto farlo senza diventare troppo pretenziosi. Nessuno vuole vedere un film dove le persone galleggiano nello spazio discutendo sul significato della vita…”. Prometheus in effetti è un film sulle grandi domande, e proprio su di esse Scott ha cercato di costruirne la fortuna. Le idee alla base non sono comunque nuove. L’ispirazione principale è quella della teoria degli antichi astronauti nota al grande pubblico attraverso gli studi eterodossi di Erich von Daniken e Zecharia Sitchin, due fanta-archeologi sostenitori della tesi secondo cui la civiltà umana sarebbe nata per opera di intelligenze extraterrestri. C’è chi sostiene che la nostra civiltà sia stata “aiutata” da queste intelligenze nel corso dell’evoluzione – un’idea fatta proprio da Arthur Clarke e Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio – e chi vorrebbe che la stessa specie umana sia stata il frutto di un’operazione di ingegneria genetica aliena (tesi fatte proprie anche da alcune puntate di Star Trek, in cui l’evidenza di una galassia abitata da sole specie umanoidi viene spiegata ricorrendo a una sorta di inseminazione artificiale dei pianeti abitabili da parte di un’unica civiltà extraterrestre nel remoto passato). In gergo, è la teoria della “panspermia guidata”, che riprende le vecchie idee dell’astrobiologo Fred Hoyle sulla panspermia, per cui la vita sulla Terra sarebbe il risultato dell’arrivo dei mattoni della vita dallo spazio, coniugandole con le bizzarre elucubrazioni di von Daniken.
Da dove veniamo? È la domanda a cui l’equipaggio dell’astronave Prometheus cerca di rispondere. Dopo un prologo fanta-archeologico in cui si dimostra che numerose civiltà antiche avevano punti di contatto tra loro e indicavano con insistenza una sorta di origine stellare, una “mappa” da seguire, si entra nel vivo della vicenda: a differenza di Alien, gli umani non si imbattono negli extraterrestri casualmente (o almeno ‘apparentemente’ casualmente), ma vanno in cerca di loro, degli Ingegneri, misteriose e potenti creature aliene che avrebbero dato vita alla civiltà umana.
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