Del mondo lowbrow, Di Filippo ricava l’atteggiamento irriverente di tutti i suoi pastiche postmoderni, e lo si è visto nella Steampunk Trilogy, che resta il suo libro più famoso3. Ma traducendolo, come pochi mesi fa è capitato a chi scrive, ci si rende conto di quanto sia forte il suo legame con la grande letteratura angloamericana. La terza novella della trilogia, Walt and Emily, è un’immersione nell’universo dei due poeti protagonisti, quasi un tentativo di letteralizzarne le metafore e il ruolo di genitori ideali di tante figure della poesia statunitense moderna, che finiamo per incontrare. E lo strumento più adatto all’obiettivo si rivela proprio il fantastico, che – oltre che invenzione – da sempre è stato anche ricostruzione e rielaborazione di miti letterari. Così, da un lato gli elementi fantascientifici e lovecraftiani servono alla satira verso le radici ottocentesche del nostro mondo; dall’altro, l’omaggio più commosso è quello a Emily Dickinson, che aveva trasformato in visione poetica il suo universo “privato” di autoreclusa in una cittadina del Massachusetts. Chissà che non sia lei (insieme all’altro recluso Lovecraft, proveniente dalla Providence, Rhode Island, in cui nasce e vive Di Filippo) il suo vero modello intellettuale. Di certo è ai modelli “alti” del romanzo postmoderno che fa riferimento Cosmocopia (2008), con i suoi giochi tipografici e l’inclusione di un puzzle con oltre cinquecento tasselli: e nel puzzle del romanzo troviamo alieni, universi paralleli e nuove forme d’arte. Ovunque in Di Filippo, protagonisti sono soprattutto gli sfondi, ovunque con allusioni, citazioni e rimandi: tutte le sue storie si portano dietro un’enciclopedia culturale. Dunque è giusto che dei grandi autori dell’Ottocento americano a ricevere frequenti omaggi sia Melville (che fa una breve comparsa anche nella Trilogia steampunk): la raccolta L’imperatore di Gondwana (2005) comprendeva una riscrittura di Benito Cereno, e la successiva Shuteye for the Timebroker (2006) include una novelette intitolata Billy Budd. Chissà se, prima o poi, Di Filippo non proverà a scrivere il suo Moby-Dick. L’enciclopedismo culturale è anche al centro di una sua rara incursione nella sceneggiatura per il fumetto, Beyond the Farthest Precinct (2005, con i disegni di Jerry Ordway), ambientato nell’universo della serie Top 10 creata da Alan Moore, comica variante di un cop show in una surreale città popolata da esseri superumani, ma ben poco eroici. Anche qui il divertimento si moltiplica per chi sa riconoscere le infinite piccole allusioni, fumettistiche e non solo, che affollano le tavole: dall’onnipresente Lovecraft a una versione robotico-ispanica di Bruce Springsteen. Per leggere e apprezzare Di Filippo, il prerequisito è l’amore per la cultura popolare, in tutte le sue forme4.
Moltissimi sono i racconti usciti negli ultimi anni, solo in parte riuniti nelle antologie Harsh Oases (2009) e After the Collapse (2011). Il tema è quasi ovunque la tecnologia e il registro è sempre l’ironia (che sempre più ci fa pensare a Sheckley). Due segnalazioni d’onore le riserveremmo alle protagoniste femminili di Pinocchia (2006, anche nella prima antologia) e Return to the Twentieth Century (2011, uscito solo in ebook per l’editore italiano 40k): qui la tecnologia non c’è, ma c’è una sfrenata storia avventurosa, in stile pulp, in cui a salvare il mondo è un’eroina chiaramente basata sulla biografia di Alice Bradley Sheldon aka James Tiptree, Jr., la grande autrice di SF femminista5.
Anche in questo A Princess of the Linear Jungle (pubblicato nel 2011 dalla PS Publishing, uno dei molti piccoli editori che negli Usa continuano a garantire uno spazio per la SF di qualità) la sfida per il lettore è la ricerca delle citazioni, insieme alle domande sulla vera natura della Città Lineare.
Nella nuova edizione online della Encyclopedia of Science Fiction, John Clute sceglie proprio i due “Linear City Romances” come culmini dell’ultimo periodo creativo di Di Filippo, e suggerisce di leggerli insieme (“la somma è maggiore delle parti”). Ed elenca le possibili soluzioni all’enigma della Città, di cui fa notare l’aspetto teatrale, e che più che a New York fa pensare a quello che Gibson chiamava l’Asse Metropolitano Boston-Atlanta, la megalopoli di cui è composta gran parte della costa atlantica: astronave generazionale, pianeta-astronave, artefatto creato per alloggiare gli abitanti di una Terra morente, esperimento di micro-universo utopico, fantasia “postuma”, la pelle di un’enorme essere vivente (un drago, forse)6. E ovviamente tutte queste possibili soluzioni richiamano il nostro sapere fantascientifico, dai padri fondatori fino a Farmer e a Jeter. L’avventura vera e propria è un omaggio a due best-seller dell’era pulp, precedenti alla nascita della SF moderna vera e propria: Edgar Rice Burroughs (evocato nel titolo e nell’epigrafe) e Abraham Merritt da cui prende il nome il protagonista. Dal passato provengono anche gli elementi steampunk. Ma gli scrittori che popolano indirettamente il mondo del racconto sono tanti: il recensore di SF Site menziona Aldiss, Conrad, Eliot e Haggard7. Lasciamo a chi legge la ricerca delle altre allusioni (da Jack Vance a Twain, da James Hilton a Jay McInerney, passando per Vonnegut, o forse Farmer), ricordando comunque di non fermarsi allo stile brillante e allo humor, e di accettare la sfida di una quest laicissima ma quasi metafisica, che – ne siamo certi – porterà ad altre esplorazioni, anche se questa ci sembra una storia il cui finale dovrà restare aperto.
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