Nell’aprile 2009, chi era presente alla Eurocon di Fiuggi ha avuto il modo di apprezzare la cortesia e il garbo umano di Geoffrey A. Landis, ospite insieme alla moglie Mary A. Turzillo (a sua volta scrittrice, poetessa e autrice di studi critici sulla SF). Il suo intervento, fra scienza e fantascienza, era stato pieno di entusiasmo per entrambi i campi, e di umanità.
Chi scrive incontrò per la prima volta il suo nome sulle pagine dell’edizione italiana di Asimov’s, in un numero antologico sulla realtà virtuale. Insieme a tante stelle letterarie, affermate o emergenti (da Silverberg a Lethem, passando per Kress, Cadigan, ecc.), il breve racconto di Landis Realm of the Senses (1990) spiccava per un’agra, audace originalità. Se troppi celebravano acriticamente la nuova frontiera letteraria e tecnologica, la fantasia di Landis osava partire dal virtuale per affrontare il tema dell’Olocausto: una storia di deportazioni e campi di concentramento che si rivelava nient’altro che la crudele simulazione di un mondo futuro alla ricerca di brividi e sensazioni. La società dello spettacolo – proprio Silverberg ce l’aveva già mostrato negli anni 60 – è fatta di mercanti di dolore.
A rivelare Landis al mondo della SF statunitense era stato un racconto di qualche anno prima, vincitore del premio Nebula, Ripples in the Dirac Sea (Asimov’s, 1988), tradotto in un Urania che riprendeva lo Annual Best curato da Donald A. Wollheim. In un’annata di gran qualità (fra le altre, storie firmate da Effinger, Watson, Brin, Pohl, Tanith Lee) il suo racconto aveva un respiro quasi epico nonostante la breve lunghezza, una ricapitolazione enciclopedica di tutte le storie e le teorie sui viaggi nel tempo, che solo il Palinsesto di Stross avrebbe avvicinato per ambizione: l’esplorazione della storia e la responsabilità delle interferenze nelle catene di causa ed effetto, i paradossi dei tentativi di manipolazione e il meta-paradosso che giustappone leggi rigide e la possibilità di infinite alternative. La fisica dell’antimateria di cui Paul Dirac era stato pioniere diventava lo spunto per una messa in scena quasi esistenziale: le entusiasmanti aperture della scienza della complessità non escludono il senso di impotenza.
Sin dall’esordio su Analog nel 1984, Landis è stato uno degli innovatori della hard science fiction, la fantascienza che mette al centro le metafore fornite dalle hard sciences: fisica, cosmologia, astronautica. Ma rispetto ai modelli classici, da Anderson, Clarke e Clement fino a Bear, Brin e Benford, l’investigazione di enigmi e la descrizione di scenari alieni si dipana sullo sfondo di una visione scientifica molto più sofisticata, con un’approfondimento dei personaggi spesso di intensità inattesa. A ospitare i suoi racconti, così, è anche una rivista di taglio più umanistico e letterario come Asimov’s.
Non è casuale, dunque, una parallela attività di autore di poesie a tema scientifico, spesso ospitate in riviste SF, che porta Landis a vincere per due volte il meno famoso dei premi fantascientifici, il Rhysling Award e – ci dice Wikipedia – alla pubblicazione di un volume intitolato Iron Angels (2009). Ma al centro della sua attività professionale è la carriera scientifica di ricercatore per la Nasa, con periodi di insegnamento universitario: l’energia solare e fotovoltaica, la propulsione spaziale, lo studio di Marte (partecipando a diversi progetti, dal Pathfinder ai primi Rover). Nelle sue prese di posizione pubbliche, l’esplorazione interplanetaria e interstellare rimane un sogno che vale la pena di perseguire.
Forse un poco sottovalutato per una produzione quasi totalmente composta di racconti – come Ted Chiang e pochissimi altri nella SF contemporanea, quasi annualmente presenti nelle shortlist di tutti i premi specializzati – Landis si muove tra storie rigorosamente scientifiche e altre in cui si aggiunge una sottile, raffinata vena di ironia. A vincere lo Hugo nel 1992 è A Walk in the Sun (Asimov’s, 1991), un classico dramma dell’esplorazione planetaria, che rivisita scenari e personaggi che non sarebbero dispiaciuti a Heinlein e Asimov, e che dimostra una lucidità di scrittore vero: se il lieto fine è doveroso per la giovane protagonista, unica superstite di un atterraggio di emergenza sulla Luna, c’è qualcosa di esistenzialmente angoscioso nella sua condanna a una fuga incessante per sfuggire, fino al salvataggio, alla letale “notte” lunare.
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