Ma quelle vecchie conoscenze non significavano davvero nulla per lei. Merritt era occupata a immergersi nel nuovo ambiente, a farsi nuovi amici e a fare colpo su persone intelligenti con le sue doti e il suo talento. (E, oh sì, ad affinare le sue doti innate con una quantità di nuove cognizioni). In mancanza del denaro e delle entrature dei suoi coetanei più privilegiati — Ransome Pivot, per esempio — doveva usare astuzia e intelligenza se voleva andare avanti.
E ora, entrando dall’ingresso dei dipendenti, sussultò nel capire che quel mattino usare l’astuzia voleva dire prima di tutto accontentare il suo esigente capo, Edgar Chambless. E lei non aveva rispettato il termine di ieri per preparare tutte le teche in tempo per l’apertura, l’indomani, della nuova mostra del NikThek, “I diari di Cadwal Throy”.
Merritt si affrettò verso la grande sala che ospitava la mostra. Senza visitatori, con l’unica illuminazione dovuta alla luce del sole che filtrava dagli orli scuri delle tapparelle di tela cerata ancora chiuse, lo spazio cavernoso, con i famosi fregi di Essy Banassiad, evocava il retaggio di qualche civiltà dimenticata misteriosamente estinta. Merritt provò un piccolo brivido, poi scacciò la sensazione e si mise al lavoro.
Cadwal Throy era stato attivo nel Distretto di Zulma, fino alla morte avvenuta cinquant’anni prima. Anonimo impiegato pubblico, aveva minuziosamente annotato la sua vita quotidiana e ordinaria in milioni di parole vergate in una difficile grafia, su identici e impersonali registri contabili. Attività bizzarra e affascinante, d’accordo, ma degna di essere inclusa nei tanto decantati archivi del NikThek? Non senza le illustrazioni che l’accompagnavano, quasi una per pagina, che testimoniavano una visione artistica che poteva essere ben descritta come quella di un erotomane megalomaniaco. Il fatto che le analisi chimiche avessero rivelato che all’inchiostro era stato mescolato del sangue aumentava solo l’interesse accademico dei diari.
Di una miriade di strani artefatti come l’opera di Throy, organizzate in ampie categorie interconnesse da teoremi e paradigmi, si occupava la disciplina della polipolisologia. Lo studio e la spiegazione dell’intera gamma dei comportamenti umani culturalmente definiti e incanalati dalle condizioni dei vari segmenti della metropoli lineare.
Indossando i guanti da laboratorio di cotone bianco e regolando una lampada portatile a collo d’oca che agganciò alle gambe del tavolo, Merritt iniziò a sistemare i diari nelle teche, dopo averli rimossi dalla elaborata confezione protettiva, poi aprendoli alle pagine selezionate dai curatori, sistemando le bandelle alle pagine aperte, appoggiando abilmente i libri sui loro sostegni, posizionando i cartellini esplicativi sul velluto…
Per le dieci del mattino ebbe la sensazione che se avesse continuato allo stesso passo, saltando il pranzo, sarebbe riuscita a rispettare la scadenza. Andò avanti, insensibile a tutto ciò che la circondava. Gli inquietanti disegni di Throy iniziarono a irretirla in un mondo alternativo, non del tutto accogliente…
Dopo un certo tempo indistinto, Merritt si accorse di non essere sola nella sala. Le sue orecchie riconobbero rumori di visitatori oltre le porte della galleria chiusa. Alzò lo sguardo e si trovò di fronte il suo superiore, Edgar Chambless.
Avendo dimenticato più misteri della polipolisologia di quanti Merritt potesse mai sperare di imparare, l’attempato Chambless aveva acquisito uno status leggendario persino nel remoto Jermyn Rogers College a Stagwitz. Allampanato come un pioppo e vestito di un abito di lana stazzonato nonostante la calura estiva, aveva la faccia di un cupo scaricatore di porto, piuttosto che quella di un mite studioso.
– Miss Abraham. Avevo capito che questa mostra doveva essere ultimata per la giornata di ieri e che oggi avrebbe dato una mano a preparare le conchiglie di Squillacote.
Merritt deglutì. – Ah, sì, signore. L’intenzione era quella. Ma vede, mi sono messa sotto a studiare questo affascinante materiale e…
Si impappinò. Chambless la fissò attraverso le spesse lenti degli occhiali senza montatura, come se ispezionasse un carico di feticci osceni da Lesser Hutsong. – Miss Abraham – disse alla fine – la prego di venire con me nel mio ufficio.
– Ma la mostra…
– Sarà pronta in tempo. Venga, ora.
Si voltò e si allontanò senza aspettare la risposta di Merritt.
L’ufficio di Chambless era caratterizzato da pile malferme di libri e cartelle di documenti, manoscritti e fotografie, mappe e cartine, tutte sormontate da sculture, dipinti, manufatti e gioielli, i resti esotici di mille spedizioni e di scambi tra cattedratici su e giù per la lunghezza della Città Lineare. L’odore nella stanza senza finestre nei meandri del NikThek parlava di strane spezie e profumi, la polvere dai molti odori dei più lontani tratti della Via, regni di non facile accesso e al di là di ogni naturale comprensione.
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