Settembre è particolarmente bello quest’anno, in paese. So che a pochi chilometri, scendendo dalla Murgia verso il mare, il paesaggio muta radicalmente. Lì i fianchi della collina esibiscono calanchi pietrosi e glabri che si sfarinano, il sole arroventato dell’estate ha corroso la case di pietra e bruciato le piante, vetrificato la pianura, evaporato l’Adriatico rendendolo più denso e amaro. Eppure per qualche motivo la nostra zona è ancora salva. Sono novantasei anni che ci vivo, qui. Ogni giorno scendo in piazza e siedo sulle antiche panchine di pietra, ma mi accorgo che mai ci sono state foglie d’acero come queste, in autunno: ogni albero della piazza è una fiammata sull’azzurro del cielo. Ombre quiete, fruscio della brezza serale, tranquillità fra gli edifici bassi.
Siedo immerso nel silenzio e nei pensieri, lascio che questi passeggino per conto loro; un contrappunto che si snoda nella mente e sale in superficie, mi folgora con immagini chiassose. Non avrei mai pensato che alla mia età il tempo trascorso tornasse così sonoro. Se chiudo gli occhi, vedo meglio anche i colori del passato.
Ho calcolato che da queste panchine ho visto trentamila giorni.
In tutto il mondo occidentale la popolazione è invecchiata, le nascite si sono quasi fermate e ciò ha contribuito ulteriormente allo scombussolamento sociale. Le pensioni sono "scoppiate", la mano d'opera al 90% ci viene da altri paesi e così via, ma è inutile rimestare vecchi problemi.
Oggi qui in paese c'è qualcosa di insolito...
Ora verrà Antimo, sbucherà avanzando con il suo passo stanco dalla stradina laterale e insieme ci dirigeremo alla festa. Sono le 17:30, apparirà a momenti.
Una piccola folla incomincia a convergere da ogni angolo in placidi rivoli dai quali si formerà un lago. Sale un chiacchierio lieve come uno stormire lontano, quasi timido.
Eccolo, dev’essere lui. Avanza, ne scorgo il volto cotto, scavato da rughe. Mi raggiunge insolitamente serio, una manata sulla spalla:
— Ciao, Gabriele.
Gli faccio posto.
— Siedi cinque minuti, è ancora presto. Tutto bene?
Antimo annuisce con un sospiro.
Ci guardiamo intorno.
— Sono pronto — dice lui poco dopo. Ci avviamo con calma.
In mano ha un pacchetto-regalo, e anche io porto il mio. Imbocchiamo il corso, si è creata una folla, una marea di teste bianche che si incanalano verso il fondo di uno stretto viale alberato, dove si scorge il portoncino di una casa in pietra, bassa e antica.
— È qui — sussurra Antimo, come se non lo sapessi.
Gli sguardi delle persone che si accalcano e si muovono sono vivi, felici, per la novità. Ora si è creato un grande silenzio. L’unico suono è il leggero fruscio della brezza fra le piante. E finalmente, all'improvviso, dal portoncino esplode un pianto inconfondibile.
Quello del neonato.
Tutti battono le mani, gridano auguri, saltano. Cerco di non darlo a vedere, ma mi commuovo in silenzio.
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