II.
Dopo la lezione, Kierkegaard aspetta che l’aula si svuoti e che il Professore fornisca l’ultima spiegazione alle domande insistenti dei discepoli. L’unico a disinteressarsi della faccenda è Bakunin, che si trattiene imperterrito in fondo all’aula, lontano da tutti. I suoi occhi sembrano ostinarsi a cercare – con insistenza ma scarsa convinzione, quasi si vergognasse per lui – l’amico Engels tra quanti assediano Schelling.
La folla sciama via dall’aula, tentennando a seconda degli umori e del grado di esigenza in uno stato tra l’appagamento e l’insoddisfazione. Allora si fa avanti Kierkegaard. Il Professore raccoglie i suoi ultimi appunti e Kierkegaard va per porgli il quesito che ha formulato: – In merito al suo discorso sulla possibilità e la realtà…
Ma Schelling lo interrompe con un gesto della mano. Lo liquida senza nemmeno guardarlo in faccia.
– So che potrebbe sembrarle strano, ma anche un pensatore idealista, di tanto in tanto, ama concedersi un pomeriggio di pausa. Comunque questo è il mio unico pomeriggio del mese libero da lezioni e simposi. Se per lei va bene, possiamo tornare sul suo quesito domani. Con permesso…
Kierkegaard pianta gli occhi nelle spalle del Professore che esce dall’aula, i suoi incartamenti sotto il braccio. E si chiede da dove nasca il rossore che gli avvampa le gote se dentro di sé l’unica forza a dettar legge è la gelida disillusione del risveglio intellettuale.
III.
La nevicata è stata breve ma intensa. Kierkegaard si è ritirato in un parco poco lontano dagli edifici della Facoltà. Alberi scheletrici protendono dita nere di morte contro il cielo di novembre, incorniciato dai tetti dei palazzi monumentali. Rigide superfici di pietra dettano la norma dell’architettura prussiana, sfidando il divenire del tempo e i capricci dell’atmosfera.
Nessun dubbio che nevicherà ancora.
Kierkegaard prende il diario da una tasca, svita la boccetta d’inchiostro, v’intinge la penna e traccia parole su una pagina bianca.
Per la libertà, il possibile è l’avvenire; per il tempo, l’avvenire è il possibile. Così all’uno come all’altro, nella vita individuale corrisponde l’angoscia.
L’angoscia è la lingua del futuro. Il passato può angosciare solo nella misura in cui può ripresentarsi come futuro, cioè come una possibilità di ripetizione. Così una colpa passata genera angoscia solo se non è veramente superata: se lo fosse, non dovrebbe infatti generare angoscia, bensì pentimento. L’angoscia è connessa a ciò che non è ma può essere, al nulla che è possibile o alla possibilità nullificante.
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