Se il suo ruolo di “minore” è stato, alla fine, ovunque riconosciuto dagli storici del giallo, almeno in patria la sua SF è abbastanza dimenticata, per quanto gli apprezzamenti dei colleghi non siano mancati, da Asimov, Dick, Robert Bloch e Philip Klass/William Tenn fino a Neil Gaiman. In Italia, la sua fortuna si deve all’inclusione di Sentry (1954) nella classica antologia di Solmi e Fruttero Le meraviglie del possibile. Wellsiano rivolgimento del punto di vista, Sentinella è ancora il miglior sberleffo alle pretese di superiorità di ogni volontà bellicista. D’altra parte sarebbe sbagliato legare Brown alla social science fiction; anche se la sua sensibilità resta anche politica, al primo posto resta sempre il piacere di un gioco letterario che raramente permette la consolazione. Anche davanti al lieto fine, il contatto con la dimensione fantastica ha modificato radicalmente la percezione del mondo.Se gli esordi fantastici risalgono alla fine anni 30, è soprattutto dopo il 1949, anno del suo trasferimento a Taos, New Mexico, dove incontra il grande amico e collaboratore Mack Reynolds,[4] che Brown si dedica più assiduamente alla SF. Ricordiamo che a pubblicare molti dei suoi primi racconti è la leggendaria rivista Unknown, che tenta di rinnovare il fantastico, aprendo una strada pionieristica e gettando semi duraturi, anche se raccolti non immediatamente.[5] E la sua fantascienza si dipana sempre mescolata con tall-tale (folklore postmoderno?), orrore, puro fantastico. Pensiamo ai giochi di prospettiva con il mondo animale e vegetale di The Star Mouse (1942), Pattern (1954) e Blood (1955). Agli impalpabili radio-esseri di The Waveries (1945), che Dick chiamò “la storia SF più importante mai prodotta”. All’unione di satira (qualcuno ricorda le canzoni degli IWW?) e metafisica di Pi in the Sky (1945). Alla scabra Arena (1944), senz’altro la storia più famosa, utilizzata anche nella Star Trek classica, parabola su un duello eterodiretto con un alieno colpevole solo di alienità. Al mondo allucinatorio di Placet Is a Crazy Place (1946), dove il nonsense di Carroll è davvero dietro l’angolo (e fu giustissimo il titolo italiano di un antico Gamma: Il pianeta Hellzapoppin’). A dubbi sulla percezione, come Paradox Lost (1943), che diventano puri incontri con la follia come The Angelic Angleworm (1943), The Yehudi Principle (1944) e Come and Go Mad (1949). All’alienità sociale della famiglia di The Geezenstacks (1943). Alla prefigurazione ironica del futuro grande mito fantascientifico della singolarità, la presa di coscienza semidivina della rete universale dei computer in Answer (1954). E, volendo scegliere una dichiarazione di amara poetica, a Letter to a Phoenix (1949): come nelle storie sulla “dannata razza umana” di Twain, la garanzia che l’umanità sopravviverà a tutto grazie alla propria insopprimibile follia.
Fredric Brown: un fine umorista a zonzo tra i generi letterari
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